Il differenziale
di Giorgia Giuliano
Avevo passato così tanti mesi steso, che quando ho ripreso a camminare assomigliavo a un paio di forbici. Ogni mio passo faceva zac-zac come se avanzare volesse dire tagliare a caso un foglio di carta. Spennellavo l’asfalto con le spalle completamente flosce e ciondolavo in diagonale, perché tutto quello che potevo fare in diagonale era senza dubbio la mia specialità. In diagonale ero riuscito a prendermi Teresa. Ero sicuro che senza intermediari l’avrei convinta, ma non avevo considerato il fatto che questa strategia potesse presentarmi a Teresa come un tizio che avesse fretta. Infatti dopoun mese mi disse che voleva un figlio. Neanche sposarsi. Teresa voleva direttamente esagerare.
Il vino mi andò di traverso e glielo sputai in faccia come se avessi innaffiato un giglio. Teresa non si arrabbiò, ma dovevo succhiarle il viso fino a che non sarei stato ubriaco. Qualcuno si girò a guardarci: gli uomini si scambiavano gomitate, con gli occhi mi dicevano che ero fortunato. Le donne erano certe di voler espellere Teresa dal decoro femminile. Notai che le sue guance si erano fermate all’adolescenza, mentre collo e fronte assomigliavano a un fazzoletto spiegazzato che le era servito a dire addio a qualcuno. Non si era vista mai, sul volto di una donna, così tanta indecisione. Rughe sottili le si arrestavano sulle tempie come a volersi impedire di scendere più in basso: sembravano tante piccole spade infilzate nella roccia, suggestionato com’ero dalle vicende di Re Artù. Non ho saputo mai l’età, di Teresa. Ma senza questa informazione l’ho sposata lo stesso. Gliel’ho proposto un pomeriggio che piangeva sconsolata. Il matrimonio fu l’unica lacrima che riuscii a tamponarle.
Teresa figli non ne poteva avere. Il suo vuoto era quello di un parto sforzato, vedevo davanti ai miei occhi Teresa urlare senza mai partorire. Grida sterili da cui non sarebbe mai potuto uscire alcunché, neanche il fantasma di un piccolo angelo figlio, se non nostro, almeno del suo desiderio. Io ero fertile, tanto è vero che Teresa diceva che la madre, tra noi due, dovevo essere io. Io le presi la mano e le sedetti accanto come se fosse stesa su un letto di ospedale, estenuata senza aver ottenuto nulla.
«Teresa, dì la verità. T’hanno fatta sentire vecchia?»
«Dovevo comprarmi un orologio».
«Un orologio, Terè?»
«A quanto pare i figli vanno a ore. Così ho capito.»
«Sposami, Teresa. Che questa è una buona medicina.»
«Se non ci vuole il dottore allora sì, ti sposo.»
«Non ti porto più da nessun dottore, Teresa. Promesso.»
Il mio primo pensiero andò alla tristezza che viene dopo un matrimonio: si passa da una grande festa piena di persone a ritrovarsi in due da soli. Il sacramento è un cane che scodinzola dietro la porta e che quando si scoccia, scompare in qualche altra stanza. Io e Teresa ci eravamo sposati in un grosso casolare in mezzo al grano, io ero allergico e prima del sì feci uno starnuto aggrappandomi al suo velo. Lei sorrise al sacerdote quasi a confessargli che con il vino avevo fatto peggio, ma già lo sapevo che Teresa era una che se la intendeva indistintamente con tutti. In quel frangente avrebbe piazzato un tavolino tra me, lei e il prete e avrebbe preso a far salotto dando le spalle agli invitati. Si vedeva che durante il rito aveva voglia di chiacchierare. Il sacerdote liquidò la messa in quattro e quattr’otto con l’imbarazzo di chi non ne aveva mai celebrata una.
