Corpi anonimi in una stanza empia

 

di Luca Ingrassia

 

Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion c.1944 Francis Bacon 1909-1992

 

«Ero ossessionato dalla colonizzazione della nostra coscienza da parte dei media, in particolare nei paesi occidentali e capitalistici, la loro formazione delle nostre identità e la loro formulazione delle ansie che spingono a consumare: un fenomeno recente che ha avuto inizio solo alla fine della seconda guerra mondiale, quando la pubblicità e la produzione si sono amplificate e le aziende hanno dovuto creare bisogni. […] Al giorno d’oggi quell’equazione è dilagante, fuori controllo, culminando nella probabile distruzione del pianeta e degli esseri viventi – tutti gli orribili effetti sociali dei mass media sulla nostra coscienza e sul nostro senso di chi siamo sul pianeta. Ho avvertito che questo intero processo, assieme al fatto di lavorare come uno schiavo di basso livello salariato per la maggior parte della mia vita, era come essere stuprati: essere invasi, contro la propria volontà, da stimuli sui quali non hai controllo, sui quali sei impotente, mentre incidono sulla tua coscienza. Questo è il motivo per cui ho utilizzato la parola “stupro”, ho sentito che era questa  l’esistenza moderna.» 

Così  si è espresso in un’intervista Michael Gira, spiegando la genesi di “I Crawled”, dall’album “Young God” , brano composto in seguito alla lettura di Psicologia di massa del fascismo di Wilhelm Reich, e pervaso dagli umori che seguirono alla sconvolgente rielezione di Ronald Reagan nel 1984. Bisogna però fare prima qualche passo indietro. Le vicissitudini biografiche di Gira sono presenti ormai nelle innumerevoli interviste che si possono trovare ovunque nel web, o nel preziosissimo Swans: Sacrifice And Transcendence – The Oral History di Nick Soulsby,  ma vale comunque la pena citare alcuni passaggi importanti, esperienze che hanno segnato la sua formazione artistica. Michael Rolfe Gira nasce nel 1954 a Los Angeles. I genitori non sono molto presenti durante la sua infanzia, si ritrova spesso coinvolto in risse, atti di vandalismo, furti, passa da un riformatorio all’altro, si droga, a dodici anni è già assiduo frequentatore dell’LSD, a quindici si ritrova a vagabondare per tutta Europa, finendo poi in Israele, dove viene arrestato per possesso di hashish. In prigione, a quella tenera età sperimenta già la solitudine estrema, il lavoro pesante nelle miniere di rame, è testimone di stupri, torture, abusi, si confronta faccia a faccia con la violenza poliziesca, mentre il suo odio per ogni forma di autorità continua a crescere irreversibilmente. Ma nella biblioteca della prigione scopre la letteratura, scopre Genet, Sade, Wilde. Dopo alcuni mesi viene liberato e riportato negli Stati Uniti. Ritornato a Los Angeles, decide di dedicarsi totalmente all’arte. Lì, nella Los Angeles “vulvica”, come la chiama in uno dei più suggestivi racconti de Il Consumatore, la Babilonia di Anger, disperata e spietata come quella di Ellroy, vi è in corso un’esplosione, un vulcano che minaccia di distruggere non solo la città, ma tutta la nazione, il mondo intero. E’ il 1977 e il nome del vulcano è Punk, proprio nel punk il giovane Michael trova la sua vocazione, la prima fonte di ispirazione musicale, e come tanti altri  decide di cavalcare quell’onda anomala. A Los Angeles si occupa di pubblicare una delle primissime riviste indipendenti, No Magazine, organizza anche performance artistiche estreme, ispirate agli Azionisti Viennesi, ad artisti come Vito Acconci, Chris Burden, Bruce Nauman. Nel 78 prende parte ad una delle sanguinose e scioccanti aktionen del dionisiaco Hermann Nitsch, talvolta interrotte dalla polizia. Tuttavia, l’ambizioso Michael comincia ad annusare qualcosa che viene da molto più lontano, dall’altra parte del continente, sa che lì qualcosa sta succedendo e lui vuole essere presente. La New York dei primi anni Ottanta è la città di Basquiat, di Jarmusch, di Haring, contraddittoria, violenta, eroinomane, povera e sporca come nei racconti di Hubert Selby Jr,  ma è in quel degrado invivibile che le chitarre, le voci ed i sassofoni digrignanti della cosiddetta No Wave vengono alla luce, scuotono le strade e gli edifici, denunciano il caos urbano, lo esorcizzano, lo destrutturano, ricostruendolo da cima a fondo attraverso la ricerca sonora esasperata . Gira lavora lì duramente come operaio edile, vivendo ai limiti della povertà assoluta, in un monolocale stretto e buio, circondato da droga e criminalità,  incontra i Sonic Youth, Glenn Branca,  fonda la sua prima band, i Circus Mort, che poi scioglie per creare gli Swans. Il resto è storia, il resto è musica.

