Una preghiera
di Christian di Furia
Il desiderio
Vorrei un fischietto per i mostri, pensa: un fischietto per i mostri, dice a bassa voce. Un fischietto per i mostri.
Il bambino è in piedi, al centro del campo da calcio, ha gli occhi chiusi; al centro del cielo, è buio, al centro della notte. Bisbiglia. Bisogna ripetere tre volte il desiderio; aprire gli occhi e camminare; raggiungere il primo angolo del campo e baciare il palo di ferro; raggiungere il secondo angolo e baciare il secondo palo, baciare il terzo e poi il quarto. Baciati i quattro angoli bisogna tornare al centro del campo – al centro della paura, è buio, al centro del desiderio – e chiudere gli occhi.
Se lo spirito vuole ti accontenta e a terra trovi quanto hai chiesto.
Altrimenti ti uccide. Apri gli occhi e lo spirito ti strappa via la vita con uno strillo; altrimenti apri gli occhi e sei morto.
Il bambino è in piedi, al centro del campo da calcio, ha gli occhi chiusi. Apre gli occhi.
Ed è vivo. Ai suoi piedi, tra la ghiaia smossa, c’è un fischietto, e non un fischietto normale, ma uno per i mostri, proprio come aveva desiderato, un fischietto per i mostri: ci soffi dentro e i mostri si rivelano. Quando hai paura, soffi nel fischietto, e se c’è un mostro si accende una luce, nel punto esatto in cui quello si nasconde.
Il bambino può correre a casa, ora, entrare di soppiatto. In silenzio, senza fare rumore, è tardi.
Sono cinque giorni che non dorme. Nella sua cameretta c’è un mostro, ne è certo, si nasconde sotto il letto o nell’armadio: non ha mai avuto il coraggio di controllare. Ma adesso ha il fischietto e vestito si ficca sotto le lenzuola, lascia giusto un occhio, mezzo sguardo a spiare il buio della stanza sopra il bordo di cotone profumato.
La mano che non tiene il lenzuolo tiene il fischietto e ancora lo stringe quando il fischietto è alle labbra.
Il bambino prende un respiro – soffia.
Soffia, ma la stanza buia, buia rimane – non una luce.
Nella cameretta però c’è qualcuno.
Che comincia a urlare. Sotto le lenzuola.
Il bambino strilla.
Un sogno
Apro gli occhi di scatto. Devo chiamare mio figlio, un brutto sogno, devo chiamare mio figlio, un incubo, allungo la mano, il comodino, il telefono, il numero, non c’è l’acqua, e il bicchiere?, l’avrò dimenticato, l’avrò lasciato, ieri, in cucina, sul tavolo, in cucina, il telefono squilla, il primo squillo, il secondo, mamma, sono qui, che c’è, stai bene?, sì, ho fatto un sogno, mamma è tardi, come l’altro ieri, un incubo, ti ricordi?, l’altro ieri?, che ho sognato che cadevi dalla bicicletta, mi ricordo, e ti ho vietato di uscire, non era l’altro ieri, mamma, ero piccolo, non era l’altro ieri, ma se uscivi in bici saresti caduto e ti saresti fatto male, era solo un sogno, non è mai solo un sogno, come tre giorni fa, ti ricordi?, tre giorni fa?, che ho sognato che piangevi, mi ricordo, e ti ho chiamato e infatti stavi piangendo, era tre giorni fa, e non mi hai voluto dire perché piangevi, ma l’avevo sognato e tu piangevi, e stavi male anche se non vuoi dirmi per cosa, e adesso di nuovo, adesso, ho sognato, di nuovo, mi sono svegliata, di scatto, e ti ho chiamato.
Come stai?, dove stai?, io ho sete, ma ho lasciato il bicchiere sul tavolo, l’acqua, ieri, in cucina, e non mi va di alzarmi, tu hai fame?, hai sete?, ce l’hai un po’ d’acqua, te la porto?, posso portarti un po’ d’acqua, dove sei stato?, sei appena tornato?, perché nel sogno eri appena tornato, e non è mai solo un sogno, lo sai, nel sogno rientravi a casa.
Nel sogno tu rientravi a casa, piano piano, per non farti sentire, ma io ti ho sentito.
Passavi per il corridoio ed entravi in camera, nel sogno, al buio, chiudevi la porta e cominciavi a fare le tue preghierine prima di andare a nanna. Nel sogno io mi alzavo dal letto e venivo dietro la tua porta, nel sogno, io, origliavo.
Nel sogno allora aprivo la porta. E nel sogno, tu, eri ancora vivo.
Una preghiera
Il vecchio sgrana il rosario stringendo gli occhi già serrati, e il solo movimento sensibile della bocca si intuisce quando le sue labbra si sfiorano per articolare le consonanti bilabiali dell’Ave Maria.
Tiene le ginocchia a terra, i gomiti sul letto intonso. Era sera quando ha cominciato, adesso è quasi l’alba.
Cinque giorni fa si è raccolto per recitare la solita preghiera prima di andare a dormire. Una preghiera è poi diventata due preghiere, quindi tre, e infine la notte intera: interminate ore sillabate in un febbrile sussurro. Con il mattino si era finalmente rilassato, in uno sbuffo di sollievo aveva aperto gli occhi e spalancato la porta della sua piccola stanza aveva sorriso alla casa vuota – da anni, vedovo, il vecchio viveva ormai solo – e in cucina aveva preparato la colazione.
Da cinque giorni il vecchio prega di non dormire.
Da cinque giorni, prega per non dormire.
Il sonno, durante il giorno, gli gratta gli occhi. Lui si veste ed esce di casa. Di sera, prega: non può stare in giro per tutta la notte.
Sul letto stanno adesso affastellati decine e decine di rosari, centinaia di Ave Maria giacciono riverse sul piumino, in cerchi e spirali di invocazioni scandite e da scandire ancora. Ma fuori dalla finestra è quasi l’alba – Dio disse: «Sia la luce!». E luce fu – e il vecchio vede l’aurora dentro le sue palpebre ancora abbassate. Fosfeni del mattino.
Allora respira. Sorride.
Sul punto di aprire gli occhi, recita anche l’ultima preghiera, e qualcuno bussa alla porta della sua stanza.
Qualcuno bussa alla porta della sua stanza.
Il vecchio apre gli occhi di scatto.
Si accorge che fuori è ancora buio.