“Futilità” di Francesco Fiorentino – un’intervista all’autore e un estratto del romanzo
[È uscito da poco per Marsilio il romanzo Futilità di Francesco Fiorentino. Pubblico un’intervista all’autore e, a seguire, il primo capitolo del romanzo. ornellatajani]
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Da dove nasce l’idea di questo romanzo?
Probabilmente il nucleo originario del romanzo – e soprattutto il carburante emotivo – me lo ha offerto la vecchia BN [Bibliothèque Nationale di Parigi, n.d.r.]. Quel luogo miracoloso dove si erano succedute generazioni di studiosi e dove sedevano fianco a fianco matematici, storici, letterati… Aveva un fascino enorme su noi giovani che la frequentavamo. Rappresentava un concentrato di quel che era ancora Parigi a fine Novecento (e non è più da tempo). Sceneggiare là incontri, erotismo, invidie mi è parso naturale. Mi dava persino una certa euforia mentre scrivevo. Tutti quelli che frequentano abitualmente una qualsiasi biblioteca sanno come questo luogo, ritenuto austero, possa generare affetti, diventare una piccola patria.
Si è occupato di letteratura francese per tutta la vita, dunque è molto difficile, nel momento in cui descrive due dei suoi protagonisti «come i personaggi di un romanzo di fine Ottocento», evitare di chiedersi a quale romanzo in particolare stia pensando. In che modo la letteratura francese studiata ha influenzato la sua scrittura? E come si passa dalla scrittura critica a quella autoriale?
In verità in quel passaggio pensavo al finale dell’Età dell’innocenza di Edith Wharton, in una chiave naturalmente parodica. Credo in effetti che le mie letture di ottocentista siano state decisive, anche perché leggo poco i romanzi di ora. Quando scrivi in proprio, le tue letture si trasformano in una serie di motivi che non ti togli dalle orecchie. Mariolina Bertini ha postato su Facebook che il mio trattamento della mondanità le ricorda quello di Stendhal, facendomi arrossire. Certo, nonostante mi sia occupato come francesista soprattutto di Balzac, il suo intuito di critica ha colto una mia scelta deliberata: per l’ironia, per la penuria di descrizioni, per la scrittura magra (come la chiamava Lampedusa), questo romanzo è – nelle intenzioni, naturalmente – stendhaliano. Un altro romanzo amatissimo che non mi abbandona mai è Adolphe di Constant. A posteriori, rileggendo Futilità stampato mi sono tuttavia accorto di quanto abbia influito su di me lo studio delle Massime di La Rochefoucauld , di cui anni fa curai un’edizione. Non solo per la presenza nel romanzo di numerose massime, anche per il sospetto con il quale si guarda ai sentimenti, per il controllo delle emozioni, per la concezione della morale come eleganza. Tutti questi miei modelli letterari sono inattuali, come vede: ma chi ha mai creduto che la grande letteratura mancasse di attualità?
In questo romanzo ha scelto un uso dei tempi verbali particolare, con una predilezione per il presente e per il passato prossimo, che ancorano la narrazione al momento attuale, e una quasi totale esclusione del passato remoto, il che rievoca, di nuovo, consuetudini sintattiche più francesi. È stata una scelta voluta?
In francese, un grande scrittore come Modiano racconta al presente e passato prossimo. Qualche lettore mi ha detto d’essere sconcertato da certe combinazioni di tempi verbali. Il presente è il tempo della scena e della voce narrativa che commenta. Le due forme predilette in Futilità che ha pochissime descrizioni. Elimino il passato remoto e cerco di abbandonare l’imperfetto appena possibile, senza però forzature avanguardistiche che mi sono estranee. Li sento letterari. L’imperfetto da un paio di secoli, anche grazie alla sua duttilità, è la forma verbale dominante del canone romanzesco. Per i suoi inarrivabili esempi flaubertiani e proustiani, è anche percepito abitualmente come un tempo verbale chic.
Dopo due romanzi polizieschi scritti a quattro mani con Carlo Mastelloni [uno dei quali recensito qui], Futilità è il primo romanzo completamente di suo pugno. È il romanzo di una vita? Da un punto di vista critico, le sembra che questa definizione abbia una qualche utilità o interesse?