Nigredo, il nero, cuore di tenebra dell’uomo,  la notte oscura dell’anima, quella che l’iniziato deve attraversare per cominciare il proprio cammino verso la luce, l’unione del suo sé con il  vero Sé, il Divino. «Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta», scriveva Hegel. Solve et coagula. Scomponendo la sua materia, riducendola agli elementi primitivi, al caos primordiale, eseguendo la discesa negli inferi, tra la perdizione, la degradazione, l’annientamento, la putrefactio. E’ la morte iniziale, ma una morte apparente, come tutte le morti, che è tuttavia necessaria alle transmutazioni successive. Gli scritti de Il Consumatore, finalmente tradotto e pubblicato in Italia da Double Nickels, appartengono a questa fase oscura della vita di Michael Gira. Alcuni furono stampati in edizione limitata nel 1985, in un libriccino illustrato da Raymond Pettibon, col titolo di Selfishness. «Tutto si fonde, prima o poi; tutto è organico. Non è possibile distinguere una cosa da un’altra. Quando la tua mente viene svuotata dall’egoismo, si sbriciola e si dissolve nell’acqua». Così esordisce uno dei racconti  più commoventi della raccolta, “Perché ho mangiato mia moglie”, dove il cannibalismo non è che il tentativo disperato di un uomo distrutto dal dolore di unirsi alla sua amata, senza la quale la sua intera esistenza è inconcepibile. Come lui, i protagonisti di queste pagine manifestano la ferrea volontà di consumarsi, di dissolversi e sparire, ossessionati dall’immagine di sé, che non riconoscono, che rifiutano, nella quale alla fine sono comunque destinati ad affogare come Narciso nello Stige,  vogliono fondersi con un Altro, che può essere sia un altro corpo, una stanza, un’immagine, un ricordo, sia un altrove ben definito, sempre qui, non un Aldilà ideale ma questo pianeta, dal quale non si sfugge, no, non si può sfuggire da questa terra dove tutto ciò che è solido si decompone, si liquefà, per cambiare forma ulteriormente, dove tutto scorre, pus, piscio, merda, sudore, sperma, sangue, alcool, veleni, succhi gastrici, muco, scarichi industriali, lava vulcanica, un Tutto liquido che sommerge la coscienza, della quale non è che l’inevitabile estensione. La lacerazione assoluta è al di là del bene e del male, richiede i metodi più crudeli, i più inimmaginabili. L’orrore cosmico vibra in ogni giuntura del mondo, vive su qualsiasi superficie, su qualsiasi corpo vi è  già scritta l’ardua sentenza, la profezia funesta. Perché dunque non accelerare il processo, infine, abbracciarlo totalmente? «Per giungere al colmo dell’estasi in cui godendo ci perdiamo, dobbiamo sempre fissarne il limite immediato: l’orrore» , suggerisce George Bataille.

