Gemütlichkeit

di Valeria Ranieri

Si aggirava nel supermercato come se il carrello contenesse macigni, non scatole e barattoli. Nonostante l’aria prostrata, le orecchie erano sintonizzate sui discorsi degli altri. Faceva collezione mentale dei vari: “Che dici, stasera ci facciamo due spaghetti con le vongole surgelate?”, “Amore, non riempire il carrello di schifezze che ti fanno male”, “Le hai prese le merendine per Alessio?”. Desiderava immedesimarsi in chiunque sembrasse meno infelice, fosse solo per qualche secondo; e non poteva fare a meno di chiedersi se gli altri fossero consapevoli della fortuna di avere qualcuno con cui condividere frutti di mare sottocosto o una moglie preoccupata per il proprio colesterolo o ancora un genitore che non fa mai mancare nulla. Briciole di calore umano che le servivano a ricordare cosa si prova a essere importanti per un’altra persona; ricordi che avrebbero stemperato il freddo del ‘Polo Nord’, il monolocale che condivideva con il compagno. Mentre aspettava che un’altra cliente decidesse quali yogurt contenessero meno grassi, avvertì la gola restringersi; cercò di contenersi e mettere su una faccia normale. Fece un cenno amichevole alla signora per comunicarle che sì, stava aspettando, ma non aveva fretta; quella sembrò non averla vista e si allontanò lasciando lo sportello del frigorifero aperto. Lei si disse che non era il suo caso, ma poteva capire come mai tante persone arrivassero a commettere un gesto estremo senza che gli altri si rendessero conto del loro stato mentale.
Eppure, solo due mesi prima, qualcuno si era accorto del suo disagio. Era accaduto a dicembre: quel giorno aveva appuntamento dalla ginecologa e si sentiva così depressa che quasi sperava le diagnosticassero qualcosa; poi aveva varcato le porte a vetri dello studio medico e il suo stato d’animo aveva subito uno scossone. Forse era per via della musica natalizia in sottofondo oppure per le graziose candele ardesia accoccolate in nidi di fili d’argento, non avrebbe saputo dirlo, ma si era sentita addosso quell’abbraccio che le mancava da tanto, troppo tempo. Ecco perché in quell’occasione aveva rispolverato la parola ‘Gemütlichkeit’, termine tedesco appreso al liceo e sepolto nella memoria, sebbene in italiano non si potesse tradurre con un’unica voce perché conteneva concetti come ‘familiarità’ e ‘tranquillità’. Rimuginava proprio su questo quando la segretaria le aveva chiesto se volesse un caffè. Le aveva risposto di no, ma poteva essere lo spunto per una conversazione. Al di fuori dell’ufficio aveva quasi perso l’abitudine di esprimersi a parole e a casa ripeteva solo frasi come: “Lo trovi in frigo”, “domani passo a comprarlo”, “abbiamo finito la carta igienica”, “l’hai pagata poi quella bolletta?”. Questo accadeva nei giorni migliori perché nei ‘giorni no’ ammutoliva, mentre Andrea si sfogava alzando la voce e bestemmiando. Come certi animali, lei si fingeva morta: non si muoveva e non articolava nessun suono sperando che lui si stancasse di inveire contro una statua. Ma non funzionava mai.
– Avete fatto un bel lavoro qui. Con le decorazioni – aveva detto. La sua voglia di comunicare era più forte dell’imbarazzo.
– Ci ha pensato la dottoressa. Sa, i bambini rendono creativi – aveva risposto l’altra, riferendosi alla figlia neonata della ginecologa.
Ah, i bambini. Ormai quell’argomento era fuori discussione per lei.
– È già paziente? Non mi pare di averla vista.
– No, – aveva scosso la testa – mi ha mandato una collega – aveva spiegato, facendole il nome.
Quella curiosità aveva innescato una serie di risposte e domande altrettanto banali ma che le avevano fatto scordare il proprio isolamento per una decina di minuti. Quattro chiacchiere con un’altra donna sapevano di normalità; allora perché non frequentava più gli amici di una vita? “Ah sì… perché hanno messo su famiglia e giustamente non hanno tempo per me”, si era risposta. Esauriti gli argomenti era rimasta seduta con la schiena ricurva.
