L’Indifferenziata o cronache di una geenna insabbiata di Viola Amarelli

di Daniele Ventre

L’indifferenziata di Viola Amarelli (Seri editore, Macerata, 2020) annuncia sin dal titolo uno spostamento di prospettiva, dalla poetica della cosalità e della mappatura dell’esistenza (Le nudecrudecose e altre faccende, Cartografie) allo sguardo sulla dissoluzione. Di spostamento di prospettiva e non di evoluzione in senso stretto si deve parlare, perché nel peculiare realismo ontologico che connota la poetica di Viola Amarelli, la cosalità, e l’esistenza, si definiscono come frontiera e guscio di bolle di impermanenza e di attaccamento. Nel coro di esordio, tale dimensione di flusso dell’esistente si configura, di per sé, come dialettica fra il presente in (bio-)degrado e un futuro postumo, forse di post-tecnologia se non addirittura di post-antropocene. Il riflesso implicito del presente storico, fra avvertimento del collasso della biosfera nell’epoca delle pandemie e sua origine orientale (“s’era di sera sulla via della seta”) si dissolve al cospetto dell’invocazione finale alle “vilissime sorelle/beneamate gazzelle, procreate, prolifere”, muse non olimpiche, depositarie biologiche di generazioni a venire sempre più ipotetiche, né è un caso che tale apostrofe abbia la stessa struttura semiologica della preghiera fortiniana agli dèi inesistenti. La terna di strofe che connota questo esordio corale sembra chiudersi nel caratteristico andamento di un epigrafe elegiaca, da antologia palatina o da Phlebas the Phoenician, dilatandosi al tempo stesso ad abbracciare l’intera circolarità di una samsara per sua natura indifferente, e indifferenziata, nel tempo; al loop dell’esistenza impermanente, nell’utopico non-ancora, che alla visione orientale e antica del tempo sovrappone, sia pur regionalmente, una occidentale, quasi blochiana, eco di un principio-speranza, viene affidata una preghiera impossibile, aporetica, che “chi non c’era” possa essere ancora salvaguardato, protetto in una provincia della storia abbastanza lontana, o immune, dai nostri errori e orrori contemporanei. L’aporia, ovviamente, non è nell’invocazione come tale, ma nell’esistenza stessa e nella sua tragica bipolarità, marcata da nodi di antitesi e ossimori condesati in enallage (“ritorneremo morituri”) e da un’allitterazione di preverbio (il “procreate prolifere” di cui sopra).