L’orrore nei racconti di Gira ha proporzioni lovecraftiane, ma laddove Lovecraft non osava inoltrarsi e descrivere, rendere il lettore testimone oculare di tutti gli eventi, qui ogni cosa viene sputata, sbattuta in faccia, nulla sfugge al lettore, né allo scrittore, che ha nei confronti delle sue creazioni lo stesso sguardo distaccato del medico che osserva un cadavere in obitorio per cominciare l’autopsia. Ciò non fa che rendere ancora più spaventosa la narrazione, che sebbene faccia  uso di metafore molto pittoresche, dal sapore arcaico, quasi decadentista, rimane comunque lucida e scarna, kafkiana, come sono kafkiane le metamorfosi alle quali si assiste, soprattutto negli scritti più brevi della seconda parte, perturbanti come le scene dell’esecuzione capitale che lo scrittore ceco descrive ne “La colonia penale” . Si discende in città, foreste, deserti e stanze devastate e desolate, nei bassifondi, nelle viscere corrotte ed inquinate di un mondo come il nostro, vicino ormai alla fine, dove niente è vero e tutto è permesso, in quelle lande selvagge ritratte dalle pupille oppiacee di William Burroughs, nel Meridiano Di Sangue di Cormac Mc Carthy, «regioni poste al di là della ragione umana, dove l’occhio si perde e la bocca sbava e si contrae». Si è combattuti tra il proseguire la lettura o fermarsi, prima che sia troppo tardi ed il peggio arrivi. «Non che l’orrore si confonda mai con l’attrazione, ma se non può inibirla, distruggerla, l’orrore rafforza l’attrazione! Il pericolo paralizza, ma se è meno intenso può eccitare il desiderio. Noi non giungiamo all’estasi se non nella prospettiva, sia pur remota, della morte, di ciò che ci distrugge». L’osservazione di Bataille esprime pienamente il conflitto che i personaggi di queste pagine attraversano e poi superano, naturalmente con conseguenze devastanti. Sono creature indefinite, perdute, sempre in bilico tra l’essere ed il non essere, tra la vita e la morte, sono soltanto voci che abitano corpi, corpi che abitano voci. Corpi anonimi in una stanza empia. Corpi soli, abbandonati, corpi malati, imprigionati in una carne che sentono estranea, mutilati, bruciati, violati, che perdono consistenza, deragliati da una mente senza controllo che li deforma e che deforma tutto ciò che li circonda, corpi senza controllo che vivono solo come immagini di qualcun’altro, riflessi, lontani e opachi, ombre di pensieri che brulicano come vermi, cibandosi di ogni stimolo, ogni informazione esterna ed interna, ogni stato di coscienza possibile, divorando se stessi, divorando tutto ciò che incontrano. Sembra che attraverso la scrittura Gira manipoli  i suoi personaggi così come Francis Bacon manipolava sulla tela i soggetti dei suoi dipinti. Ci si ritrova in un incubo cronenberghiano: non c’è limite alla carne. Non c’è neppure limite all’incubo. La carne urla, esplode, vuole farsi spazio assoluto, uscire dai contorni umilianti dello spazio esistenziale nella quale è racchiusa. «Non disprezzo tanto le condizioni della mia vita, quanto l’esistenza della mia carne». Oggetto e soggetto si confondono, mentre le carni e le menti confluiscono in esseri senza scopo, senza identità, entità estranee, inumane, che in alcuni casi assumono sembianze animalesche, ululano, ringhiano, nitriscono. In “Alcune debolezze” compare un essere mezzo uomo e mezzo mucca. Il maestro di cerimonia in “Un sacrificio” ha «un busto umano che si innalza dal corpo di un toro». Il mondo animale non è perciò lontano da tutti coloro che vivono attorno ad esso, anzi, condividono caratteristiche molto simili, tali da chiedersi dov’è che finisce l’umano e dov’è che comincia l’animale, come nel racconto in cui le ennesime vittime devono decidere se venire uccise dai cacciatori antropofagi o dalla bestia misteriosa nascosta nella foresta, che si rivolge a loro «con voce umana, simile a quella di una bambina innocente». Talvolta l’animale è persino un rifugio, la dimora purificatrice di una nuova possibilità, una vita ulteriore. «Ora sono al sicuro», pensa emblematicamente  il ragazzo anfetaminico che si nasconde nel ventre di un cavallo che ha appena ucciso, mentre attorno a lui la follia distruttrice della civiltà moderna si abbatte definitivamente sulla città in fiamme, come una nube tossica, travolgendo e contaminando tutto ciò che può. Crollata la civiltà e tutti i suoi limiti, dunque, crollata l’identità, qualsiasi possibilità di identificazione con l’ambiente, con gli oggetti, coi propri pensieri, rimangono solo la paura, l’indifferenziato, ed il successivo impulso totalitario a voler riprendere a tutti i costi il controllo sulla realtà. Ma quale realtà rimane?  Quel che viene percepito è davvero reale? Si tratta soltanto di allucinazioni? Cos’è la realtà? 

 

Edward Kienholz: The State Hospital

 

