I poeti appartati: Antonio Arevalo
Danza di fuoco
di
Antonio Arevalo
a Esteban Villalta Marzi
Esiste un fuoco che brucia più forte di altri.
Esiste anche un tipo di sangue più caldo di altri.
C’è il DNA delle persone vere.
Esiste un meridione che rimane a est del mondo.
El dorado è qui a tre passi da casa.
C’è anche un limite per tutto e un cuscino disposto a predisporsi
per noi.
Esiste anche un incubo per ognuno.
Ieri – ad esempio è venuta un’amica direttamente dall’India
con la missione
dice di farmi vedere un anello mutato miracolosamente.
Ho in mente l’ultimo chiodo della mostra di Francisco a Santiago.
Mi piange il cuore.
Ho un’amica a Belgrado ma è meglio non pensarci.
I miei occhi penetrano i tetti veneziani che si vedono dalle finestre
di palazzo Carminati.
Più in là esiste un orizzonte.
Nebuloso, ma orizzonte.
Un rubinetto perde acqua.
Penso alla tortura della goccia.
Ci sono lacrime che non finiranno mai.
Ci raccontano notizie.
Ci sono cecchini dappertutto.
Mi fa male il collo.
Le ossa hanno uno strano modo di rapportarsi con l’umidità .
Cerco nei libri la maniera di poter rubacchiare qualcosa per
cambiare argomento.
Negli argomenti sta la chiave delle cose.
Tuo padre era un bravo pittore.
Racconto a Silvano della guerra civile e del 1927.
Della dispersione nelle diverse città.
Ieri Patty Smyth ha cantato in piazza.
Strane le città.
Le abitano strani personaggi.
La gente comune non ha niente di comune.
In questa città ci sono in giro dei commenti.
C’è chi coltiva cose rare.
Tu sei un coltivatore di queste cose.
“oltre a un evidente evolversi
della concezione della vita e dell’arte,
vi si nota il proposito dell’artista di affiancare
allo spirito sarcasticodemolitore
un non del tutto dissimulato proposito costruttivo”
In questo sguardo c’è del futuro? Mah.
Il tuo studio brulica di scene.
Di personaggi vari.
Ricordo te seduto dando le spalle a un grande dipinto
che ho pubblicato a Madrid.
In Spagna la luna non era solo un pianeta.
Ricordo il nostro viaggio e la tormenta di neve
che ci coprì il paesaggio.
Si è formata in me, sotto questi influssi, una concezione completamente
diversa di tutte le cose.
Si usciva la sera cercando di perdersi.
Cercando di incontrarsi.
All’alba si tornava tutti.
Gli allori ce li prendevamo noi.
Non ho più fatto mattina da allora.
In anni successivi mi accadde talvolta di alzarmi,
e le stelle stavano là, così reali.
Le nostre storie si assomigliano.
Comunicano.
Comunisti i genitori.
Comunica la forma.
La forma comunista di comunicare.
La lingua comunica.
Gli spagnoli dall’oppressione franchista passarono
direttamente all’oppressione qualunquista.
Un qualunquismo con maturità.
Almodovariano.
Post qualunquismo?
David Byrne s’è impossessato della musica altrui.
Sembra sua.
Forse questo è il possesso.
A Roma si dice che tu sia madrileno.
A Madrid che tu sia romano.
Si dice poi che tu sia i personaggi che rappresenti in forma di
fumetto.
Nulla da ridire.
Da ridere nulla.
In Europa da un pezzo si è spento l’eco delle battaglie.
Domani andrò a cena su un’altana veneziana.
Si vede la laguna?
Racconterò di un testo nato così quasi per caso.
Di un’amicizia nata per caso.
Per cosa?
Di un timbro.
Di un accenno.
Di un fabbricante di favole.
Delle sue metropoli immaginate.
Del suo proprio e personalissimo labirinto di passioni.
Senza Sartre.
Senza Freud.
Senza Lacan.
Una nota come un assegno post datato
Caro Antonio, tempo fa mi hai scritto che mettendo ordine tra le tue fotografie in coppia on qualcuno degli innumerevoli tuoi amici artisti e non, volti noti o ignoti a tutti, non eri riuscito a trovarne una di noi due. Eppure ci siamo visti a Roma, Venezia,Torino, Parigi in circostanze poco circostanziate, più circhi che stanze in verità, come quella volta che performammo l’entrata nel mondo parigino dell’arte sbucando dal pavimento del piano terra della Galleria Hélène de Roquefeuil a Bastille, al vernissage dell’amico fraterno Tommaso Cascella. Dalla Bête étrangère/ Cervo Volante, a Paso Doble, da Sud a Nazione Indiana non c’è rivista tra quelle da me partecipate in cui non ci sia stata almeno una tua poesia, un testo critico, un saggio, una presentazione d’artisti.
Questo piccolo m’arricuord è giustificato dal fatto che qui parliamo di un libro che raccoglie trent’anni e passa di attività, ne lascia emergere per sottrazione il verso, la limpieza, come il titolo dell’opera/performance di Regina José Galindo che mi presentasti a Torino, in occasione della fiera d’arte contemporanea di Torino, Artissima e che pubblicammo su Sud. La sequenza che l’artista guatemalteca aveva dedicato al tema dell’oppressione, della tortura, del corpo, illustra a perfezione secondo me l’infinito “trattenimento” che Antonio Arevalo, qui mi rivolgo al lettore di Nazione Indiana, ha saputo costruire con la memoria, da pronunciarsi memorìa parola rubata a un magnifico verso di un altro poeta appartato, Eugenio Tescione, e che traduce bene questa ostinata arte dell’oblio, della fine della storia, da rintuzzare come la tela respinge la goccia di pioggia, il fazzoletto la lacrima. Tutto diventa esperienza e verso, l’esilio obbligato dalla dittatura di Pinochet, il dispatrio, la militanza artistica, perchè è nella storia, una storia della poesia che vuole bastare a se stessa, fare corpo poetico da sbarramento a quanto segue nel tempo – così l’esile corpo dell’artista guatemalteca faceva da diga allo spazio interposto tra la furia dell’idrante e il nulla- e questa volta
“Senza Sartre.
Senza Freud.
Senza Lacan.” a fornire un alibi alla morte.