– Sta bene?
Se lo era sentito chiedere due volte perché non credeva che la domanda la riguardasse.
– Dice a me? Sì, grazie.
“Che carina”, aveva pensato, “anche se è difficile che vogliano sentire la verità”. Poi aveva rettificato: – Sì, insomma… Ho avuto periodi migliori ma fisicamente sto bene. Almeno quello.
La segretaria aveva ripreso buttando qualche luogo comune sullo stress che comportano le festività e i ritmi della vita quotidiana. Sebbene si fossero allontanate dalle questioni personali, lei aveva gradito quell’interessamento.
Perché Andrea non glielo chiedeva più, si domandò afferrando due confezioni di yogurt alla nocciola. Da Natale non c’erano stati cambiamenti significativi; se non altro avevano smesso di litigare e per quanto non ci sia nulla di più deleterio del silenzio, era un miglioramento. Quante volte aveva immaginato di dirgli “adesso basta, me ne vado” e poi non lo aveva fatto? Perché non riusciva a staccarsi da lui? Arrivata nella corsia dei dolci restò inebetita: porca miseria, era San Valentino! Soppesando una scatola di cioccolatini ripensò alla cena di tre anni prima, quando erano ancora due fidanzati leggeri per i quali ‘affitto’, ‘bollette’ e ‘spesa’ erano solo idee astratte. Possibile che la routine li avesse divisi? Posò i cioccolatini e spinse il carrello. Erano uova di Pasqua quelle? Notò un uomo e un bambino sostare proprio lì davanti.
– Dai, scegline una. Fallo per nonno, che pesi in braccio.
Abbassò il capo. Al pensiero del vuoto che la attendeva al ritorno, sperimentò i classici brividi di tristezza: cominciavano dal cuoio capelluto e si propagavano nel resto del corpo sollevando ogni singolo poro, per culminare con una scossa alla spina dorsale. Il nonno e il bambino la stavano fissando, allora si voltò e arraffò una confezione di cornetti fingendo di studiarne gli ingredienti. Rimasta sola, frullò il pacco sullo scaffale e respirò a fondo. A quanto pare non riusciva più a passare inosservata. No, non poteva rovinarsi pure la Pasqua come aveva fatto con il Natale. Basta, doveva tirarsi fuori da quel legame tossico! Attraversò le corsie già visitate e cominciò a rimettere a posto: via le uova, via le confezioni di pesce surgelato, via il vino (tanto era astemia). Al Polo Nord non ci sarebbe tornata, non quella sera. Forse era il caso di avvertire la madre prima di piombarle a casa. Estrasse il cellulare e trovò un messaggio di Andrea. Chiuse gli occhi e inspirò. Sbloccò lo schermo del telefono e lesse: “Per favore, mi prendi la melatonina? Che poi non dormo. Grazie”. Nel carrello, tra gli yogurt e i peperoni bio, avvistò la melatonina: prese la confezione e si avviò verso il ripiano degli integratori per riporla. Controllò l’orologio da polso: erano le 19:40 e se non gliel’avesse portata, Andrea avrebbe rischiato di restare sveglio tutta la notte. E lui aveva sempre assecondato le sue richieste, perfino nei ‘giorni no’. Guardò il soffitto con rassegnazione. Gettò la scatolina nel carrello e tornò al reparto surgelati. Per una trentina di secondi fissò il merluzzo che aveva appena posato, premendo le labbra l’una contro l’altra, verso l’interno e verso l’esterno. Soffiò. Tornò al messaggio e digitò: “Okay. Ti serve altro?”

 

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gianni biondillo
gianni biondillo
GIANNI BIONDILLO (Milano, 1966), camminatore, scrittore e architetto pubblica per Guanda dal 2004. Come autore e saggista s’è occupato di narrativa di genere, psicogeografia, architettura, viaggi, eros, fiabe. Ha vinto il Premio Scerbanenco (2011), il Premio Bergamo (2018) e il Premio Bagutta (2024). Scrive per il cinema, il teatro e la televisione. È tradotto in varie lingue europee.
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