Sarebbe errato considerare questi scritti, nonostante le loro imperfezioni, come cataloghi pornografici di nefandezze qualsiasi, atrocità ballardiane assemblate ed esposte soltanto per scioccare, disgustare, nient’altro che frutti marci del godimento perverso di chi li  immagina e li scrive. Si dovrebbe altrimenti pensare la stessa cosa di opere cinematografiche come “Salò” di Pasolini, dei dipinti di Bacon o delle performance degli Azionisti Viennesi, immaginari con i quali  Il Consumatore ha molto in comune. Bisogna insistere invece sulla sottile ma evidente denuncia politica, della quale i personaggi sono portatori, consapevoli o non, ma senza moralismi di alcun tipo, senza proporre soluzioni né scegliere da che parte stare. Del resto, non possono: sono privi di volontà. «Si parla loro sempre come a bambini obbedienti. […] Separati fra loro dalla perdita generale di ogni linguaggio adeguato ai fatti, perdita che proibisce il minimo dialogo; separati dalla loro incessante concorrenza, sempre incalzata dalla frusta, nel consumo ostentato del nulla», così analizza spietatamente Guy Debord. Tre sono le Erinni che muovono la volontà dei corpi, reclamando il loro sangue: Spettacolo, Controllo, Consumo. Su di esse, la figura del Moloch per eccellenza, il Capitale, il Denaro, con i suoi altari sempre freschi ed il suo fuoco inestinguibile, Saturno che divora i figli e ne trasforma i corpi in valore speculativo,  plasma le carni adattandole a forme sempre più impossibili e insostenibili, così che i conduttori delle sue energie non si esauriscano nella presa di coscienza e nella rivolta. Come con il lavoro, la lobotomia per eccellenza.  «L’estetica del lavoro è lo spettacolo della merce umana», così cominciava ZYG (Crescita Zero), una canzone degli Area. In questo teatro della crudeltà gli unici rapporti possibili che intercorrono tra gli uomini e le donne sono dettate dall’odio, dalla vendetta e dalla povertà. Produttore o consumatore, padrone e schiavo, cliente o prostituta, sbirro o prigioniero, ricco o povero, vittima o carnefice, oppresso o oppressore, non c’è altra scelta: mangiare o esser mangiati. «I soldi sono carne». Ognuno di loro tenta disperatamente di guadagnare qualcosa dall’altro, anche perdendo tutto, persino la vita stessa. La vendetta continua pure dopo la morte. Si lava il sangue col sangue. Sono costretti, dalle loro condizioni economiche, fisiche o psicologiche, a nascondere le loro debolezze, o a mostrarle, a seconda del bisogno momentaneo, a seconda di come debbano manipolare l’altro per i loro scopi, così che i ruoli si invertono continuamente, come in un rituale sadomasochista. Per far ciò, devono sempre negare la loro identità, che in tal modo è perennemente malleabile, totalmente dipendente dagli ordini e dalle immagini proposte da autorità esterne, dalla televisione, dalla pubblicità. Senza questi stimoli, sono perduti. «Ero stato strappato dalla libertà dell’infanzia per essere rinchiuso nel carcere che è la vita adulta, dove l’immaginazione e le potenzialità finivano quotidianamente risucchiate da un buco nel pavimento, mentre le percezioni e il corpo venivano spogliati lentamente d’importanza e mistero, lasciandomi stupido e ubriaco».  Il dolore e la solitudine che li abitano sono vasti, le loro mancanze non possono essere colmate da nessuna scienza morale o religiosa. Eppure vanno continuamente alla ricerca di un’esperienza che li trascenda, seppur con mezzi molto drastici e violenti, che li fanno accomunare alle iconografie dei martiri cristiani che si donavano estatici alle torture ed al rogo dei loro inquisitori. Ecco come riflette Terence Sellers ne La sadica perfetta: «Si può anche sostenere che sia il sadico sia il masochista sono coinvolti in una forma di meditazione, nel senso che entrambi accettano come prerequisiti la sottomissione del corpo e le sue prevedibili reazioni. Una tipologia di comportamento, questa, che ha avuto molta risonanza nel corso della storia, per esempio tra asceti e mistici della chiesa cattolica romana, che in segno di deferenza allo spirito umiliavano il corpo, rivendicando in tal modo una percezione purificata dell’Essere Supremo». Per i corpi de Il Consumatore tuttavia non c’è Essere Supremo, né fede o disciplina, nessuna rivelazione o redenzione possibile, se si ripudiano e si autodistruggono è piuttosto perché in questo modo possono sfuggire alle immagini mortificanti di sé che la società in cui vivono ha modellato per loro e su di loro. L’incapacità di comunicare, poi, non permette altro linguaggio che quello della perversione. Vale per essi ciò che Klossowski esamina attentamente in Sade, prossimo mio: «Il corpo in sé è il prodotto concreto dell’individuazione delle forze impulsive secondo le norme della specie. Trattandosi qui d’una denominazione del linguaggio, si può dire che quelle forze impulsive parlino in tal modo nel perverso: il linguaggio delle istituzioni s’è impadronito di quel corpo e più specialmente di quanto v’è di funzionale nel “mio” corpo atto a meglio rispondere alla conservazione della specie; che questo linguaggio abbia assimilato attraverso tale corpo il corpo che “io sono”, a tal punto che sin dall’origine “noi” ne siamo stati espropriati dalle istituzioni: quel corpo è stato restituito solo a “me stesso”, corretto in un certo modo, vale a dire che determinate forze son state da esso sfrondate ed altre asservite dal linguaggio: in modo che “io” posseggo il “mio” corpo esclusivamente in nome delle istituzioni, il linguaggio delle quali in “me” è semplicemente il sorvegliante. Il linguaggio istituzionale “mi” ha insegnato che questo corpo nel quale “sono” era il “mio”. Il più gran crimine che “io” possa commettere non è tanto togliere il “suo” corpo a un “altro”: è il por fine alla solidarietà tra il “mio” corpo e il “me stesso” istituito dal linguaggio. Per via di reprocità, quel che “io” guadagno, avendo anche “io” un corpo, “io” lo perdo subito, in rapporto all’altro, il cui corpo non “mi” appartiene. L’impressione di sentire il corpo come non proprio è con tutta evidenza specifico della perversione: benché il perverso senta l’alterità del corpo estraneo, sente in particolare il corpo altrui come se fosse il proprio, e quello che, normativamente ed istituzionalmente, è il proprio come realmente estraneo a se stesso, ovvero estraneo alla funzione insubordinata che lo definisce. Perché possa concepire l’effetto della propria violenza sugli altri, egli abita innanzi tutto negli altri, e nei riflessi del corpo altrui verifica il fenomeno dell’irruzione d’una forza estranea all’interno di “sé”. è nel contempo al di dentro e al di fuori.»