I polizieschi scritti con Mastelloni sono stati una sfida: appoggiandoci a un genere forte, abbiamo raccontato storie, ambientate in una certa città e a una certa data, che rappresentano, secondo noi, svolte nella Storia nazionale: Trieste negli anni Cinquanta della guerra fredda, Napoli del dopoterremoto. E la sfida è stata anche scrivere a due mani: amici da sempre, siamo molto diversi e nella vita ci siamo occupati di cose diverse. Questo romanzo, per quanto breve, nasce da un lavoro di molti anni che non poteva essere che individuale. Non è un romanzo di autofiction anche se conosco bene gli ambienti e i sentimenti di cui parlo. Da una parte tratto il protagonista senza alcun riguardo, dall’altra il romanzo non si concentra solo su di lui. Molte delle cose più interessanti le dicono e fanno altri. Non è il romanzo di una vita, ma solo della mezza età maschile. Sofia, sebbene sia giovane, è completamente coinvolta in questo universo. Che uomini di mezza età abbiano una psicologia amorosa è un fatto relativamente recente. Questa prerogativa – almeno nei romanzi dell’Ottocento – è appannaggio di giovani o di donne adultere. Il prossimo romanzo lo vorrei scrivere a partire dalla gioventù, stagione, questa, ancora più decisiva nella vita individuale. Con più racconto e meno commento, come si addice a storie di giovani. Vede, il fatto stesso che progetto un nuovo romanzo, per di più su un’altra età, dimostra che questo non è il romanzo di una vita. Almeno non della mia.
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Se un marito s’innamora di un’altra, invia avvertimenti che vengono recapitati puntualmente anche alla più distratta tra le mogli.
Chiara lo aspettava alla stazione. Già salutandosi da lontano erano imbarazzati: lui si è limitato a un cenno del capo e a un sorriso mentre lei ha iniziato a saltare sul posto. Quando si sono avvicinati, fuori da ogni consuetudine, ha goffamente cercato di baciarlo sulle labbra, poi lo ha preso per mano incamminandosi verso l’automobile. Nel tragitto verso casa, lui le chiedeva di Roberto e del loro lavoro; lei, visibilmente irritata per quelle digressioni, tornava a parlare del suo soggiorno a Parigi, di quando pensava di tornare, di come si sentiva sola.
“Se devi restare ancora per qualche tempo, ho pensato che vengo a stare io da te. Posso prendermi un congedo dalla clinica”. Era andata dal parrucchiere e si era truccata gli occhi. Il suo bel volto di quasi cinquantenne colta, riuscita nella vita, si era increspato agli angoli della bocca. Lo sguardo era offuscato in una espressione di spavento che lui le conosceva per averla vista la sera in cui era morto suo padre. Forse aveva sempre avuto paura che succedesse proprio quel che le stava succedendo.
Quando ha spento il motore dell’auto e mentre era impegnata con la chiave dell’antifurto che non ha mai saputo inserire con disinvoltura, Ugo le ha detto che preferiva restare ancora un po’ da solo a Parigi. Che questa separazione gli stava facendo bene.
Chiara e Ugo appartengono a quel genere di coppie che hanno eletto la litote a figura regina del loro lessico ordinario. Prima ancora d’ogni altro imbarazzo, ha provato stupore a sentirsi chiedere a bruciapelo:
“Hai un’altra?”
“Che vuoi dire?”
“Quello che ho detto. Ti sei innamorato di un’altra donna?”
Mentre restava perplesso, quell’altro se stesso che aveva sentito proporre a Sofia di venire a Parigi, ha ripreso la parola e non gli è rimasto che ascoltarlo sgomento mentre ammetteva sfrontatamente che si, c’era un’altra di cui si era innamorato e con cui voleva provare a stare assieme. Il verbo provare era l’unica concessione, peraltro misera, che ha fatto.
“Allora pensi proprio che sia finita tra noi?” ha sussurrato guardandolo fisso negli occhi. Sperava in una protesta che le permettesse di toccare terra, di trovare una piattaforma minima da cui partire per una campagna di riconquista.
