Benzina verde
di Andrea Migliorini
Penso che la colpa fu di nostro padre.
Quando gli disse: «Prenditela con lei, con tua madre. Io non c’entro».
Nostro padre aveva ragione: la calvizie si trasmette con i geni materni. Mio fratello Matteo lo aveva scoperto da poco – erano appena usciti dallo studio della dermatologa Marta Ratti in Piazza Marconi, io li avevo aspettati in macchina – ma quando nostro padre gli disse di prendersela con nostra madre mio fratello Matteo lo guardò dritto negli occhi e gli rispose: «Tu lo sai».
Nostro padre si passò una mano fra i capelli neri e lunghi e pettinati all’indietro e disse: «Che cosa, che cosa so, io?».
Quando andammo dalla dermatologa Marta Ratti mio fratello Matteo aveva 16 anni. Io ne avevo tre meno di lui. A casa di nostra madre dormivamo nella stessa stanza. Fra il mio letto e quello di mio fratello Matteo c’era lo spazio della finestra. Avevamo le tende con lo stemma dell’Inter: era l’anno del Triplete. La mattina io mi svegliavo sempre presto e fissavo il soffitto. Ma quell’estate, quando il sole entrava dalla tenda della nostra camera e colpiva la testa di mio fratello Matteo, io potevo vedere il suo cuoio capelluto, e sembrava che avesse sudato tutta la notte perché tra i fili dei capelli chiari c’era una patina che pareva uno smalto vecchio, stanco, che me lo sentivo addosso anche io e mi veniva il prurito.
Il giorno che mio fratello Matteo compì 17 anni – avevamo festeggiato tra di noi, io, mamma, e la Fede, la tipa di mio fratello Matteo, che però adesso non è più la tipa di mio fratello Matteo ma del suo migliore amico Riccardo Brambilla, che ovviamente adesso non è più il suo migliore amico – quel giorno nostro padre non venne e mandò soltanto un messaggio di auguri perché aveva il turno alla pompa di benzina.
Scrisse: «Auguri figliolo». Ci chiamava sempre figlioli.
Mio fratello Matteo rispose: «Tu lo sai».
«Ma gli dici sempre così?» gli chiesi io.
«Così come?» mi chiese mio fratello Matteo. Quell’anno aveva cominciato a pettinarsi i capelli all’indietro perché aveva letto su un forum che gli avevo fatto conoscere io – si chiamava embraceyourbaldness.com – che con quel genere di pettinatura si poteva temporeggiare un po’. Non stava male. Sembrava più serio.
«Gli dici soltanto che lui lo sa» dissi io.
«Perché lui lo sa».
Con nostra madre ci parlavo poco. Mio fratello Matteo invece ci parlava molto, anche se nostro padre ogni tanto gli ricordava che: «figliolo, lo sai che io non c’entro niente. Devi prendertela con lei».
La mattina nostra madre entrava in camera mentre mio fratello Matteo si faceva la doccia. Io fissavo il soffitto. Il soffitto di camera nostra sembrava una mappa del mondo disegnata col ghiaccio spray.
«Che cosa fai?» le chiesi una volta.
Lei mi rispose che SHH dovevo tacere. Lei non era lì.
«Va bene – le dissi – tu non sei qui. Ma io sì. Io sono qui. Io devo guardare». Nostra madre entrava in camera e sbatteva il cuscino di mio fratello Matteo fuori dalla finestra prima che lui si facesse il letto. Penso fosse per via della quantità sempre maggiore di capelli che si incastravano sulla federa del cuscino. Nostro padre queste cose non le faceva, infatti quando dormivamo da lui ogni mattina mio fratello Matteo fissava la federa e si metteva a contare il numero dei capelli. Avevamo letto su embraceyourbaldness.com che fino a 100 capelli al giorno la situazione sarebbe stata ancora accettabile, quasi fisiologica.
Un sabato mattina ne contò 549.
Il giorno in cui la Fede – non so perché la chiamo ancora la Fede, dovrei chiamarla Federica Malerba, ma sento che devo essere sincero, comunque – il giorno in cui la Fede lasciò mio fratello Matteo ricordo che lui entrò in bagno. Io ero seduto sulla tazza del cesso e stavo pensando che dovevo chiedere al mio amico Mario Potenza il nome di quel sito che avevamo scoperto a casa sua, e mentre pensavo queste cose mi venivano in mente i video delle ragazze che avevo guardato insieme al mio amico Mario Potenza, così quando mio fratello Matteo entrò in bagno e prese in mano schiuma da barba e rasoio io non mi potevo alzare, e allora vidi tutta la scena: mio fratello Matteo che agita il barattolo di schiuma, la spalma sulla mano, se la passa sulla testa. Poi alza in alto il rasoio e con più rabbia che precisione comincia a radersi senza guardarsi allo specchio.