Il travagliato percorso iniziatico di Michael Gira e del suo lavoro con gli Swans presenta delle impressionanti corrispondenze con l’itinerario alchemico. La sua musica e le sue parole nel corso degli anni sono state sempre più infiammate da una insostenibile tensione spirituale, che ha portato le composizioni stesse da uno stato solido ad uno più liquido, dilatato, mantenendo comunque la stessa potenza degli esordi. Questa tensione sarebbe poi divenuta evidente nel nome di un suo breve e tardivo progetto, nato in seguito al temporaneo scioglimento degli Swans nel 1998: Angels Of Light. Egli dedica inoltre il mastodontico “Soundtracks For The Blind” al padre, che sarebbe morto di lì a poco, utilizzando persino registrazioni della sua voce. Il primo album degli Swans dopo undici anni di pausa recita: “My Father Will Guide Me A Rope To The Sky”. Le tracce,tutti gli archetipi di questa magnum opus si possono individuare superficialmente anche nell’aspetto e nei colori che gli artworks di alcuni album assumono nel corso di più di trent’anni di carriera. Si comincia dal nero di “Filth” (nigredo), poi si giunge al rosso di “The Great Annihilator” (rubedo), al bianco di “To Be Kind” (albedo), infine al giallo di “The Glowing Man” e “Leaving Meaning” (citrinitas). Anche se non disposti nell’ordine tradizionale, i cambiamenti di colore, di elemento, le trasformazioni della tradizione ermetica sono comunque complete e mostrano con esattezza tutta la lavorazione, i mutamenti di forma e di sostanza del progetto di un artista che ha sempre sofferto questo conflitto, che è proprio di ogni essere umano, tra la perdita dell’io, l’abbandono, la minaccia dell’estinzione, ed il controllo ossessivo e paranoico,  inevitabilmente distruttivo, su di sé e sul mondo. Nei testi, ma anche nelle più recenti interviste, Gira non ha mai nascosto le sue paure nei confronti del tempo, dell’ineluttabilità della morte, il riavvicinamento alla religione, alla lettura della Bibbia, l’interesse per il buddhismo. Il Buddha e San Giovanni Della Croce vengono citati nella canzone Annaline. L’ultimo album ,”Leaving Meaning”, a trentasei anni di distanza dal primo, è  questa sorta di accettazione cosmica del proprio inevitabile destino. Solve et coagula.  Dopo lo smembramento, il ricongiungimento. Forse il Nirvana è stato raggiunto. Forse l’Ātman e il Brahman sono congiunti. Forse no. Forse la fede è solo un debole seppur necessario appiglio, un filo per orientarsi nel labirinto. Eppure il buio rimane, anche il caos, l’ignoto, la luce appare solo per pochi e brevi istanti,  la via d’uscita è sempre più lontana. Dio, o forse il Demiurgo, è inconoscibile, un mistero, e tale forse deve rimanere, così che il mistico possa continuare ad ardere e tendersi verso di esso senza risparmio, dimenticandosi, come il “cretino” di Carmelo Bene, perso e  avvolto nella Nube della Non Conoscenza. Questo Desiderio che desidera ardentemente, desidera oltre se stesso, non riconoscendo l’oggetto verso il quale tende, lo trova forse nell’estinzione. Questo annientamento, questa ricerca dell’estinzione dell’atto attraverso l’atto, del sé nel sé, con qualsiasi mezzo, anche il più immorale, non possono che richiamare alla mente le parole di  Bataille: «quel che il misticismo non ha potuto dire (al momento di dirlo, veniva meno), lo dice l’erotismo: Dio non è niente se non è superamento di Dio in tutti i sensi». In questo senso Gira può esser considerato un “mistico selvaggio”, un eretico, un pagano, uno gnostico oscuro che va alla ricerca dell’Assoluto attraverso l’eccesso,  il saggio eccesso di  William Blake, attraverso il conflitto tra gli opposti, sia nella musica che nella vita,  tra la melodia e il rumore, il cielo e la terra, l’uomo e la donna, anima e Animus. «E poiché, nella morte, nel momento in cui l’essere ci è dato, ci è anche sottratto, noi dobbiamo cercarlo nel sentimento della morte, in quei momenti intollerabili in cui ci sembra di morire, perché l’essere in noi è ormai solo presente per eccesso […].»   Attraverso questo eccesso, questo oblìo di sé, l’uomo si libera del peso dell’autocoscienza animale e raggiunge il suo potenziale nascosto, quell’energia che lo riconnette e lo riunisce a qualcosa di più grande di lui. Il suo corpo e la sua mente non hanno limiti.  