La prima sezione che segue al coro, “La forma del fiato” è dominata anzitutto da questo tema della circolarità, scandito dalla “letania” del respiro dell’anziano: nella scelta del vocabolo, di forma arcaizzante, si compattano sia l’eco sonora del rantolo, come di cantilena affannosa, sia l’idea della letargia e dell’oblio. Come già nel coro, le immagini legate alla dimensione fisica elementare del biologico condensano in un corpo umano individuo lo stato dell’intera realtà. Il corporeismo arcaico del mito del cosmo creato con le parti del corpo del gigante primordiale ucciso, o l’imagine dell’universo che è cadavere decomposto di un dio-morto, come da Ilarotragoedia di Manganelli, si ripropongono sotterraneamente così che il respiro rantolante, neurogeno, con la sua ritmicità paradossa e infausta, diventa correlativo oggettivo di un nodo di concetti: lo spirito (respiro, flatus, brahman) del mondo morente; lo spirito-Geist tradizionale e storicistica marca terminologica della civiltà; il respiro degli intubati; il ritmo ossessivo-compulsivo del litaniare di religioni ridotte a superstizioso e fanatico biascicare in nome di una spiritualità illusoriamente ritrovata in nome dell’industria di manipolazione mediatica della paura. La frana dell’esistente così rappresentata assume toni di pseudo-epica, come nella prosa a pag. 14, i cui echi parodici si possono cogliere facilmente: “le armi, i cavalli, le navi, i gigli dorati, il gheppio…” All’epopea abortiva si accompagnano nuove forme di invocazione a dèi inesistenti, o marginali e larvali (“a chi dirlo, dio della goccia [=di spermatozoo, sempre più sterile, di pioggia, sempre più rada], non tocca a lei, non può curarlo/non si salvano i bipolari, una pena sottile, tagliente”), mentre singoli fotogrammi e fatti atomici dell’esistenza scorrono o si aggregano per clinamen. Il senso sotteso ai singoli istanti fotografati, tuttavia, si accompagna a una presa di distanza giustamente ruvida, nei confronti dei petrarchismi inconsci latenti nella moda dello sconnesso concettuale per presa di posizione: “l’elenco anodino della spesa con riportate tutte le indicazioni ed etichettature, rimodulate in forma clamans sottotensiva e asindetica, in tono abstract for call papers, si sottopone a peer review, della serie infinita leggetevelo voi e gli intimi nemici”. Sul milieu para-accademico dei poeti italioti, rizomi avariati in cerca di felce da clonare, la Amarelli non è mai stata troppo tenera. Nel contesto del messaggio de L’indifferenziata, questa breve prosa suggella una condanna alla Geenna (nel senso originario di luogo maledetto destinato a discarica) di tutte le poetiche contemporanee (e delle filosofie soggiacenti) che scambiano per oggetto da idolatrare quello che in origine (ai tempi ormai remoti di Lyotard) era stato stigma di denuncia. Lo sguardo sul flusso esistenziale, ritornante-morituro, si accompagna alla denuncia delle espressioni sub-poetiche o post-poetiche ingessate, nate epigone già nel momento della loro formulazione, già oggetto di archeologia al tempo della loro eclatante novità presuntiva (pag. 27: “lineare a, lineare b/stiamo crittografando per voi/la lineare c/ci scusiamo per il disagio//archeologia poetica”). Per converso, la stessa autrice, nel tempo del respiro rantolante/spirito (Zeitgeist) prossimo allo spirare, dà del fare poetico una definizione à rebours, da teologia negativa: “una volta avrei detto// sfibra/ la libra vibra/ chiudi il canto,/ trancia di più il silenzio/ (daccapo)”. Se in alcuni contesti la poesia si è riqualificata come arte della parola, di fatto qui viene definita come arte della scansione del silenzio, quasi che gli spazi bianchi/rumore bianco/brusio della parola assente, siano, al di là delle eventuali, facili ironie da parte di chi invece la parola la usurpa spesso e volentieri col suo niente articolato in cacofonie, la vera sede del messaggio. Le precisazioni metapoetiche, su cui abbiamo voluto dilungarci, sono necessarie a individuare un tratto tipico della poesia di Viola Amarelli: di quell’ufficialità accademica, essa è il negativo fotografico, la proposta di ricerca e di scoperta di tutto ciò che rimane deliberatamente eluso dagli pseudo-problemi di troppa arroganza critica militante.

Nella sezione successiva, “La linea, la curva”, è il tema dello sguardo, della darśana, a campeggiare. I termini della dittologia nel titolo definiscono, nelle loro accezioni, nei loro sensi compossibili, nei loro strati semantici, altri nodi e grumi di paradigmi e concetti: la linea come verso, ma anche come direzione, come vettore, come confine, come limite, come tratto di distinzione, come orizzonte, come curva dell’orizzonte ottico. Ma nei primi versi di questa seconda tranche l’orizzonte ottico è stornato, offuscato, ignora il paesaggio di una apocalisse annunciata (pag. 35: “si vedono fumi, sioux senza patrie/colline appicciate/la linea continua del/nascosto un convolvolo sfiora una curva/le linee si sfocano”), in cui i tre parametri di inquadramento dell’umana idiozia si scandiscono a passo di marcia, in battute ternarie: “che sputo di terra, che nebbia di sensi,/che spreco di rabbia”). Le diverse connotazioni della dittologia “linea-curva” sembrano squadernarsi poi per sinusoidi di climax e anticlimax: la linea come orizzonte ottico, diventa linea di pensiero (p. 38: “un offuscarsi di/ pensa che/ non pensa”); la linea absurde reducta a punto, a p. 42 “il punto da solo, è una linea? inesiste/caduto alla gora, approda alla secca”, con addizione, al verbo -sistere zanzottianamente reinventato, di un preverbio che gli è noto solo nel participio ridotto ad aggettivo “inesistente”. Quest’ultimo Witz verbale si rivela ominoso: il punto, l’implosione ottico-esistenziale, limpida nella sua mancanza di relazione, nella sua chiusura a riccio di nucleo gnoseostatico, buco nero calvo, è annichilazione, rifiuto di abbracciare il flusso e l’impermanenza, rifiuto di abbracciare l’estinzione (trad.=nirvana) come momento di conferma dell’atto di esistere e della sua leggerezza (leggerezza, non inconsistenza). La poesia successiva (p. VII), dilaga nella pagina con un blocco compatto di versi atonali, che la riempiono completamente e fra i “canti” VI e VII (pp. 42-43) si esprimono con chiarezza i capisaldi di una poetica che è nello stesso tempo orientazione concreta nel mondo: la pagina si sporca diffusamente di lettere, di linee, di versi, di indicazioni, si sporca di corpo di stampa, come il soggetto umano latente (un sé esistentivo, non un io lirico) del poetare deve sporcarsi di corpo per acquisire, merleaupontianamente, un punto di vista sul mondo che sappia di qualcosa, che sia un senso, che abbia una ragione evolutiva e una prospettiva di ulteriore dinamica: “Stracciare le mappe, i fogli, i disegni. Curve e linee./ Guarito. Ha deciso. Il manicomio è fuori./ Questo lo ricorda,/ l’ha sempre saputo”. Il “canto” VII della seconda sezione della raccolta, al centro dell’opera, è un unicum: di fatto è l’unico blocco di versi atonali (quasi da Laborintus), in una raccolta in cui più della metà dei versi si aggrega in mini-lasse o al più in sequenze strofiche brevi, intervallate occasionalmente da blocchi prosastici; è anche il “canto” in cui le linee e le curve convergono e poi si ridipanano, a partire dal referto di avvenuta guarigione esistenziale e cognitiva che lo chiude.

