Quattro romanzi: Montanari, Landero, Schenk, Lunde
(Consigli di lettura agostani a pacchetti di quattro. Buon ombrellone, voi che potete. G.B.)
Raul Montanari, La vita finora, Baldini+Castoldi, 2018, 299 pagine
Innanzitutto: Raul Montanari è un grande titolista. Non c’è suo romanzo che non abbia un titolo evocativo, musicale, affascinante. La vita finora racconta la storia di Marco, un insegnante precario che trova un incarico in una scuola media privata in un paese dimenticato da Dio, imbucato in una valle lombarda. Posto dove si conoscono tutti e dove tutti sopportano il peso di una vita quotidiana segnata dal sopruso, dall’ignavia, dalla codardia. Dove si tramanda di generazione in generazione la prevaricazione e la sudditanza piuttosto che la solidarietà.
Marco lo scoprirà nel laboratorio di rapporti umani che è la classe dove deve insegnare. Divisa fra alunni fantasmatici, giudiziosi ma inconsistenti, e un piccolo branco di disadattati capitanati da un ripetente, Rudi, dall’intelligenza malefica. Burattinaio che muove i fili dei suoi accoliti, seguaci di una ridicola, e proprio per questa pericolosa, setta satanica.
Pochi gli alleati naturali del protagonista: una insegnante dalla sensualità solare e al contempo enigmatica, un prete sconfitto e disilluso, un anziano vicino di casa di origini balcaniche, ex criminale di guerra.
Il punto di forza di Montanari, come al solito, è la scrittura chiara, ineccepibile. I suoi romanzi sembrano opere di un artigiano attento, di un intagliatore, che scarta ogni ricciolo superfluo per concentrarsi sull’essenziale. È una scrittura elegante ma non leziosa, dove il lettore non ha distrazioni o impicci: deve solo accomodarsi in una lingua confortevole che lo accompagnerà nell’intreccio fino in fondo.
Infine, Montanari è un moralista. Lo dico come complimento. Ha un’idea, un’etica del mondo. Si pone di fronte al male, in questo caso incarnato dall’adolescenza dei nostri giorni (social e cyberbullista), come un giudice, e lo racconta. Spanventandosi e spaventandoci.
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Luis Landero, La vita negoziabile, Mondadori, 2018, 297 pagine, traduzione di Sara Cavarero
Quella raccontata da Luis Landero ne La vita negoziabile è una lunga confessione in prima persona di Hugo Bayo e della sua vita meschina. Hugo, Hughito per chi gli ha voluto persino bene, è un protagonisa ingombrante, onnipresente, autoreferenziale. Il mondo sembra si sia messo contro le sue aspirazioni, i suoi talenti, le sue passioni. Hugo è, a suo dire, una persona generosa, sensibile, intelligente. È la vita che si è accanita contro di lui, fin dall’infanzia quando la scoperta di una madre, fino a quel momento idealizzata, capace di tradire il marito per un falso medico lo catapulta nel mondo crudele degli adulti. E che dire del padre, quel bigotto sempre con la bibbia in mano ma da buon amministratore di condimini lesto con i suoi servigi a lucrarci sopra?
Hugo trova rifugio in un amico debole e in una ragazza mascolina. Le uniche persone che credono nei suoi sogni di grandezza, nel delirante mondo da adulto che vuole costruirsi. Ma la verità è che Hugo è un millantatore e un manipolatore. Perfetto esempio di una categoria umana contemporanea fatta di frustrati sempre pronti a scaricare le responsabilità e le colpe a qualcun altro.
Landero, in questo senso, ha davvero coraggio. Ci obbliga a segure la vita di un protagonista profondamente antipatico. Un ragazzo e poi un giovane uomo, senza alcun talento, se non quello istitivo d’essere un buon parrucchiere. Ma l’ego ipertrofico di Hugo non può accettare d’essere un semplice artigiano. Ogni volta s’imbarca verso nuove avventure finanziarie, capricciosamente, senza costrutto alcuno. Gli basta crederci. Coinvolgendo e spesso sconvolgendo, chi gli sta a fianco.
Lo ha fatto con la madre, il padre, con l’amico, con la fidanzata. Tutte vittime di un crudele innocente, di un angelico imbroglione, di un malmostoso contemporaneo, così simile a molti di noi.