Ma col crescere dell’immensità cresce anche il senso di sottomissione ed impotenza. Egli avverte di essere solo il minuscolo e transitorio pensiero di una mente infinita e permanente. Si ritrova trasparente. Egli non pensa, qualcosa lo sta pensando: viene pensato. «Che significa la verità, al di fuori della rappresentazione dell’eccesso, se non vedessimo quel che eccede la possibilità di vedere, quel che è intollerabile vedere, come, nell’estasi, quel che è intollerabile godere? Se non pensassimo quel che eccede la possibilità di pensare?» Ciò può far scatenare l’horror vacui, oppure una gioia impensabile, dionisiaca, “la gioia per l’annientamento dell’individuo” di cui Nietzsche andava alla ricerca, prima di trovarla nella malattia e nella follia degli ultimi anni. Perché tale gioia presuppone comunque l’idea del divino. Ma se Dio, o la sua idea, non ci sono, come accade nell’uomo contemporaneo, cosa rimane al suo posto? Bataille scrive: «Non possiamo impunemente aggiungere al linguaggio la parola che va oltre le parole, la parola “Dio”; nell’istante in cui lo facciamo, questa parola superando se stessa distrugge vertiginosamente i propri limiti». L’indicibile è lacerazione assoluta del linguaggio, glossolalia, il supplizio di Artaud. Il suono, la vibrazione, è perciò il mezzo più immediato e potente per giungere al sacro, per manifestarlo. Il suono inarrestabile degli Swans, oltre il volume, oltre la misura, oltre la sopportazione fisica, eccede la musica, nega la musica superandola, costringendo chi ascolta alla resa: ci si deve lasciare invadere, impotenti, negare il proprio sé all’esperienza in corso,sentirsi trasformare dal suono. Gira ha più volte dichiarato che è la sua stessa musica a manipolarlo, come se lui fosse solo un burattino, ed egli si lascia attraversare da questa forza, diviene un canale attraverso cui  il soffio sonoro scorre e vibra, un medium, una “colonna d’aria”, come Allen Ginsberg aveva definito Bob Dylan. Esorcismo, dono, sacrificio. Al di là della speculazione, della crescita economica, lo spreco ludico, il sacrificio come gioco, slancio, volontà di potenza. Il sacrificio inteso da Bataille, che è «antitesi della produzione, fatta in vista dell’avvenire, è il consumo che non ha interesse che per l’istante». L’istante vertiginoso in cui le forze irrazionali del mondo prendono di nuovo possesso della psiche. Allora è preferibile farsi consumare, mettersi da parte, accogliere il vuoto, divenire il vuoto, per far spazio all’innominabile perenne, per renderlo nominabile, trascenderlo, trascendersi. Questo è anche ciò che accadeva anticamente nei rituali di possessione presenti nelle varie culture del mondo, così nacquero gli sciamani, i primi poeti, gli attori. Bisognava dunque accordare la propria identità, entità impermanente, con quella permamente di un dio, un antenato, un elemento naturale, tutto ciò che rivive ancora e si ripete. L’eterno ritorno della coscienza, del soffio, del suono. E senza questo soffio, questa coscienza, questo suono, cos’è l’identità? Cos’è un corpo? Dove finisce? «Sono abitato da pensieri di altri. Se mi amputo un dito,  taglio via generazioni di storia, gli stimoli che mi hanno attraversato e dato forma». Ma cosa esiste oltre a questo corpo-storia, corpo-simulacro, oltre al corpo come offerta sacrificale alla culture e le ideologie, ai deliri di onnipotenza dei transumanisti, al  pantheon capitalista, come campo di battaglia della dialettica, cos’è un corpo al di là della Storia, dell’ontologia? è forse il corpo senza organi di Artaud, elettrico e nudo nel  centro del Tutuguri, il rito del Sole Nero, liberato dalla Croce, dalla materia alla quale è crocifisso, dagli automatismi, un corpo che canta e danza, che «generato dal cavo buio della madre, dovrà rituffarsi nella sua origine notturna per risorgere, lavato, nella sfera luminosa della riconquista di sé». È proprio Artaud ad affermare che «il corpo è una moltitudine impazzita, una specie di baule a soffietto che non può mai aver finito di rivelare quello che racchiude. Ed esso racchiude tutta la realtà. Il che vuol dire che ogni individuo che esiste è tanto grande quanto tutta l’immensità e può vedersi in tutta l’immensità». Ed eccolo quell’individuo, Michael Gira, lì sul palcoscenico, il volto, il busto e le braccia scosse e tirate su da enormi mani sconosciute che lo nutrono e lo consumano allo stesso tempo. C’è e non c’è, non è più un individuo, è tutt’uno con il vortice della musica, abbandonato, rapito da quel maelstrom invisibile. E mi pare di scorgere per un attimo, solo per un attimo, l’uomo libero di Dino Campana, che «sotto le stelle impassibili, sulla terra infinitamente deserta e misteriosa […]tendeva le sue braccia al cielo infinito non deturpato dall’ombra di Nessun Dio».