Quando riuscii ad alzarmi dalla tazza lui aveva quasi finito.
«Sanguini» gli dissi.
«Lo so» mi rispose lui, ma era contento. Gli chiesi di farlo anche a me.
Gli dissi: «Voglio farlo anch’io».
«No. Non sei tu» rispose lui.
«Non sono io, chi?»
«Non sei tu che lo sai».
Cercai di pensare a qualche attore cui paragonare il suo nuovo look. Ma in quel periodo guardavo pochi film e tanto calcio, e mi venne in mente soltanto Esteban Cambiasso, che tra l’altro era sempre stato uno dei miei giocatori preferiti, apprezzavo quel misto di grinta e ostinazione e zero tecnica. Ma quando guardavo le partite dell’Inter di quell’anno assieme a mio fratello Matteo, io lo capivo che non potevo dire nulla su Esteban Cambiasso. Preferiva parlare di Javier Zanetti.
«Ha dei capelli immobili – diceva –, sembra che non sudi mai».
Quando compì 18 anni mio fratello Matteo si iscrisse alla patente. A 17 aveva già preso quella per il 125, quindi gli bastò sostenere le guide obbligatorie e l’esame di pratica. Nostra madre gli comprò una Punto targata AZ. Il giorno in cui passò l’esame della patente mio fratello Matteo tornò a casa, chiese le chiave della Punto a nostra madre e le disse:
«Non è colpa tua».
Lei gli accarezzò la testa – adesso mio fratello Matteo si rasava con una macchinetta automatica impostata a 0,03 cm – e sentì i puntini ispidi dei follicoli ancora vivi. Ma non era colpa di nostra madre. No. E per dimostrarlo mio fratello Matteo tirò fuori dal portafogli una foto di nostro nonno – che ovviamente era pelato, ma di quei pelati con la testa dalla forma strana, che si alza in fondo al cranio e dà profondità al volto, tanto da sembrare la parte davanti di una locomotiva.
Poi mio fratello Matteo mi disse: «Vieni anche tu. Sali in macchina».
«Perché devo venire anche io?».
«Perché c’è sempre bisogno di qualcuno che guardi».
La guida di mio fratello Matteo era sicura e decisa. La macchina non si spense nemmeno una volta. Arrivammo al distributore di nostro padre – che stava appena prima della tangenziale est, all’uscita di Agrate – e ci mettemmo sotto la pompa 4, quella dove c’era scritto SERVITO.
La benzina verde costava 1.455.
Nostro padre arrivò e di primo acchito non ci riconobbe. Prese la pompa e chiese: «Quanto vi faccio?». E mio fratello Matteo gli disse: «Tu lo sai».
Nostro padre spalancò gli occhi e guardò mio fratello Matteo – che intanto era uscito dalla macchina e stava davanti a nostro padre con le braccia incrociate. Nostro padre indossava un berretto della Erg, una maglia rossa e un marsupio blu.
«Ti ho chiesto quanto volete» disse nostro padre.
«Tu lo sai» gli rispose mio fratello Matteo.
«Facciamo 20, 50?» nostro padre tentò di sorridere. «Il pieno, dai. Ve lo mando io, figlioli».
Nostro padre aveva già tolto il tappo dalla portiera della Punto. Il tappo per la benzina era dalla parte dove stavo seduto io.
«Tu lo sai».
Nostro padre disse: «No, Matteo. Cazzo. Non lo so. Non so un cazzo io, va bene? Te l’ho sempre detto che è colpa di tua madre, di quella puttana di tua madre. Va bene? Prenditela con lei, cazzo».
Mio fratello Matteo chiuse gli occhi. Li riaprì.
Nostro padre prese la pompa e la sollevò con fatica sopra la testa. Poi si tolse il cappellino della Erg e disse: «È questo che vuoi, Matteo? È questo?».
Mio fratello Matteo annuì e disse: «Tu lo sai».
Poi nostro padre aprì la pompa e si versò la benzina in testa. Aveva gli occhi rossi e gialli. I capelli erano lucidi e sotto le luci al neon del distributore risplendevano di macchie bianche.
L’accendino ce l’avevo io.