I segni dell’inguaribile ferita. Giovanni Giudici e Roma

di Lorenzo Pompeo

La parentesi “romana” della biografia umana e intellettuale del poeta scomparso dieci anni fa, una tappa fondamentale nella sua formazione, venne mirabilmente rappresentata in due liriche, Tornando a Roma e Roma, in quel niente  tratte da La vita in versi, la silloge del 1965 pubblicata dalla Mondadori con la quale il poeta si affermò definitivamente nel panorama della poesia italiana di quegli anni.

Nel 1933 Gino Giudici, il padre del poeta ligure, ottenne un impiego all’Istat e così si trasferì a Roma con tutta la famiglia. In attesa di trovare un alloggio, collocò Giovanni, che allora aveva nove anni, al Pontificio Collegio Pio X retto dai padri Giuseppini preso il quartiere San Lorenzo, dove rimarrà per due anni. Comincia così il lungo soggiorno nella capitale. Vi trascorrerà gli anni della guerra e del dopoguerra, fino a  quando, a trentadue anni, nel 1956, si trasferì a Milano. Ma fu nel corso di questi ventitré anni trascorsi a Roma che maturò quelle scelte che orientarono il suo successivo percorso: nel 1941 si diplomò al Liceo Classico Giulio Cesare presso la sezione distaccata di Montesacro, il quartiere dove abitava con la famiglia. Fu proprio qui che strinse i primi contatti con i militanti dell’antifascismo, legati al Partito Comunista e a Giustizia e Libertà. Nello stesso anno si iscrisse a Medicina, ma l’anno successivo decise di passare alla facoltà di Lettere. Risalgono a questo periodo i primi versi e alcuni racconti. Renitente alla leva, si nascose presso un amico e dopo l’8 settembre militò nel Partito d’Azione. Nel 1944 per sei mesi si impiega alla Guardia di Finanza, successivamente, per un breve periodo, lavorò prima come garzone di cucina presso una caserma della Royal Air force e poi, nel ‘45, all’ufficio stampa della Questura di Roma. In quello stesso anno si laureò con una tesi in Letteratura francese e aderì al PSIUP (Partito Socialista Italiano di Unità Proletaria). Nel 1947 lasciò il lavoro alla questura ed entrò nella redazione del quotidiano «L’Umanità», organo del PSDI, divenendo l’anno successivo giornalista professionista. Nel 1949 si impiegò presso l’USIS (United States Information Center), un ufficio dell’Ambasciata statunitense, con la mansione di redattore del bollettino che l’ambasciata inviava quotidianamente ai giornali (con l’occasione imparò l’inglese). Continuava a scrivere poesie (ne pubblicò un paio nel 1949 sulla rivista «Accademia»). L’anno successivo conobbe su un treno tra Roma e La Spezia Marina Bernardi, che sarebbe diventata la compagna della sua vita. Nel 1952 nacque il figlio Corrado e, l’anno successivo, pubblicò Fiori d’improvviso, la sua raccolta d’esordio, che vide la luce grazie al sostegno di Elio Filippo Accrocca. Negli ambienti romani conobbe Amelia Rosselli, ma sarà Giorgio Caproni la figura a cui Giudici si sentì più affine. Le sue poesie apparivano sempre più frequentemente sulle pagine de «La fiera letteraria». Nel 1953 conobbe Umberto Saba, ricoverato a Roma. Seguì una corrispondenza tra i due poeti che per il giovane ligure sarà di fondamentale importanza. Il triestino lo incoraggerà (“rare volte mi è capitato di leggere, nei giovani, versi così ben costruiti” – scriverà all’amico esordiente nel 1954). Nel 1955 pubblicò la silloge La stazione di Pisa, che raccolse qualche consenso da parte di personalità del mondo letterario (Luciano Erba e Vittorio Sereni), maturava tuttavia in lui una crescente insofferenza sia nei confronti dell’ambiente letterario romano che verso quello dell’Ambasciata americana. E così nel 1956 lasciò definitivamente la capitale per approdare prima a Ivrea, alla corte di Adriano Olivetti e, dal 1958, a Milano.

 

La prima delle due liriche in questione è Tornando a Roma

 

Molte case nuove, i mattoni divorano l’aria:

qui erano villini impiegatizi, maltenuti

perché un giardiniere costa e l’impiegato

non ha soldi, disdegna la zappa del paria.

 

Un tempo conoscevo dagli alberi queste strade:

una la gloria di un pino, un’altra la sontuosa magnolia,

un’altra verso maggio il profumo dei tigli,

un’altra il prato di fianco e le case rade

 

Qui era la sezione, ma c’è un negozio

di tessuti, le mie compagne di scuola

s’incontrano alla spesa e non si salutano

si nascondono per vergogna i giovani in ozio.

 

Se fossi rimasto qui dove il pianto mi stringe,

sarei chiuso, stroncato come gli alberi:

ma ospite d’un giorno devo fare coraggio

al compagno che per orgoglio di resistere finge1.