Orco nel bosco di Bomarzo

Mi ritrovo nella stessa casa e nella stessa stanza nelle quali vivo già da quasi due anni, da quando la pandemia ha avuto inizio. Mi ritrovo costretto a vedermi divorare dal tempo, come il legno dei mobili che mi circondano. Timidi peli bianchi cominciano a farsi strada su tutto il mio busto. Guardo la mia pancia irsuta fare su e giù lentamente come qualcosa che non ho mai visto prima, una bestia aliena che studio da lontano, nascosto nell’intricata vegetazione cannibale che invade ogni mio pensiero. La puzza di fumo penetra le mie narici e mi corrompe, corrompe anche il mio corpo nudo, avvolgendolo. Un altro corpo anonimo in una stanza empia. Il portacenere è un’orgia di sigari deformi e mutilati. Presto sarò come quella cenere, come  la polvere che si nasconde negli angoli, sui muri, sotto questo divano, sarò l’intera stanza, sarò ovunque. Mi ritrovo costretto a meditare sul senso della fine. Lo faccio ogni notte, ormai, ogni notte brucio. Vado a caccia della luce, una luce qualsiasi, come una falena impazzita, prima che il buio del sonno o una fiamma affamata mi rapiscano nuovamente per riportarmi ancora una volta qui, esattamente in questo stesso corpo, in questa stessa stanza. L’isolamento prolungato ha esteso a questa stanza i margini del mio corpo. Anche quando esco da qui, continuo ad essere soltanto in questa carne ed in questa stanza, o nei libri che leggo. Accumulo libri su libri, li consumo come la merce che in fondo essi sono, loro consumano me, costruiscono precarie realtà al posto mio, realtà che abito solo io, per un paio d’ore, sempre da solo. Sono un consumatore. Non so perché mi trovo qui. Non so cosa voglio, so soltanto cosa gli altri vogliono da me e per me. Là fuori gli organismi più primitivi continuano la loro esistenza, incuranti, divorandosi l’un l’altro. Apro di nuovo il libro. Leggo. «Io non esisto singolarmente: sono composto da milioni di creature viventi che si mangiano fra loro, si decompongono e tornano a mangiarsi fra di loro». Là sopra il cielo è una cappa di afa infernale che minaccia il respiro, appollaiata come un avvoltoio che osserva il suo pasto, è la cupola di una cattedrale in rovina, potrebbe crollare da un momento all’altro.  L’oscurità è ancora  lì, infinita, muta come sempre, da miliardi di anni, non ha mai risposto ad alcuna domanda, né a quelle più  antiche, né alle mie. Come una bocca spalancata su tutti gli emisferi, la bocca dell’Orco di Bomarzo, la bocca di Francis Bacon, il Grande Annientatore mi risucchia nel suo abisso di miliardi di watt, dove intere galassie di chitarre elettriche intonano la sinfonia del vuoto. Le stelle vorticano su se stesse come dervisci all’apice della visione. Visione che a me non sarà concessa, neanche questa volta. Quod est superius, est sicut quod est inferius. Qui sotto questo pavimento un tempo ci fu il mare, poi un bosco, ma nel profondo animali e vegetali continuano a riprodursi, incessantemente, crescono come l’umidità e la muffa sulle pareti, aspettando il momento in cui non ci sarà più la casa, che è effimera, come il mio corpo. Qual è il significato della mia presenza? Cosa ho di diverso dalle formiche che escono dalle loro tane per circondare le briciole che ho lasciato? Anch’io non sarò che briciole. La terra sotto questa casa non è  mai ferma, qui sotto si trovano gallerie, grotte, si muovono gas, fiumi, il magma, l’intera placca continentale può emettere un debole peto ed io non posso prevederlo, lo sentirei tuttavia, scosso e buttato giù come una pedina di poco conto sulla scacchiera. La terra prima o poi mi inghiottirà, o mi sputerà altrove.  