Cassini
di Filippo Polenchi
La sonda Cassini, per dieci anni, ha attraversato fasce di asteroidi, la radiazione di
sincrotrone di Giove, la notte galattica intorno a Metone, Pallene, Febe, Giopeto,
Titano, Encelado. Il suo occhio infante ha visto noi che la guardavamo mentre
scattava immagini dentro il folle ondeggiare degli anelli di Saturno, nella violenta
quiete dei dischi immani che, dalle fotografie, sembravano così tenui, così euclidei. Ha
verificato la teoria della relatività con più accuratezza di chiunque altro e quando si è
lanciata nell’atmosfera di Saturno, anziché bruciare, è atterrata nel silenzio ghiacciato
che già l’attendeva. Lì ha potuto conoscere il responsabile ancora senza nome degli
omicidi attribuiti a quello che è stato chiamato “il mostro” e che, per trent’anni, si
sono rincorsi nella provincia di Firenze.
Qua, invece, ci sono le piazzole di sosta aggredite dalla proliferazione vegetale delle
erbe infestanti; i sassi macchiati dai preservativi usati, dalle stratificazioni di siringhe
ipodermiche. Lo spavento dell’estate, l’esondazione delle anomalie termo-cromatiche.
Ci sono i tessuti strappati, l’accozzaglia di glifi non-interpretati, la segnaletica della
disgrazia, l’erosione isotopica della civiltà agreste, le emersioni dei relitti industriali,
abbandonati in foreste di acacie e altre piante aggressive che li perimetrano con i
corsivi delle loro spine. Ci sono i residui dei gas di scarico delle auto in sosta sotto
lune glaciali; la nozione dei corpi in attrito, la madreperla dei vetri, il frusciare degli
esseri minimi nella boscaglia. L’immenso crepitare delle luci a bassa frequenza; la
distesa errante delle braci stellari. Un tiglio scuote le sue fronde in uno spasmodico
sortilegio. Una ebbrezza clorofilliana accende la taranta delle foglie. Per tutto il resto
della piana non ci sono altri alberi così alti e rigogliosi, solo terra d’alopecia,
cespugliame osceno e pietre rossastre, ormai nere nella tenebra completa.