La casa delle madri

di Romano A. Fiocchi

Daniele Petruccioli, La casa delle madri, 2020, TerraRossa Edizioni

Ho letto La casa delle madri molto prima di scoprirlo nella dozzina finalista del Premio Strega. Questo l’incipit:

“La casa è vuota. Le camere sono spoglie, le porte aperte, le finestre spalancate. I mobili non ci sono più, sono stati portati via da tempo. Due piccioni si posano sul davanzale della stanza che all’epoca era chiamata pomposamente biblioteca, ma l’odore forte di cemento fresco li scaccia quasi subito. Le ombre cominciano a risvegliarsi nei minuti di chiarore incerto che precedono l’alba prima dell’arrivo degli operai: si allungano, si rincorrono sui pavimenti grigi e polverosi che si susseguono identici di stanza in stanza, con i loro buchi sfondati, le spaccature grossolane delle tracce per gli impianti ancora da montare, le impronte lasciate sulla polvere dagli scarponi, il senso di sventramento generale. È una casa grande. Deve essere stata una casa sfarzosa, si capisce dalle voragini delle doppie porte in infilata, in un rincorrersi di promesse da boudoir, unioni e separazioni di altri tempi. Questi tramezzi stanno tutti per essere buttati giù. Lasceranno spazio a divisori asimmetrici, a un senso delle forme meno prospettico e più articolato, ambivalente, che si vuole più moderno. La nuova padrona di casa ne ha parlato a lungo con l’architetto, insieme si sono confrontati con l’arredatrice e tutti hanno convenuto che è molto più funzionale così. Perciò questa è l’ultima volta che l’infilata di stanze osserva se stessa, che si rispecchia nelle sue estremità gemelle, mentre il ricordo dei passi che l’hanno percorsa si raccoglie negli angoli sotto il massetto, per farsi murare tra una tubatura e un fascio di fili elettrici perfettamente a norma”.

L’incipit è privo di azione, privo di dialoghi, privo di personaggi (i personaggi entreranno in scena più avanti, per piccoli gradi). È piuttosto un quadro vivente. Penso allo Studio del pittore di Courbet, con quella trentina di personaggi – alcuni realissimi, altri evanescenti, altri allegorici – che si raccontano e intrecciano le loro storie di fronte all’osservatore. Perché il romanzo di Petruccioli continua così, attraverso quadri viventi che si susseguono, con l’azione sostituita dall’evocazione: tutto è già avvenuto, è ricordo, è narrazione già ferma nel tempo. Testimoni delle vicende restano le cose, i muri, gli infissi, le porte, le stanze, i corridoi, gli atri: spettatori intimi e partecipi di quella specifica umanità che li ha vissuti, e di cui si fanno ricordi solidificati. Sotto la superficie descrittiva, corre allora un brivido di nostalgia dolorosa, che ti accompagna sino alla fine del libro. Mentre ritmo e linguaggio, davvero speciali, fanno il resto, generando una prosa compatta e densa come la corrente di un grande fiume, indizio di un lavoro di limatura e di concentrazione del testo perseguito con costanza artigianale.

Difficile dire chi sia il protagonista de La casa delle madri, a chi appartenga la voce narrante, quale sia il soggetto di questa storia che attraversa tre generazioni. Di sicuro, però, il nome più suggestivo del libro è quello di Sarabanda. Sarà perché la sua etimologia echeggia una danza sfrenata, un caos di cose in movimento, chiassose e scomposte. Sarà perché il nome in sé fa l’effetto della Pisana di Nievo (e la grande cucina, con la lunga infilata di fornelli, evoca l’atmosfera della cucina di Fratta). Oppure sarà perché Sarabanda è la madre dei gemelli, Elia ed Ernesto, la moglie di Speedy, la figlia di Nina e del notaio, la nuora di Ilide, la proprietaria della casa delle madri e della casa delle onde. O semplicemente perché, come dice Petruccioli, “Sarabanda era un’esibizionista”. In un modo o nell’altro, Sarabanda è al centro di tutto. Entra in scena in punta di piedi: attraverso un nome di bambina mimetizzato tra i fili d’erba dipinti sulla porta scorrevole del salone grande. Quindi, mentre la storia incomincia a muoversi con la festa di compleanno dei due figli, ecco che riappare dietro la formula antonomastica “la madre dei gemelli”. Infine, solo qualche pagina più avanti, con il suo musicale nome di battesimo: Sarabanda. Petruccioli è così, introduce i personaggi poco alla volta, finché si stagliano netti sullo sfondo delle descrizioni minuziose delle loro abitazioni. Alcuni sembrano farsi protagonisti, poi sfumano, tornano solo come ricordi e fantasmi. Tranne tre di loro, che hanno la solidità dei ripiani di marmo di Carrara della cucina: Sarabanda, Elia ed Ernesto. Speedy – già la stranezza del nome ne è un indizio – è fuggevole, quasi anonimo. Concorre però a costruire il tragico “labirinto fondante di questa famiglia”, ossia la malattia. Malattia nell’accezione più ampia, anche psichica, di cui Ernesto, proprio in contrapposizione con il gemello sano, rappresenta l’incarnazione più inquietante. Un piccolo esempio:

“Non sapeva che tra il suo corpo e gli altri solidi di casa si era ingaggiata una battaglia feroce per la perdita o la conservazione della memoria. Bestemmiava. Si incarogniva. Spostava armadi e comodini, levava libri e li ammucchiava in stanze dove non entrava più, buttava foto rotte, foulard strappati, cocci”.