Posso sentire i cani abbaiare, i loro ululati riecheggiano per tutta la contrada, sono litanie e profezie di epoche lontane, come quelle della civetta, segnali monotoni di un mondo che presto o tardi non vedrò più. I mormorii dei veicoli nelle strade si confondono con quelli del vento che accarezza le palme. Suoni, lingue millenarie che attestano il ritorno, la permanenza  e la potenza di un universo indifferente, ostinato e ostile, disinteressato alla presenza del mio corpo, eppur partecipe della mia nascita e della mia lenta rovina, per accompagnarmi fino alla morte. Quando sparirò, non cambierà nulla. Ma c’è ancora qualche possibilità. «L’insieme delle esperienze della mia vita fino al momento della morte e le prove accumulate dei miei pensieri e della mia consapevolezza sopravvivranno sotto forma di un altro linguaggio nei corpi del mondo vivente che mi consuma». Esistono altri corpi là fuori, corpi anonimi rinchiusi come me in stanze empie. Anche loro sono svegli, stanno pensando, scrivendo. Sanno che fuori dalle loro stanze sono esposti alla furia degli elementi impazziti, al deserto che continua a crescere ed avanzare su ogni oasi rimasta, alle imprevedibili mutazioni virali della loro carne da macello, separata da tutto, da loro stessi, carne da sorvegliare, da marchiare con la sottile lama rovente del pensiero. Ma non è la ragione a muoverli.   Chissà cos’è che li spinge a muoversi ancora. Sono solo delle macchine? Sono solo una macchina? La macchina mi salverà? Possiamo ancora esser salvati? è davvero giunta la fine? Quanto ci rimane ancora? Il cellulare ha la batteria scarica, ma emette dei deboli stregoneschi brontolii. Qualcuno mi chiama, mi scrive, qualche notifica sui socials, qualche notizia dall’esterno, che è poi l’interno, narrazioni interne ed esterne che si scontrano a vicenda, rubate e racchiuse in un talismano di rame, ferro, cobalto, un vero gioiello alchemico, luminoso e misterioso. In girum imus nocte et consumimur igni. Questa formula magica mi ossessiona da notti, me la ripeto in testa all’infinito, ma non ho trovato ancora la Pietra Filosofale. Sono solo, soltanto io, la notte e il fuoco. Ascolto di nuovo gli Swans, mi aiutano a dormire, mi accompagnano nell’oblìo, che è l’unica cosa che cerco adesso. Ho pensato di scrivere questa recensione, se così si può chiamare, perché volevo invitarti a leggere questo libro, ma con un avvertimento: armati dello stesso coraggio del marinaio Marlow nelle profondità della giungla africana, non distogliere lo sguardo dall’orrore, accoglilo, ti è vicino, ti è amico. Oppure, se il mio consiglio non ti rassicura, segui quello di Bataille:

«Se hai paura di tutto, leggi questo libro, ma prima ascoltami: se ridi, è perché hai paura. Un libro, ti sembra, è cosa inerte. Può darsi. E tuttavia se, come accade, tu non sai leggere? Dovresti temere…? Sei solo? Hai freddo? Sai fino a che punto l’uomo è “te stesso”? imbecille? e nudo?» 

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Giorgiomaria Cornelio
Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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