La mia famiglia compensava anche quella di Teresa a cui era rimasto soltanto un fratello sposato con figli. Dalla mia parte avevo tutto ciò che un orfano potesse scrivere in una letterina di Natale: genitori e nonni, zii e cugini, tre fratelli e rispettive fidanzate e mogli. Li avevo supplicati di rivolgere a Teresa tutte le attenzioni, di non essere prevenuti. Mia madre restò seduta al tavolo ad annacquare il vino. Aveva delle evidenti difficoltà a trattare una sua coetanea come una figlia, e per non darmi dispiaceri preferì sentirsi lei una di troppo al mio matrimonio. Trattenne l’imbarazzo a metà della gola, proprio sotto la carne appesa. Io, che sapevo che quello era il suo nascondiglio, le stuzzicai il collo con un legnetto poco appuntito. Mia madre mi sorrise piena di dolore e siccome non me lo chiese, glielo chiesi io. Dove hai sbagliato con me? Fu così che finalmente capì la difficoltà di quella domanda. Io erano anni che non sapevo risponderle. La lasciai da sola a scervellarsi. Le volevo un bene dell’anima. Quando i bambini del fratello di Teresa si misero a giocare nel grano, il nostro matrimonio annunciò il funerale. Teresa si bloccò. D’improvviso la vidi vecchia. Cercai disperatamente un bastone da darle perché lo affondasse nella terra. I piccoletti imbiondivano il grano con tutta la loro allegria. Districavano le spighe come pimpanti trebbiatrici in una mattina di straordinari. Ci accerchiammo tutti intorno a Teresa, lasciandole un piccolo spazio perché potesse proseguire. E lei si alzò il vestito alle caviglie come se stesse entrando nell’acqua alta. Lo zampillio dei grilli mi faceva pensare alle code dei delfini quando per ultime perforano il mare. Teresa ci dava le spalle, perciò non potei capire se avessimo pensato la stessa cosa. I suoi nipoti la accolsero nel grano, felici di aver attirato la nostra attenzione. Capirono quanto più potere avessero rispetto agli adulti. Convinsero Teresa ad acciuffarli e lei iniziò a rincorrerli con foga, come se quello fosse l’unico modo che le restasse per far figli. Corse con tutte le sue forze, fu come una madre paziente. Voleva dimostrare ai dottori che la maternità ce l’aveva nel sangue. Li aveva presi così in antipatia che se li vedeva ovunque, pure tra me e i nostri invitati. Per tutto il tempo corse risentita perché si sentiva le catene ai piedi, ma purtroppo i figli erano inafferrabili per Teresa che, non avendo niente a cui aggrapparsi, cadde di sbieco nel frumento e non si alzò più. Mia moglie morì di crepacuore. Sperai che almeno fosse morta di gioia per aver bastonato un po’ quei dottori, ma non me ne sono mai convinto.
Sono rimasto mesi steso a letto cercando di capire come potesse sentirsi Teresa a starsene sdraiata sotto un coperchio. Avevo scelto per lei una cassa di ciliegio, avevo pensato che potesse profumare. Mi sono mosso poco, ho pensato fosse l’unico modo per riprodurre i suoi spazi. Sono riuscito a adeguarmi, ma non a impedirmi di respirare. Mi è mancato il fiato soltanto una notte che ho sentito Teresa dirmi all’orecchio che per me era ancora presto e che invece a lei sarebbe successo. Disse che invece di perdere tutto quel tempo, avrei fatto meglio a portarle un fiore. Ho insistito un altro po’, ma poi le gambe mi si sono mosse da sole, sforbiciando senza tagliare veramente qualcosa.
Adesso che mi muovo meglio, sto facendo due calcoli perchè voglio capire quanti anni avesse Teresa. Ha lasciato per sempre la sua età in mezzo al grano e credo l’abbia fatto apposta perché io sono allergico e perciò non la posso trovare. Sento i suoi anni dispersi tra le spighe che si divertono e giocano e saltano perché sono liberi da tutto, da me e dal vecchio corpo di Teresa che a oggi si riposa ancora controvoglia. Fare i calcoli non mi riesce, ma a occhio e croce giuro di essere più piccolo di Teresa almeno tre volte. Comunque ho ottenuto un altro risultato perché alla fine, alla domanda di mia madre, mi sono risposto. Mia madre ha sbagliato quella volta in cui mi ha detto che non si chiede mai l’età alle signore.
Fuori dagli schemi, originale e profondo. Mi è piaciuto molto
Il racconto mi ha lasciata senza fiato.
Ho avuto la sensazione di leggere con lenti polarizzate a cristalli liquidi e di vedere i personaggi in 3D.
Sei riuscita a rendere invisibile il confine che separa la parola dall’immagine.
Sei “GRANDE”.
Iole Natalicchio
Racconto intenso che non solo si legge ma si vive grazie alle belle e ricche descrizioni
Brava Giorgia
Molto bello, intenso e commovente, grazie