 

Quando uscì La vita in versi erano trascorsi solo nove anni dal distacco con la capitale (anche se la poesia in questione in verità era uscita nel 1961 su «Il menabò» in origine intitolata Montesacro e datata in calce al 1960), ma si tratta di un periodo cruciale dal punto di vista socio-economico per l’urbe, cosa che il poeta coglie perfettamente in questa descrizione assolutamente realistica e quasi tangibile del quartiere romano dove il poeta aveva trascorso gli anni della sua adolescenza. Non c’è molto da aggiungere o da spiegare perché Tornando a Roma può essere considerata una perfetta riproduzione fotografica di un luogo. Molto più interessante è la successiva Roma, in quel niente2, che risale al 1964-653.

 

Non mi faceva più male. Improvvisamente all’aperto

mi trovai di una strada, di una piazza – ma

era forse una stanza tanto era tiepida l’aria

e silenziosa la mia solitaria

calma. Non mi faceva più male – un tempo io

a tagli di rasoi aduso, a manrovesci

sul muso, agli urli di chi

mi faceva paura… io li sapevo

i luoghi da evitare, quegli stessi

dove altri in eletti colloqui, a mezza

voce, suadenti squisiti amplessi

tranquilla gastronomia seduceva – Oh questa

città deliziosa, impagabile, inimi-

tabile, dicevano essi.

Ma per me appunto luoghi pericolosi

dove chiunque – è lui! – potevano riconoscermi,

dove ero io, o così

in quel tempo credevo – la vittima designata.

Per questo avevo paura di questa città.

 

Non io, ma probabilmente (se esiste) il mio

essere trascendentale anima che mi precorre

in qualche luogo buio ma al riparo era entrata,

poiché sulle guance sentii la carezza di una

nobile quiete tempesta da poco placata.

Ero in una piccola piazza?

Piazza Febo, ad esempio, dove un antico libraio

incazzato col mondo intero e magari

un po’ strano che tu, malignamente, Mario…

 

Ero in una stanza dall’alto soffitto?

Certo che questo so: improvvisamente

non mi fece più male – e le mie mani

un poco tremanti come sarò

inevitabilmente da vecchio sollevai annaspando

e niente, niente, trovando

se non l’odore che direttamente

ai pori della pelle percepisci, l’odore

della tua casa vuota dopo una lunga assenza.

 

Era un letto, e col dorso della mano una cosa

in quel niente incontrai che respirava:

era una coscia collina a pan di zucchero?

Né so se da un cielo o finestra l’illuminava la luna:

ma certo non senza timore ritrassi la mano,

subito strisciando più lontano

sulle lise lenzuola per alcuni

centimetri che erano miglia – tepore

qui supponendo dell’anca, un meno di calore

l’incavo della vita e l’ascella un odore di schiuma.

Boccio conchiglia fontana in alto sul grembo s’apriva.

Era donna di pelle un poco bruna

dai capelli unti e lisci – o città che dormiva

di tanta ignara materna dolcezza?

Poi per un colpo di tosse si torse supina,

alzò la testa, si mosse:

e io fui come il ladro sorpreso in pieno giorno

al punto del non ritorno

fui Gulliver minuscolo sul corpo della regina.

 

Ma non avere paura, mi disse la voce enorme

eppure senza suono impensabile idioma

da quali sensi non so

captato – eppure con tutta la forza

d’un sisma che pigramente

si sveglia ma inesorabile dal suo sonno – anni

d’angoscia liberando – orrore

d’incontrare lei loro – casa, ragazza, annosa

mignotta, spietato trafficante,

verme dai conti in regola, compagno, ruffiano,

vecchio maestro, prete, nazista, americano,

politico dai nobili sdegni, disfatto padre

– tutto che al mondo è romano.

Non avere paura, non puoi rifiutare la morte,

sei qui, ti conosco – la voce mi ripeté.

Stammi vicino, toccami, cammina sopra di me.

Dalla sua mano guidato per tutte le sue strade

salivo in lei lentamente.

Baciai la bocca che sa di biscotto e di niente.

 

Di quell’amore aspettando la fine.

