Pausa merda
di Dario Meneghetti
È una settimana che non scrivo. Non posso. Sono stato rapito dalla merda. Circa sei giorni fa mi è venuta la brillante idea di cagarmi addosso quindici volte, così, è stata pura intuizione, poi, visto che mi son trovato bene, gli altri giorni ho deciso di replicare. Come ho fatto? Beh, ho seguito l’istinto prima di tutto, ho ascoltato le “Good vibrations”, sono stato “Tuned” come si dice adesso, in ascolto delle sensazioni positive, poi, al momento giusto, Tacc! mi son cagato addosso. In realtà è tutta questione di tempismo, di saper stare sul pezzo e approfittare di quei rari momenti di grazia un po’ alla Isacco Newton, solo che al posto della gravità si postula il secondo principio del pannolone stracolmo di Merdagora da Efeso. È il 9/10/2020, esattamente venticinque anni dopo quel servizio totalmente inventato su Igor Stravizi. È ottobre, lo so perché c’è la data in piccolo in basso a destra del computer e perché fa buio prima. Fuori c’è di nuovo il Covid che imperversa, tra terrapiattisti del virus coi complotti di sterminio di massa e le loro immancabili scie chimiche e politici perennemente inadeguati. Ma a me non cambia nulla, tanto non vado da nessuna parte, sto bene qui, a covare la mia merda al calduccio inchiodato al letto mentre scrivo poesie della e sulla merda, interrotto ogni tanto dai badanti premurosi ma insensibili al momento creativo, che non capiscono e vogliono a tutti i costi pulirmi. No! Rispondo deciso attraverso il sintetizzatore vocale del computer – we clean later – gracchia baritonale la voce di Vittorio, quello che vive dietro la tastiera oculare. Javed, il badante pakistano scatta sull’attenti divertito – Yes sir Dario – e rincula in cucina con tre inchini. Adesso gli faccio uno scherzo e imposto la voce di Claudia penso, ma non faccio in tempo che la seconda ondata mi travolge, sono ricolmo, la merda deborda, abbandonare la nave, ma non posso, la nave sono io e sto per affondare in un mare marrone. Ormai dignità, pudore, imbarazzo, vergogna, sono tutte prerogative umane che da tempo ho abbandonato, trascendo me stesso la maggior parte del tempo rifugiandomi nel mondo delle idee, l’immanenza non mi riguarda più. Non sono qui, tranne quando, costretto dal dolore o dal fastidio di dover interagire con l’esterno, mi tocca tornare alla realtà. Per il resto sono altrove, abito altri mondi da dove nessuno mi può sfrattare, nemmeno la morte. Se penso che Javed c’è venuto a piedi dal Pakistan per finire a pulire sto disastro merdizzato di relitto umano, provo più pena per lui che per me stesso. Ma lui non fa una piega, sembra non fargli schifo niente, è impermeabile all’orrore lui, perché c’è venuto a piedi dal Pakistan, e per uno così, la merda è solo un dettaglio. “Javed, call Jacob, it’s time to clean, sorry”, per fortuna parliamo entrambi un discreto inglese, così almeno comunichiamo, e sempre grazie al cielo e alla mia pensione sono in due e collaborano benché provenienti da paesi reciprocamente ostili, perché da quando mi hanno operato per mettermi la RIG (Radiologically Inserted Gastromy Feeding Tube) tutto si è complicato e certe manovre meglio farle in due. Javed e Jacob, strana coincidenza, mi dico mentre vengo rotolato sul fianco per essere pulito – singolare davvero l’allitterazione della Ja, come davvero bizzarro è il cluster culturale di tre persone così diverse, io veneziano ateo, Jacob indiano del Kerala cristiano, e Javed pakistano pashtun mussulmano, tre destini aggregati da una malattia orribile in una piccola città del nordest. Finita la giostra, il casino è recuperare la posizione corretta da seduto nel letto ortopedico, un’infinità di piccoli aggiustamenti affinati pazientemente nell’arco