L’orso di Calarsi

di Claudio Conti

«Da una parte l’Impero ottomano, dall’altra la Valacchia. In mezzo il Danubio, nero e immenso».
Lara è sul fianco e ruota la testa all’indietro, verso Adrian. Rimane così per un po’, con la reminiscenza del suo profilo a sfumare sul cuscino.
«Fai sul serio?» gli chiede alla fine, assonnata.
Adrian accende l’abat-jour e si tira su puntando i gomiti. «Non dormire», le dice mentre si sistema il cuscino dietro alla schiena, «devi ascoltare».
Allunga una mano per prendere le sigarette dal comodino e si sofferma sul libro su cui era poggiato il pacchetto.
Lara gli lancia un’occhiata. «Non vorrai fumare?»
Adrian solleva il libro e se lo rigira tra le mani. Lei ruota il corpo verso di lui e il movimento troppo brusco manda all’aria la stanza, che inizia a girare.
«Sono sottosopra», mugugna.
Lui sfoglia pagine come schiaffi.
«Fa’ attenzione con quello».
«Sembra antico».
«Lo è».
«Cosa hai detto che studi?»
«Non me l’hai chiesto. Storia dell’arte».
Adrian si blocca e centra una pagina con l’indice. «Sono disegni arabi?»
«Miniature. Cinesi, persiane e turche».
Lui prende una sigaretta dal pacchetto usando i denti, senza distogliere lo sguardo dal libro. «Miniature
Lara chiude gli occhi nel tentativo di rallentare la rotazione del letto. «Si chiamano così».
«È curioso perché la storia che ti stavo raccontando», richiude il libro e lo lancia sul comodino, «parla proprio di turchi».
Lara sobbalza per il rumore. Cerca con lo sguardo il libro, per metà oltre il bordo del mobile, quindi scivola su di lui, sul suo fisico curato, i pettorali, i tatuaggi. «E della Valacchia», aggiunge con un mezzo sorriso annoiato.
«È il posto da cui vengo».
Lara torna a rivolgergli la schiena, tirandosi il lenzuolo fin sopra la spalla. «Senti, per me vieni dal Blu Line», gli risponde sbadigliando, «può bastare?»
«Tra poco me ne vado».
«Non ho mica detto che devi andartene, sono solo stanca, e poi ho bevuto troppo».
Adrian fa scattare l’accendino e fissa il cuore blu della fiamma fremere sulla brace dalla sigaretta.
«Mi sei sembrata una che l’alcol lo regge bene».
«Se sono qui con uno che in piena notte si mette a parlare dell’Impero ottomano», fa lei in mezzo a un altro sbadiglio, «direi che non lo reggo poi così bene».
«Non ho neanche iniziato».
«È una minaccia?»
«Studi Storia dell’arte, il passato dovrebbe interessarti».
«Sì», gli fa con un filo di voce, «ma il passato è lì, stanotte non andrà da nessuna parte».
«Il passato si muove eccome», risponde lui con una sfumatura nervosa che la sorprende. «È un cacciatore instancabile», aggiunge soffiando fumo.
«Ti avevo chiesto di non fumare».
Adrian le sfiora il collo con l’indice e lei si ritrae come una chiocciola.
«Facciamo così», gli propone, «racconta la tua storia, non badare a me», la voce sembra spegnersi, «ma se mi addormento non prendertela».
Lui le scopre la schiena nuda e ne segue l’armonia della sinusoide. Lara si tira su il lenzuolo, con un gesto rapido. «Lo fai sempre?» Gli chiede quasi infastidita.
Adrian tira dalla sigaretta e lancia il pacchetto verso il comodino, mancandolo.
«Faccio sempre cosa?»
«Tormentare, lo fai con tutte?»
«In effetti no».
«È il mio giorno fortunato, allora».
«È la storia di un destino. Un deochi vecchio di duecento anni», le dice poggiando la testa sul muro e osservando le decorazioni sul soffitto, «una condanna nata ai tempi degli orsi ballerini».
Lara sbuffa divertita e scettica. «Gli orsi ballerini, ovvio, come ho fatto a non pensarci».
«Erano Ursari», fa Adrian, serio. «Andavano avanti e indietro lungo la sponda del Danubio, nei pressi di Calarsi, di villaggio in villaggio. Gli orsi ballavano al ritmo del tamburello alzandosi sulle zampe posteriori, sai, acrobazie e giochi. I contadini, quei poveracci, ci andavano matti. Pensavano fosse magia».
