Movimento e stasi. Conversazione con Massimo Palma
di Adriano Ercolani
Massimo Palma è uno degli intellettuali più interessanti del panorama italiano contemporaneo.
Nelle sue, ormai, numerose pubblicazioni ha mostrato una rara dote: saper conciliare un approccio filosoficamente rigoroso, di alto livello accademico, con uno sguardo anticonformista, radicale, aperto alle contaminazioni del presente, pur lontano dai tipici vezzi postmoderni che spesso riducono i contributi di certa intellighenzia a sterili elucubrazioni autoreferenziali.
Doti che emergono dai tempi di Berlino Zoo Station (appassionata guida culturale della capitale tedesca, da Hegel a Bowie, pubblicata per Cooper nel 2012) fino al più recente Nico e le maree (reinterpretazione libera e commossa delle molte vite della cantante tedesca, uscita per Castelvecchi nel 2019), per tacere di un’opera peculiare quanto preziosa come Foto di gruppo con servo e signore. Mitologie hegeliane in Koyré, Strauss, Kojève, Bataille, Weil, Queneau (Castelvecchi, 2017); non possiamo non ricordare I tuoi occhi come pietre: Trauma e memoria in W.G. Sebald, Paul Celan, Charlotte Salomon, bellissimo saggio sulla trasfigurazione della memoria tragica (Castelvecchi, 2020); eppure, probabilmente, l’opera più importante dal punto di vista del dibattito pubblico è stata la sua riflessione originale e coraggiosa dei fatti vergognosi di Genova 2001, Happy Diaz (pubblicata da Arcana per 2015 e ora ripubblicata da Castelvecchi in occasione del tragico ventennale).
Proprio la ricorrenza della “più grave sospensione dei diritti democratici in un paese occidentale dopo la seconda guerra mondiale”, come sancì Amnesty International in una formula destinata a essere ripetuta instancabilmente come un mantra alle sorde orecchie delle istituzioni, ha ispirato all’autore (saggista e filosofo) una riflessione poetica.
Movimento e stasi, ecco il titolo della silloge, è stata pubblicata da Industria & Letteratura, casa editrice diretta da Filippo Davoli, degna di particolare attenzione per la cura e lo sguardo consapevole, ben espresso dalle parole con cui si presenta sul proprio sito: “Come in una paziente, ostinata apocalisse – una rivelazione – questa piccola casa editrice intende pubblicare poche opere, con cura artigianale, connesse col tempo presente e con la nostra alta tradizione letteraria. Il suo scopo – facendo risuonare l’etimo del termine – è una modalità dell’esplorare, del provare a vedere lontano, radicati in un passato, che non si declina in nostalgia, e consapevoli dell’oggi, senza farsi sopraffare dalle sue (nostre) miopie, che confondono troppo spesso la spinta continua delle emergenze con la radicalità lenta delle urgenze, individuali e collettive.”.
Nelle poesie di Movimento e stasi Palma, che conosce la Fenomenologia dello Spirito quanto i testi di Ian Curtis, riesce ancora una volta a conciliare una spietata analisi razionale delle cause politiche della “macelleria messicana” con la capacità di restituire la rabbia della protesta e l’orrore della violenza.
Ecco la nostra conversazione.
Come mai, dopo aver dedicato racconto letterario ai fatti di Genova, hai deciso di affrontarli in poesia?
Volevo trovare delle forme diverse per narrare questo episodio-chiave della nostra storia recente, ora che la fase processuale relativa ai fatti di Genova si è conclusa (non certo le sue conseguenze, che restano con tratti a volte grotteschi). Qualche anno fa, con Happy Diaz (Castelvecchi), un saggio che è anche un racconto, ho provato a dire Genova cercandone le radici generazionali, la complicata politicizzazione di una generazione secondo vie lontane da quelle tipiche del Novecento.
Con i testi in versi di Movimento e stasi ho tentato una strada diversa: non tanto riportare alla memoria quei fatti, quelle scene. Ma intrecciare il conflitto che abbiamo ingaggiato con quella memoria, coi suoi buchi neri. Ho cercato di ricostruire un percorso non lineare, non solo logico, attraverso i fatti, che fosse capace di sfidarne la consistenza: di sospenderli, aggredirli, trasformarli.