di mesi, tanto che ora le frasi suggerite dalla tastiera oculare sono perlopiù sho l che sta per shoulder left, o lpdl che sta per little pillow down left, o turnedr che invece sta per turn head right, e cose così, che mi permettono di ottimizzare il laborioso recupero ad una quindicina di minuti, mentre le prime volte era una punizione da oltre un’ora. Tutte questioni noiosissime ma necessarie, d’altronde con me è peggio di cercar di capire un dromedario paralizzato, anzi almeno lui qualche verso lo farebbe, mentre io no, io mi devo affidare agli occhi confidando nell’empatia degli altri, o nei cartelli che ho fatto disseminare per la stanza per farmi capire guardandoli. Recuperata la posizione – Mask down left, garters down – un’ultima aggiustatina alla maschera (12/25 min.) per respirare (NIV) poi, in fretta mi dimentico di coabitare con l’ammasso macilento sessanta per cento ossa e il resto frattaglie immobili del mio corpo, e mi rituffo nella realtà parallela dei pixel, dove in qualche maniera posso esistere anch’io come gli altri ora che, più che visto, preferisco essere immaginato. Salto sulla chat dove con la conventicola di omoaffettivi dei miei amici abbiamo formato un gruppo, oggi la chat si chiama Capitani Contagiosi, in onore al periodo e al romanzo, lì è il mio rifugio senza problemi, lì continuiamo ad essere Imbranauti, creando e sparando mucchi di cazzate come e meglio di trent’anni fa. Poi, per sdrammatizzare il momento ed esorcizzare il letamaio, posto questa su Facebook.
La merda.
Ci vuole impegno,
concentrazione,
la strada è in salita,
per mollare un merdone,
poi è tutta discesa
c’è lo stronzo a sorpresa
un`altra questione,
cagarsi addosso
è per professione
lo devo dire, è un’ottima idea
riempirsi le braghe
con tre chili di diarrea,
personalmente, mi son trovato bene
son stato soddisfatto,
di aver cagato un rene
d’altronde come ieri
lo spettacolo replica,
con la merda tra i pensieri.
L’ode alla merda riscuote un discreto successo soprattutto tra gli intellettuali più raffinati. Visualizzazioni 69854712, like postati 85478547, commenti uno, ma pregnante: “Bea merda!”.
*
NOTA. Pausa merda è stata pubblicata sul primo numero della rivista on line “Licheni” (http://www.harrr.org/licheni/). Licheni è una rivista dodicennale. Il prossimo numero uscirà il 15 luglio 2033.
*
DARIO MENEGHETTI. Nato a San Donà di Piave nel 1970, ha cantato come tenore nel coro della Fenice di Venezia. Dai primi anni Novanta ha fatto parte della redazione della fanzine “Limbranauta”. Ha pubblicato due raccolte di poesia, Poesie Slatenti (Zona, 2019) e Anima parvula (dei Merangoli, 2020) e un’antologia delle sue poesie è stata curata da Marco Berisso e Guido Caserza (Poesie scelte, Zona, 2021). Suoi scritti prevalentemente in prosa si trovano nei volumi collettivi Limbranauta è stato qui (Youcanprint, 2018) e Limbranauta. Il lato D (Youcanprint, 2020). Affetto da sclerosi laterale amiotrofica, scrive con l’ausilio di una videotastiera comandata dallo sguardo.
Sulle note di “Cagass adoss a Montecarlo” cantata da Nanni Svampa.
Per Dario non ho parole adatte a definire un sentimento che non è solo ammirazione, oltre che affetto fraterno. Affronta la sua malattia con una forza che non ho mai trovato in qualcuno; vorrei dire che è un eroe, ma non lo è, anche se per poco. Più che un eroe è l’essenza di quello che dovrebbe essere l’uomo, anche la donna sì certo, ma ancora le parole comprensibili non sono sufficienti. Rifiuto di cercarne tra quelle che richiederebbero la Treccani per essere decifrate, perché Dario non è uno che sguazza nei paroloni ma anzi punta il dito sull’essenza, che non ha bisogno di parole difficili.
Quindi dirò solo Dario, il mio amico Dario, è un vero uomo.