Il biodegrado che già si prefigura in “La linea, la curva” (si pensi al carnaio del “canto” V o all’immagine della “performance cemeteriale” del pur meno negativo canto VII), chiude il ciclo vitale de L’indifferenziata e de la sua comèdie humaine a una sola cantica, quella dell’inferno, di quella Geenna a cielo aperto di cui abbiamo già evocato i miasmi. Mito vuole appunto che alla base del biblico immondezzaio della valle di Ennom, la Geenna, poi divenuta simbolo evangelico dell’inferno, ci fosse la maledizione del re Giosia, che bandì il culto del Moloch famelico di sacrifici umani. Dai tempi di Emilio Villa e dei suoi Tebani alla siesta al cospetto dell’anti-Edipo col suo secchiello di gelato, l’ipostasi poetica del re dismesso ha variamente popolato la tradizione della poesia italiana canonica e marginale, e ne “il discorso del re” (p. 49) ne abbiamo un nuovo, inusitato travestimento, a cui forse il racconto biblico fa da ipogramma: in questa poesia il re sorveglia il Paese indifferenziato e indifferente, riciclaggio di ceneri sporche e di denari mal ripuliti, contemplando il suo popolo degradato e non ulteriormente degradabile: “Creta per nuovi figuranti/Manigoldi e depressi/Il popolo che ressi”. Il re la cui immagine balena in questi versi è demiurgo che distrugge nel momento in cui crea, rimpastando ceneri di cadaveri: re del mondo di una Shamballa parodica, capo di governo di un Paese in disfacimento, re dell’universo che mandarebbe’l en profondo, pronto a vomitare, apocalitticamente, dalla sua bocca un popolo, nazionale e planetario, che non è né caldo né freddo, ma sempre eternamente tiepido del tepore malsano, repulsivo, dei corpi appena vaporati dal crematorio, contempla “i lutti che affollano di corpi e ricordi/ confusi gli attriti, gli sfreghi/ scomparsi//non ne può più, legge le indicazioni/ l’opzione – di nuovo? di/ vecchio – umido o plastica, la straccia// l’indifferenziata”. Al culmine del biodegrado si suggerisce l’idea, tutt’altro che consolatoria, di una causa prima/ultima in preda a delirio di negazione, onni-impotente di fronte alla deriva destinale che è poi il Moloch a cui troppi, quasi tutti, in pensiero, parola, opera, verso, dedicano coralmente il loro culto inculto, gioiosi del loro biodegradabile consumarsi.

Su questa scena dominata dal dramma dell’incoscienza si chiude il coro, con nuova invocazione, ancora una volta a una eterna, la signora dei serpenti, terra, a cui viene dedicato, ancora una volta, un inno cletico a bocche chiuse:

un lungo lungo velo di silenzio
una notte chiarissima e abbuiata
nere le vacche, le pecore e le cagne
signora dei serpenti
datti pace, la tua fatica
– salvarsi tutti insieme e a uno a uno –
vale il cielo a squarcio
qui dove non si salva mai nessuno

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Daniele Ventre (Napoli, 19 maggio 1974) insegna lingue classiche nei licei ed è autore di una traduzione isometra dell'Iliade, pubblicata nel 2010 per i tipi della casa editrice Mesogea (Messina).
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