Prima ancora che cercasse di rassicurarla, di dirle che per carità lei è e resterà sua moglie, l’altro, il parlatore, circospetto come un assediato, le ha ribattuto freddo un: “Non lo so. È proprio quanto voglio capire” che ha precipitato nello sgomento tutti e due.
Roberto non ha cenato con loro. Ugo ha inutilmente provato a parlare di spettacoli parigini, dell’Europa dei salotti, della clinica psichiatrica. Tentava persino di fare dello spirito. Contro quell’altro sé sconosciuto a tutti e due che si era arrogato il diritto alla parola nei momenti decisivi, voleva provarle che potevano continuare a conversare come sempre, che non doveva preoccuparsi troppo di quel che gli stava accadendo. Lei proprio non ce la faceva a raccogliere questo messaggio rassicurante che forse non doveva esserlo poi tanto. Ostentava un’espressione lugubre e gli rispondeva a monosillabi. Voleva parlare solo di una cosa. Non la fermava neppure il rischio dell’indiscrezione. Eppure, loro di casa allo stile ci tengono.
Ha cercato di portare più volte il discorso su Roberto finché lei lo ha interrotto:
“È un bambino, per di più nevrotico. Mi debbo continuamente occupare di lui. Non ce la faccio più a fargli da balia”.
E così hanno parlato di quella che eufemisticamente chiamano la nuova situazione. Subito si sono delineate due strategie argomentative. Lui denunziava all’origine della crisi difficoltà del loro rapporto. Le chiedeva di ammettere che c’erano ragioni per separarsi e quasi sbalordiva che non ne convenisse. Lei gli rispondeva che il loro rapporto era passabilmente prospero e che soltanto questa sua passione era responsabile di ciò che stava avvenendo. Messo davanti a una sorta di aut aut (“allora dobbiamo separarci subito”), l’altro che parla da dentro di lui si è di nuovo intromesso affermando che, sebbene fosse sicuro di sbagliare, comunque non se la sentiva di sottrarsi a quest’amore appena intravisto. Allora Chiara si è messa a sostenere che lui non amava una nuova donna, ma voleva soltanto liberarsi di lei.
Ugo ha commentato: “Vedi, gli argomenti contano così poco in questi momenti che ce li possiamo scambiare”.
Ma Chiara ha reclamato il diritto a capire cosa stesse accadendo.
Erano le tre e mezza quando Ugo si è ritirato nel suo studio. Dietro la porta chiusa ha provato un sentimento di liberazione. Il più era fatto: non restava che attendere l’indomani e partire. Resistere ancora per poco, non commuoversi, non guardare. Si dava forza con il pensiero che stava facendo questo anche per Chiara. Che quando tutto sarebbe finito anche lei avrebbe dovuto riconoscerglielo. Improvvisamente si accorge che sta pensando come quello che parla al suo posto nei momenti decisivi. Che lo starà colonizzando?
Ha riempito il cestino della carta straccia di volantini pubblicitari e resoconti bancari, accumulatasi nella posta. La sua sedia, quella scrivania cui era rimasto seduto per giornate intere gli sembravano estranee, pronte ad accogliere un’altra persona.
L’ha raggiunta che era già a letto e guardava fisso davanti a sé.
“Non credevo che fossi il tipo di cinquantenne che si mette con una di venti anni”. La sua sembrava ancor più che una riprovazione morale, una censura di gusto.
“Ma chi ti ha detto che mi sono innamorato di una ventenne?”.
Si è voltata per non rispondere. Le ha ripetuto la domanda arrabbiato. È scoppiata a piangere. Si è chiusa in bagno e poi è andata a dormire sul divano.
L’indomani mattina quando si è svegliato, era già uscita.
Se i matrimoni si rompono, è sempre per i soliti scontati motivi. È molto più difficile capire come resistono.
Una cosa tuttavia si può dire. Si continua a restare assieme soltanto a condizione, necessaria ma non sufficiente, che si rispetti un tabù. La più ovvia di queste astensioni è prescritta dal codice civile. Chi la trasgredisce commette peccato e insieme viola quanto ha stabilito per contratto davanti alla Legge. Non è detto tuttavia che l’infedeltà sessuale sia l’unico tabù; anzi a volte non è neppure tale.