In questi venti anni c’è stata una notevole produzione di “narrazioni genovesi”, perlopiù tese a mostrare quel che era successo a chi si rifiutava di vedere. A documentare, per individuare responsabilità, linee di comando e di imputazione, dire la verità su persone e reati che restavano nell’ombra. Lo scopo era prevenire quello che era il rischio più grave per vittime, testimoni, osservatori: non essere creduti. Tutte queste narrazioni sono state utili a dire e ribadire ciò che in democrazia è “indicibile”. Ovvero uno Stato che si fa boia dei propri cittadini, e dei cittadini di tanti Stati esteri. Assassino e carnefice, torturatore di migliaia di persone, a diversi livelli. Che è tale per tre giorni consecutivi. Bisognava raccontare i fatti: affiancare un iter giudiziario complicato, combattuto da ampie fette di politica e di Stato. Oggi l’approccio può e deve essere diverso. Non univoco, certo. Ma non occorre più solo ridire i fatti. Si possono usare i versi – è quello che provo a fare in Movimento e stasi – per interrogare le forme di quella memoria, il suo peso. Ci sono immagini che mi hanno ossessionato per anni, che nascono da lì, dalle immagini che ho visto pur senza esserci stato: un corpo sotto un lenzuolo bianco, spalle di donne abbracciate nella festa, poi nel dolore, cespugli mossi dai manganelli a Punta Vagno con l’audio di urla, di preghiere. In questo libro ho voluto costruire una costellazione diversa, in poesia, di questi ricordi, di questi fermo-immagine. Ricomporre frammenti scomposti, vent’anni dopo, per dare una visione ulteriore di Genova 2001. Quando si ha a che fare con la materia di quei giorni del luglio 2001 i versi possono essere un contributo a dire – a far venire a espressione – proprio il rapporto conflittuale col passato, a elaborare e approfondire cesure, non a ricucire, non a risolvere. I versi stanno lì, sono aperti – alle interpretazioni, le diversioni, ad altri racconti. In questo senso, sono immediatamente politici.
Quali sono le differenze che hai incontrato nel diverso approccio, saggistico, narrativo e poetico?
Quando scrivo in prosa – raccontando, argomentando, anche associando, come ho fatto in Happy Diaz, due generazioni diverse, separate nel tempo e nello spazio, quella punk e post-punk inglese e quella ‘genovese’ –, ho la sensazione di disporre di tempo. Di avere agio a spiegare, di poter tornare sui miei passi, chiarire le opacità. Di poter in qualche modo superare possibili equivoci, malintesi, incomprensioni di chi legge. Nella forma saggistica, anche se ‘spuria’, mentre scrivo mi accorgo di cedere a questa speranza – di poter dire dopo, di avere una seconda possibilità, un Nachleben, una vita posteriore. Con i versi, questo velo auto-illusorio è pregiudicato dall’inizio. Lo statuto di verità del verso è insieme ambizioso e fragile, tanto più quando sfiora memorie collettive, divise, divisive. I versi giocano con la propria insufficienza, cambiano i ricordi mentre tornano in superficie. A volte dicono esattamente questa trasformazione – a volte l’elusione – dei ‘fatti’ dettata dagli ingranaggi della memoria. È un po’ di tempo che mi occupo di questo tema, anche in altri ambiti. In un saggio dell’anno scorso, I tuoi occhi come pietre (Castelvecchi, 2020), ho messo su un confronto tra Celan, Sebald e Charlotte Salomon. Tre prese di parola eterogenee, ma tutte atte a mostrare come ci sono tanti modi per fare spazio ai traumi, oltre l’artificio retorico del ricordo volontario. E altrettanti modi per ricordare come, perché dimentichiamo.
Qual è il rapporto tra il movimento e la stasi del titolo?
È un rapporto di coesistenza. E un rapporto temporale. Che vi sia un tempo nel movimento è apparentemente un’ovvietà. Pare ovvio che il movimento fisico, corporeo, spaziale – e politico, sociale, culturale: siamo corpo, materia – abbia una storia. È meno ovvio che ci sia anche un tempo della stasi. Un tempo dell’arresto del movimento, di chiusura delle sue possibilità dinamiche. Di astenia. Ed è quello che, con mille sfumature, si è percepito dopo Genova. Ma i versi di questo libro nascono anche da un rapporto con ‘stasi’ ulteriori, che si potrebbero definire stasi in immagine. Di, su Genova abbiamo tanti video visibili ovunque, documentari scaricabili o reperibili. Abbiamo film – in realtà pochi. Ho l’impressione che abbiamo faticato, in questi ultimi anni, a montare i fermo-immagine, a comporre i nomi in un racconto, in tanti racconti. Forse col tempo abbiamo, per riproporre la famosa espressione di Benjamin nel saggio sull’opera d’arte, estetizzato le immagini che avevamo – alcune atroci, oscene, altre più agevoli, seriali, tutte simili – per starci dentro più comodi. In lutto eppure comodi. Invece quando accadono le sconfitte c’è un’enorme necessità di montaggio delle immagini ‘ferme’. C’è bisogno di provare nuove associazioni, costruire nuove logiche.