 

Lo stesso autore la considerò una delle sue migliori creazioni («Terminata la poesia su Roma: forse uno dei miei risultati migliori negli ultimi tempi. Non è oscura, credo: ma certo è misteriosa»4 – scriveva a proposito lo stesso Giovanni Giudici in una annotazione datata al 4 febbraio 1965) e a buon diritto, anche perché rappresenta forse una delle migliori liriche dedicate all’urbe nella poesia del secondo novecento. Rodolfo Zucco, il curatore del volume de «I Meridiani» dedicato al poeta ligure parla di una «origine onirica del testo»5. Ciò forse è vero in relazione alla descrizione di un luogo indefinito nei primi versi della prima strofa («Non mi faceva più male. Improvvisamente all’aperto / mi trovai di una strada, di una piazza – ma / era forse una stanza tanto era tiepida l’aria / e silenziosa la mia solitaria / calma. (..)»). Ma già nel corso della stessa strofa i riferimenti si fanno più concreti: si parla di una città «deliziosa, impagabile inimi / tabile, dicevano essi». Ma il rapporto dell’io lirico con la città è segnato da una angoscioso senso di persecuzione («dove ero io – o così in quel tempo credevo –  la vittima designata. / Per questo avevo paura di questa città» – sono i versi che chiudono la strofa). In questa lirica Giudici ci offre un’immagine dell’urbe agli antipodi rispetto a quella cartolina che aveva affascinato tanti poeti stranieri che tra la seconda metà degli anni ‘50 e i ‘60 soggiornarono nella Città eterna, da Ingeborg Bachman (che vi morì nel 1973) a Rafael Alberti, da Rodolfo Wilcock (sepolto nel cimiero acattolico di Testaccio) a Murilo Mendes. Quella del poeta ligure è una città angosciante, deformata da una fortissima carica erotica impura, che schiaccia l’io lirico («fui Gulliver minuscolo sul corpo della regina» – dichiara il poeta nella citata lirica).

La posizione della lirica in questione, la penultima della raccolta, a cui segue il breve componimento Finis fabulae6 a cui la poesia in questione sembra ricollegarsi, è un elemento a cui occorre prestare attenzione.  Roma, in quel niente appare quindi come il riepilogo di una raccolta, il suo climax, a cui segue l’anticlimax  finale. Infatti nella citata lirica c’è un elemento dionisiaco, legato alla sfera erotica, che irrompe prepotentemente nella terza strofa (Era un letto, e col dorso della mano una cosa / in quel niente incontrai che respirava: / era una coscia collina a pan di zucchero? / Né so se da un cielo o finestra l’illuminava la luna: / ma certo non senza timore ritrassi la mano, / subito strisciando più lontano / sulle lise lenzuola per alcuni / centimetri che erano miglia  – tepore / qui supponendo dell’anca, un meno di calore / l’incavo della vita e un’ascella un odore di schiuma. / Boccio conchiglia fontana in alto sul grembo s’apriva/../). Ma nel corso della stessa strofa l’immagine della donna si trasfigura in quella della città stessa (/../ Era donna di pelle un poco bruna / dai capelli unti e lisci – o città che dormiva / di tanta ignara materna dolcezza?/../). Ma il vero e proprio climax della lirica è nella strofa successiva, quando l’esperienza erotica dell’io lirico abbraccia l’intera città in un angoscioso e concitato elenco senza l’articolo (asindeto): «/../ casa, ragazza, annosa / mignotta, spietato trafficante, / verme dai conti in regola, compagno, ruffiano, / vecchio maestro, prete, nazista, americano, / politico dai nobili sdegni, disfatto padre / – tutto ciò che al mondo è romano./../». La lirica si chiude con un verso («di quell’amore aspettando la fine.») che si ricollega alla successiva Finis fabulae già a partire dal titolo. In quest’ultimo breve e mirabile componimento che chiude la raccolta si spegne il furioso climax della lirica precedente in un composto anticlimax già nei primi due versi («Come una scia si richiude la favola / sugli sbuffi dell’elica lussureggiante di schiuma /../»).

Quando uscì La vita in versi, la lunga parentesi romana rappresenta una tappa umana ed esistenziale che l’autore si era lasciato alle spalle.  Quella che compie il poeta in questa lirica è una resa dei conti dolorosa ma necessaria. «Se fossi rimasto qui dove il pianto mi stringe, / sarei chiuso, stroncato come gli alberi» aveva scritto in Tornando a Roma. E in effetti la creazione poetica legata alla fase “romana” appare forse ancora poco incisiva e un po’ acerba (anche se è già possibile scorgere una buona padronanza del verso). Fu necessaria una cesura, una separazione anche fisica, dall’ambiente della capitale per trovare quella linfa vitale necessaria per nutrire il suo verso. Sotto questo punto di vista Roma, in quel niente e Finis fabulae rappresentano forse l’apice raggiunto dall’autore in questi anni: chiudendo La vita in versi, riassumono il senso intero di un’esperienza umana e intellettuale in un passaggio cruciale verso una compiuta maturità artistica e, nello stesso tempo, tracciano un inedito ritratto di una città che il cinema del neorealismo aveva già portato sotto i riflettori proprio in quegli anni.

 

1Giovanni Giudici, I versi della vita, a cura di Rodolfo Zucco, I meridiani, Mondadori, Milano 2000, p. 41.

2Le citazioni sono tratte da: Giovanni Giudici, Op. cit., p. 122-124.

3Datazione tratta da: Giovanni Giudici, Op. cit., p. 1409.

4Ibidem.

5Ibidem

6Giovanni Giudici, Op. cit., p. 125.

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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