Lara sente un sapore terribile in bocca. «Mica volevo offenderti», gli fa infilando una mano sotto al cuscino per sorreggere meglio la testa.
«Quella gente campava così, d’elemosina, accampandosi dove capitava, era una vita misera», si prende una pausa e tira dalla sigaretta.
Lara ci pensa su. «Tu hai una vita misera, Adrian?»
«Che vuoi dire?»
«Non ho visto orsi al Blue Line, stasera. Ho visto un ragazzo ben vestito che striscia la sua carta».
Adrian getta la cenere sul pavimento e si rivolge alla sua nuca. «E con questo?»
Lara si aggiusta ancora il cuscino, il sonno sembra aver abbandonato la sua voce. «Il passato è morto. Muore ogni minuto».
«Non dovresti fidarti delle apparenze».
Lei sente salire un po’ di nausea. «L’apparenza è tutto quello che abbiamo».
Adrian fissa i colori che animano gli inserti della porta di legno. «Le apparenze, già», ripete sovrappensiero. «Dalle apparenze direi che hai una bella casa».
«È di mio padre», taglia corto lei.
«Cioè tua», ribatte Adrian.
Lara si gira lenta e incrocia il suo sguardo impassibile.
«È meglio amministrare capitali che ammaestrare orsi», le fa.
Lei sembra irrigidirsi, rimane a scrutarlo con una vaga sensazione di disagio che non sa interpretare.
«E tu che ne sai di come campa mio padre?»
Adrian accenna un sorriso. «Il tuo è un cognome noto in città», le risponde con ovvietà.
Lara ha la testa pesante e crolla ancora sul cuscino. È stanca, non le piacciono le serate che si trascinano. Vorrebbe restare sola. «Be’, sappi che non ti sposerò», gli fa scherzando, cercando di spazzare via quella sensazione che le si è appiccicata addosso.
«Il gruppo di Ursari venne sterminato durante la notte della mattanza turca», continua lui, «tutta la maledetta tribù».
Lara si sistema con la schiena sul materasso e le mani sulle lenzuola, attenta a non scoprirsi il seno. Fa un paio di profondi respiri col naso. Le manca l’aria e c’è quel puzzo di fumo.
«La mattanza turca?»
Adrian sposta il peso su un gomito, inclinandosi verso di lei. Le sfiora un seno da sopra il lenzuolo indugiando sul capezzolo.
«Gli ottomani risalgono il Danubio, entrano dal Mar Nero con la loro flotta e invadono la Valacchia. Avanzano sulla terra con gli azab, i tagliatori di teste; sul fiume con le galee davanti al Mahmudiye, il più grande vascello turco, centoventisette cannoni puntati sulla costa, ottanta metri di legno, mille marinai d’equipaggio». Quasi bisbiglia, ora. «Sono spietati e sanguinari, i turchi, uccidono qualsiasi cosa abbia vita. Florina ne sente il puzzo e sbuca dalle tende quando è notte fonda. Sente il fiume ribollire, sente la loro musica: il ritmo ossessivo dei tamburi, il sibilo delle canne di ney e le armonie orientali dei tanbûr. Capisce che gli sono addosso».
Lara sente lo stomaco indurirsi e chiudersi.
«Florina era una tua…».
Adrian si ritrae e si appoggia di nuovo sul cuscino.
«La mia quadrisavola. Lei non dorme mai, lei è il loro angelo. Dalla riva, coi piedi dentro al fango, sente l’odore del sangue che scivola sopra al fiume; vede il cielo farsi porpora per gli incendi e capisce che non c’è tempo: prende suo figlio Victor, di dodici anni, e lo infila in un siluro». La fissa. «Nel Danubio ci sono pesci siluro lunghi fino a quindici metri».
Lara cerca di sistemarsi meglio, ma si agita senza trovare la posizione. Sente che sta per vomitare. «Sei rumeno, quindi».
Adrian fissa la sigaretta facendola ruotare tra pollice e indice.
«Florina ne cattura uno e lo tramortisce con una delle sue misture calmanti per orsi; ci infila dentro il piccolo Victor, che respira grazie a una canna di bambù, e lo affida al Danubio. Quindi libera tutti gli orsi della tribù che si gettano nelle acque e seguono il siluro dritti fino all’isola degli orsi».