Il libro è strutturato in tre fasi dialettiche, ma la sintesi è ben lontana da venire…
È vero, le sezioni del libro – movement, still, stasis – sono tre. Ma non creano una dialettica produttiva. Non si ottiene nessuna sintesi con la ‘stasis’. Stasis, nel pensiero, nella grande storiografia greca, è una parola che dice il dissidio, il disaccordo totale dentro uno stesso corpo politico. Dice la sedizione, la guerra civile. Dunque stasis, semmai, è il termine dell’antitesi. Della non-composizione. Ad Atene, lo ha chiarito Nicole Loraux con qualche articolo bellissimo di oltre trent’anni fa, c’era tutta una strategia giuridica e politica per dimenticarla, la stasis. Ecco, con l’episodio di Genova e con la rielaborazione solo parziale cui assistiamo – personale, e politica – abbiamo capito quanto siamo lontani da questa consapevolezza. Che siamo ancora nel bel mezzo della stasis, anche se si è integralmente spostata – e anche questo i Greci lo sapevano bene, quando si promettevano ‘amnesie’ con forza di legge – nel ricordo. Ricordare Genova vuol dire sapere che c’è un’inimicizia totale a fondare il rapporto che una generazione ha con la politica – che ha preso il nome di polizia, e non in senso hegeliano. Dire questo rapporto coi ricordi, con le immagini mentali, con la vita postuma di nomi, parole, icone legate a Genova, è una delle tracce che ho seguito in questi versi.
Come spiegare alle nuove generazioni l’orrore, la vergogna, la vigliaccheria del Potere?
Potrei dire che non si spiega, si mostra. Ma il tema dell’emergere di nuove generazioni è centrale. Gli anniversari non servono a molto, se non a comprendere la distanza che aumenta rispetto ai fatti. E vent’anni, vent’anni da Genova, segnano l’entrata in una dimensione politica di persone che a Genova non c’erano perché erano adolescenti, bambini, o neanche nati. Per questo i fatti di Genova vanno storicizzati. Bisogna comprendere, e far comprendere a chi non ha avuto resoconti, narrazioni, i fattori storici, italiani e non, che hanno reso possibile quella violenza di Stato generalizzata, estrema. Che hanno a che fare non solo con dinamiche di comando tipiche di quegli anni, e con una diffusa assenza di cultura democratica e di tutela dei diritti fondamentali, ma con una generale acquiescenza istituzionale, e sociale, per l’uso di quella violenza da parte di chi ne detiene il monopolio. Eppure: i saggi storici sono necessari ma non bastano. Credo che costruire narrazioni altre, in prosa e in poesia, usando immagini dinamiche o statiche, e suoni, e musica, possa aiutare a ‘comporre’ ancora meglio quel momento, ad aprire nuove faglie. A non stare a proprio agio in una dimensione luttuosa di fronte al ‘potere’.
Quando si potrà superare il trauma collettivo del 2001?
Con una provocazione si potrebbe dire: quando non ci rivedremo in Renzi o Macron. Non perché ci somigliano, ma perché hanno i nostri anni, ostentano, con nostro fastidio, un bagaglio di esperienze, di riferimenti, analogo al nostro. Più seriamente: lo supereremo quando la generazione che c’era o che è stata solidale con quel movimento avrà dato una prova politica di sé sia dentro i tessuti sociali, micro e macro (cosa che perlopiù ha continuato a fare), sia dentro tessuti più ampi, politici e istituzionali (cosa assai più rara), veicolando contenuti che a Genova già c’erano. Quando la ‘nostra’ generazione smetterà di contemplare con orrore sugli schermi quei leader politici che le ricordano come il nemico “non abbia mai smesso di vincere” (ancora Benjamin), ma volgerà lo sguardo altrove. Magari chiudendo gli occhi sul passato per riscriverlo. Accettando di dirne le potenzialità inespresse, e non ripetendo ancora e ancora i fatti che sanciscono il trauma.
Perché si fa fatica ancora a fare i conti con ciò che è stato?
Dalla parte politica la risposta è semplice. Tranne eccezioni perlopiù isolate, allora il quadro politico non promosse nessuna riflessione seria sull’accaduto. E ovviamente non prese provvedimenti. Negli anni successivi, le cose sono andate peggio. Dalla parte del movimento invece i fatti di Genova 2001 hanno fondato per molte e molti – anche se lentamente, magari a scoppio ritardato – un’impossibilità di agire, e di farlo a livello di massa. A livello repressivo, infatti, Genova è stata terribilmente efficace. Ha estromesso una serie di soggetti politici dalla visibilità. Ha bollato qualsiasi espressione di conflittualità come attentato alla democrazia. Ha tagliato i rami tra i movimenti e i partiti, infine annichilendo anche forze che avevano quantità e qualche qualità. Questi esiti ‘sistemici’ hanno creato spaesamento, stasi, e affezione alla stasi.