Il romanzo, da queste battute lo si deduce, è intriso di situazioni umane drammatiche che solo un punto di osservazione oggettivo permette di contemplare dal di fuori, così come fa la vera letteratura.

Il libro si compone di una Parte prima e di una Parte seconda, separate da un Intermezzo dal titolo La casa dei bambini, che è in realtà un cambio di visuale ma non di narrazione e permette di fare luce su altri aspetti – psicologici e comportamentali – del carattere dei due gemelli, che sin dalla nascita sono “due parallele, condannate a non incontrarsi mai”. Ciascuna delle due parti, a sua volta, è suddivisa in due sezioni simmetriche che si ripetono: La casa delle madri e La casa delle onde. Questo per dire della struttura del romanzo, quasi studiata a tavolino da uno scrittore-architetto (Petruccioli, in verità, di professione è un traduttore). La casa, dunque, e le case come contenitori di vite umane, come esseri inanimati che mutano e si adattano alla vita di esseri animati che mutano a loro volta, che nascono, vivono, muoiono. E spesso tornano come spiriti intenti a vagare per stanze che non sono più, che sono altre case, case mutate che hanno spostato muri e porte. Quello che Petruccioli cerca di costruire è un macro-organismo composto di manufatti edilizi che vivono in simbiosi con i loro proprietari e con loro evolvono. Il filo della narrazione si compone e scompone, cambia tempo, ambientazione, personaggi, indaga rapporti, scava nell’inconscio e nel conscio aiutato da Freud, tutto sempre dentro le case: la casa delle madri, la casa delle onde, la casa dei bambini. Sono le case a mantenere saldi i riferimenti. Aiutate dalla prosa stessa: elegante, viva, al tempo stessa composta e sperimentale. Petruccioli inserisce incisi e proposizioni parentetiche attraverso un uso personalissimo delle parentesi. Basti dire che su 298 pagine si contano 791 periodi collocati, con funzionalità diverse, tra parentesi tonde. Qui di seguito, ad esempio, lo strumento della parentesi serve per mettere in risalto gli aspetti psicofisici del personaggio della cuoca:

“Guardandola in faccia, si vede quanto sia nera. Non di pelle (l’Italia è un Paese ancora troppo povero per attirare forze nuove da altri continenti: gli spostamenti sono ancora soprattutto interni) ma in tutto il resto: occhi (grandi, tondi, ridenti, curiosi), capelli (folti, spessi, aggrovigliati, rigogliosi) e sorriso (Annalucia ha un sorriso scuro: forse per i ricordi duri d’infanzia incistati nello sguardo, forse per la nostalgia della sua terra che ha dovuto lasciare troppo presto, forse per l’ingiustizia della vita di chi parte e viaggia per dare da mangiare a sé e alla famiglia; Annalucia sorride sempre nero)”.

Altrove, come in quest’altro esempio, le parentesi vengono utilizzate per mettere in risalto ciò che circoscrivono piuttosto che ciò che lasciano all’esterno:

“Queste stanze e stanzette sono state ristrutturate anni prima (quando Sarabanda era ormai morta da almeno un paio d’anni e i suoi ultimi gatti si erano suicidati o erano stati dati via) rimpicciolendole ancora di più e allargandole molto, in un’impossibile gara a ricavare qui una doccia, lì un lavandino o un bidet, altrove uno spazio grande tutto da riempire”.

Quello che Petruccioli vuole evitare – e che più un lettore come il sottoscritto apprezza – è la banalizzazione del linguaggio. All’utilizzo per così dire intensivo delle parentesi, abbina la totale abolizione dei dialoghi, forse nauseato dal proliferare dei cicalecci televisivi, dai dibattiti sui social network, da tutto l’eccesso di dialoghi che caratterizza la comunicazione di oggi. Rarissime le eccezioni, e proprio per confermare la regola che si è dato, risultano incastonate nel testo quasi da evocare certe battute da teatro dell’assurdo:

“«E perché non mi hai mai detto niente?» «E che ti dovevo dire?» «Come, una cosa del genere…» «Ma quale cosa? Nessuno sa se è vero o se sono solo quelle invidiose delle zie, che lo sai benissimo quanto odiano mamma. E poi, pure se fosse? Che ti frega?» «Come, che mi frega?» «Ma sì. Papà è papà, e fa quello che gli pare»”.

La casa delle madri è dunque un romanzo intenso, ricco di sfaccettature, stimoli, visioni, intrecci di storie, molteplici chiavi di lettura, una di quelle rare letture di prosa contemporanea che restano piacevolmente impresse.

 

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GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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