Lara ha voglia di infilarsi la maglietta, la cerca, è in fondo al letto. «Devo andare in bagno».
Fa per alzarsi ma Adrian la blocca afferrandole un braccio.
Lara guarda quella mano, guarda lui, stupita.
«Ho bisogno di vomitare».
«Ho quasi finito», la rassicura allentando la presa.
«Fai presto, allora», gli fa decisa, mentre posa lo sguardo sulla tenda tirata, sulla porta chiusa, sulle mutande sul pavimento, sul suo cellulare, che ha lasciato sul comò, dall’altra parte della stanza.
«L’isola degli orsi è ancora lì, è un isolotto in mezzo al Danubio. Lì ha vissuto Victor con la sua comunità di orsi ammaestrati. Lì ha fatto scendere sulla mia famiglia il deochi».
Strizza il filtro e spegne la sigaretta con tre colpi pieni di scintille sulla copertina del libro che si sbilancia e cade dal comodino.
Lara spalanca gli occhi incredula. «Ma che cazzo fai».
Adrian spegne l’abat-jour e scivola verso di lei.
«Quando l’eco dei turchi si allontana», riprende con voce bassa, «Victor fa ritorno al campo e vede i suoi amici, i suoi genitori, Florina; tutti fatti a pezzi. Le teste infilzate sui ceppi, fisse in espressioni innaturali. I corpi bruciati e rattrappiti, lasciati ai ratti».
Lara vede gli occhi di Adrian guizzare nel buio, piccoli e vuoti. Allunga un braccio verso il paralume ma Adrian le afferra ancora il polso. Tenta di divincolarsi, lui lo stringe con forza.
«Lasciami».
«Nella testa di Victor accade qualcosa di terribile. Il ragazzino perde la sua parte umana, diviene un mito. L’Orso di Calarsi, così lo chiameranno per il resto della sua vita. Tutta la stramaledetta Turchia aveva terrore dell’Orso di Calarsi. Dal più disperato dei contadini su fino al grande sultano. L’Orso di Calarsi addestra i suoi orsi ad uccidere; di più, gli insegna a sventrare e mangiare i nemici: gli ottomani prima e gli zaristi poi. E Victor uccide con loro, mangia i nemici con loro».
«Mi stai spaventando».
Adrian la fissa nel buio. «Ecco da dove vengo io. Ecco il mio deochi». La tira a sé. «Ecco chi sono», sibila.
Lara fa una smorfia di dolore. Cerca di liberarsi usando l’altro braccio ma Adrian lo blocca.
«Lasciami andare».
Adrian risponde con una specie di risucchio, un verso di rifiuto sordo e osceno.
Lara si sente debole. Non capisce cosa le sta succedendo. Lo fissa atterrita. È capace solo di un sommesso lamento.
«Io e te siamo la nostra storia»
«Cosa ne sai di chi sono?» gli chiede, quasi implorandolo.
«Lo so da duecento anni chi sei, Lara».
Adrian le sorride d’un sorriso freddo e impuro, la tira sotto di sé con forza, le incrocia le braccia e la schiaccia puntandole un ginocchio sulla pancia.
Lara soffoca un urlo di dolore, non riesce a respirare e nel buio vede solo i suoi denti.

Claudio Conti è stato finalista al Premio Italo Calvino 2021.

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Helena Janeczek è nata na Monaco di Baviera in una famiglia ebreo-polacca, vive in Italia da trentacinque anni. Dopo aver esordito con un libro di poesie edito da Suhrkamp, ha scelto l’italiano come lingua letteraria per opere di narrativa che spesso indagano il rapporto con la memoria storica del secolo passato. È autrice di Lezioni di tenebra (Mondadori, 1997, Guanda, 2011), Cibo (Mondadori, 2002), Le rondini di Montecassino (Guanda, 2010), che hanno vinto numerosi premi come il Premio Bagutta Opera Prima e il Premio Napoli. Co-organizza il festival letterario “SI-Scrittrici Insieme” a Somma Lombardo (VA). Il suo ultimo romanzo, La ragazza con la Leica (2017, Guanda) è stato finalista al Premio Campiello e ha vinto il Premio Bagutta e il Premio Strega 2018. Sin dalla nascita del blog, fa parte di Nazione Indiana.
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