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Sylvie Schenk, Veloce la vita, 170 pagine, Keller editore, 2018, traduzione di Franco Filice
Louise è cresciuta nelle Alpi francesi in un ambiente tradizionale e soffocante. Conoscerà la città e la modernità quando decide di studiare all’università di Lione. Quella è l’età degli incontri imprescindibili di ogni persona. Amici, sodali, confessori, fidanzati. Fra questi Henri, un pianista inquieto, tormentato dalla perdita dei genitori durante l’occupazione nazista, e Johann, un tedesco amante della cultura francese. Alla fine è con Johann che Louise sceglie di vivere. Ciò significa lasciare la Francia, conoscere una terra e una lingua nuova, nuove abitudini, nuovi paesaggi. Louise, per amore lo fa. Al punto che conquista la nuova lingua fino a farla diventare sua, fino a scrivere direttamente in tedesco.
Veloce la vita è un romanzo che fa del confine e del conflitto il motore drammatico di una storia all’apparenza semplice. Quella di Louise è la generazione della ricostruzione, che vuole mettersi alle spalle gli orrori della guerra, che conquista con fatica il sesso, la libertà, persino la leggerezza. Ma possiamo davvero dimenticare, vivere incoscienti, se molti dei protagonisti di quegli orrori – i fratelli maggiori, i padri, le madri – fingono di non aver fatto parte, spesso come protagonisti, a quella tragedia europea ancora incombente?
Sylvie Schenk è francese ma scrive in tedesco. Il suo è a tutti gli effetti un romanzo, ma le similitudini con la sua biografia si sprecano. Forse è per questo che ha deciso di rivolgersi alla sua protagonista utilizzando la seconda persona singolare. Un “tu” che si mette a metà strada fra l’“io” ingombrante dei memoir e il “lei” estraneo della finzione. Un “tu” che è uno specchio che riflette deformata la realtà, un punto di contatto fra le due forme di scrittura, al punto che il lettore non sa più da che parte del confine si trova, leggendo.
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Maja Lunde, La storia dell’acqua, Marsilio, 346 pagine, 2018, traduzione di Giovanna Paterniti
Sempre più romanzi, negli ultimi dieci anni, stanno raccontando storie ambientate in un futuro per nulla distopico, dove le conseguenze del nostro scriteriato modo di gestire l’ambiente avrà conseguenze terrificanti. Gli scrittori, si sa, sono sismografi che percepiscono le vibrazioni telluriche delle paure collettive. Quelle profonde, reali, a differenza della demagogia imperante occupata a mettere in scena solo le paure superficiali, contemporanee.
Maja Lunde ha progettato una tetralogia sui temi dell’ambiente di cui La storia dell’acqua è il secondo capitolo dedicato al bene più prezioso e che diamo troppo per scontato: l’acqua. Il romanzo è strutturato su due storie che si alternano di capitolo in capitolo. La prima, ambientata nei nostri giorni, racconta di Signe, una anziana attivista norvegese sempre in prima linea per difendere l’ambiente dove è cresciuta, che decide di intraprendere un viaggio, forse l’ultimo della sua vita, su una barca alla volta della Francia. La seconda racconta di David e di sua figlia Lou, in un futuro prossimo, il 2041. Il sud dell’Europa è devastato da una violenta siccità che determina lo sfacelo delle istituzioni pubbliche, la nascita di campi per milioni di profughi climatici, la fine del patto sociale e della solidarietà fra i sopravvissuti.
Le due storie sono legate labilmente da una sorta di passaggio di consegne di un carico prezioso presente nella barca di Signe. Barca che, impantanata nel canale arido, David e Lou ritroveranno un quarto di secolo dopo, per caso, fuori dal campo profughi gestito da ciò che resta della croce rossa. I capitoli di Signe sono i più ideologici e quelli di David i più romanzeschi, ciò rende un po’ altalenante la resa finale. Ma Lunde sa farsi leggere, ponendoci di fronte alla nostra indifferenza. Non è poco.
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(tutte le recensioni sono apparse su Cooperazione in vari numeri del 2018)
(Sbadiglio).