Le condizioni più o meno tacitamente accettate possono essere varie e di varia natura. Che non ci si innamori, che non si passino le vacanze con l’amante, che non si confessi l’adulterio o non lo si renda pubblico, che non si facciano regali troppo costosi all’altra, che non si abbandoni il domicilio… Conosco due che, pur detestandosi, sono rimasti sposati tutta la vita perché non potevano dire ai rispettivi genitori che si erano lasciati. Quando i vecchi sono morti, era troppo tardi.
Una decina d’anni di matrimonio sono bastati a rendere Ugo e sua moglie l’uno per l’altra persone di famiglia. Si amano come se la natura e non una scelta li avesse assortiti nella stessa casa. Le loro condivisioni partono da ricordi e gusti e si estendono fino ai cassetti della biancheria. Soprattutto sono abituati a dormire nello stesso letto.
Intorno ai cinquant’anni tuttavia una tranquilla vita domestica, che per le generazioni precedenti rappresentava un traguardo, non è più in grado di cancellare altre aspettative. Per potersela consentire senza deprimersi, a quest’età i coniugi moderni devono procacciarsi qualcosa che li impegni senza tregua. Si concentrano nella carriera, si sfiancano ad accudire figli delicati, si sciupano in avventure, si trasformano in turisti coatti, intessono intense frequentazioni mondane. Senza però nessuna garanzia che la loro relazione non si trasformi lo stesso in un inferno.
Ugo e sua moglie, che non hanno figli, si sono trovati un terzo. Roberto, di qualche anno più giovane di loro, passa con Chiara la maggior parte del suo tempo. Non si vedono infatti soltanto in ospedale, dove lavorano nello stesso reparto, quando partono per i congressi o scrivono assieme un articolo. Roberto, dopo essersi lasciato con la moglie che non sopportava la sua intimità con Chiara, da circa sei anni abita un appartamentino sul loro stesso pianerottolo. Cena spesso con loro, vede le partite alla televisione con Ugo, accompagna volentieri Chiara a fare la spesa. Sono un vero e proprio ménage à trois, senza nulla di piccante, molto abitudinario. Roberto è un buon amico che gli vuole sinceramente bene e si rimette spesso alla sua esperienza quando si tratta di pagare le tasse o di dirimere conflitti con colleghi. Tra loro non c’è alcuna rivalità e le rispettive influenze sulla vita di Chiara sono delimitate in sfere dalle circonferenze non intersecantesi. Lui non si sognerebbe di accompagnare la moglie a un Congresso di Psichiatria e Roberto non oserebbe accompagnarla a comprare i divani di casa. Se parte, presume che passino la notte nello stesso letto, ma mai se lui è in casa potrebbero dormire assieme. È questo infatti il principale tabù su cui si regge il loro matrimonio. Nessuno può dividere il letto con altri se il coniuge dorme sotto lo stesso tetto. Un tabù in fondo vale l’altro.
Provate voi a spiegare a una ragazza di venticinque anni un matrimonio così. Contraddice tutte le idee che si è fatta in ventitré anni di televisione. Altro che morale o religione. Tutta la saggezza catodica regolarmente assunta grazie a una interminabile serie di telefilm e di varietà, si erge come un immenso altare che le impedisce di concepire simili nefandezze. Un marito che tollera il tradimento casalingo della moglie non può essere che un pervertito o un cinico affarista che si preoccupa soltanto di accumulare denaro. Una donna così, cioè una puttana, prima o poi spingerà l’amante a uccidere il coniuge. Quanto poi al giovane che viene irretito in un simile ménage, è inevitabilmente una vittima, un debole, uno da compatire.
“Ma non è un tradimento perché non mi sottrae niente che io desideri”.
“E non ti importa neppure di essere considerato un cornuto?”
“Non mi sono mai pensato così né mi importa molto di chi potrebbe considerarmi tale”.
“Se non fate più l’amore, che cosa fate assieme?”
“Stiamo insieme da tanto tempo. È un piacere anche questo.”
Certo non è facile descrivere sentimenti amorosi diversi dalla passione senza essere stucchevoli e un po’ deprimenti.