Amicizia, ricerca, trauma: leggere Elena Ferrante nel contesto globale
L’opera dell’autrice che ha messo al centro l’amicizia femminile è stata anche veicolo di amicizia tra le studiose.
Tiziana de Rogatis, Stiliana Milkova e Kathrin Wehling-Giorgi, le curatrici del volume speciale Elena Ferrante in A Global Context della rivista MLN dedicano l’introduzione al significato di questi legami.
Tiziana de Rogatis, nel saggio in apertura del volume, mette poi in relazione la sua lettura della “global novel” di Ferrante con l’irrompere del trauma globale della pandemia. Grazie a “John Hopkins University Press” ne pubblichiamo un estratto. (hj)
Questo special issue in inglese è nato dall’intreccio delle nostre storie personali e professionali, all’incrocio di diverse lingue materne e acquisite, patrie e formazioni disciplinari. Una studiosa italo-napoletana in Italia, una studiosa bulgara negli Stati Uniti e una studiosa tedesca nel Regno Unito – noi tre abbiamo trovato un terreno comune attraverso lo studio di Elena Ferrante e attraverso le pagine di un volume del 2016 della rivista accademica italiana Allegoria. Le nostre affiliazioni istituzionali sparse in tutto il mondo, le nostre identità nomadi a cavallo tra diversi paesi, regioni e lingue e le nostre differenze culturali esemplificano in molti modi l’effetto globale della scrittura di Elena Ferrante.
Questo effetto per noi è doppio. Grazie ad Elena Ferrante abbiamo stretto una forte amicizia basata sul profondo rispetto, sulla generosità d’animo e sull’affinità intellettuale. La nostra amicizia ha generato una svolta, o una metamorfosi, nelle traiettorie delle nostre ricerche già consolidate. Lo studio di Tolstoj e Dostoevskij, di T.S. Eliot e Montale, di Beckett e Gadda ha fatto posto ai contributi e alle intuizioni di un’autrice femminile e femminista, che sfida il canone accademico e letterario maschile radicato. Nonostante, e anzi, grazie alle nostre diverse identità nazionali, linguistiche e culturali, come studiose riconosciamo ed empatizziamo con l’emarginazione, la liminalità e la potente creatività delle donne rappresentate nei romanzi di Ferrante.
La nostra amicizia è stata produttiva e gratificante in molti modi. Dopo aver organizzato un seminario di tre giorni alla convention dell’American Comparative Literature Association (ACLA – Utrecht, 2017), tre panel alla conferenza dell’American Association for Italian Studies (AAIS – Sorrento, 2018) e una conferenza internazionale all’Università di Durham (Inghilterra, 2019), siamo arrivate a questo numero speciale di Modern Language Notes dedicato a Elena Ferrante in un contesto globale. Nonostante abbiamo continuato a pubblicare individualmente su Ferrante, questa collaborazione a tre ha arricchito le nostre prospettive personali e generato in noi nuovi modi di vedere e interpretare l’immaginario e la letteratura.
Mentre importanti contributi agli studi su Ferrante sono stati e continuano ad essere proposti anche da saggisti, questo volume include una polifonia di approcci e orientamenti che provengono esclusivamente da voci di studiose. Questa selezione non è stata in alcun modo programmatica, ma rispecchia la realtà attuale dei Ferrante Studies, che è per ora composta in maggioranza da donne.
In questo spirito, l’amicizia femminile può essere una pratica innovativa e potente quando è adottata per includere e promuovere la voce delle altre. Questo numero speciale sintetizza diverse traiettorie accademiche individuali e collettive riunendo studiose di tutto il mondo. Questa lente diversificata e interdisciplinare fa già di per sé emergere la dimensione cosmopolita e transnazionale della scrittura di Ferrante. Tutte le autrici di questo numero si sono avvalse di un’estesa conoscenza delle loro discipline e dell’area di studi su Ferrante sia in inglese sia in italiano, e le citazioni dalla scrittrice sono sempre in entrambe le lingue.
Quando si parla di Ferrante, siamo consapevoli del fatto che la sua scrittura e il suo anonimato non sono stati solo oggetto di grande entusiasmo ma anche di forte resistenza e intolleranza. Quando leggiamo o riflettiamo sulla sua opera, siamo sempre in relazione con il suo appello alle miriadi di esistenze femminili, alla loro capacità di lavorare in modo creativo attraverso il trauma della frantumaglia e della smarginatura. Ecco perché i discorsi più approfonditi e visionari su Ferrante sono stati articolati da voci ibride, capaci di conciliare esperienza vissuta e ricerca scientifica; voci che in alcune parti del nostro mondo accademico globale sono emarginate. E come queste voci, l’eredità dell’autrice è ibrida e trasversale. Ferrante è già un classico del nostro immaginario globale contemporaneo, e come tale possiede una straordinaria capacità inclusiva.
Elena Ferrante in a Global Context apre con un saggio teorico programmatico di Tiziana de Rogatis, che fornisce la cornice per inquadrare le opere di Ferrante in una prospettiva globale. Nella prima sezione – Global Framework – Emanuela Caffè studia la quadrilogia come una narrazione traumatica, ampliando la definizione e l’eziologia del trauma stesso. Stiliana Milkova mostra come Ferrante riveda il tropo postmoderno del labirinto, mentre Rebecca Walker discute la poetica globale della frattura in Ferrante e legge Lila ed Elena come soggetti frammentati. Enrica Ferrara utilizza la lente del realismo agenziale per definire i soggetti postumani di Ferrante. Nella seconda sezione – Global Network – i saggi di Katrin Wehling-Giorgi, Rossella di Rosa, Serena Todesco e Olivia Santovetti accostano i romanzi di Ferrante a quelli di scrittrici e scrittori contemporanei come Alice Sebold, Margaret Atwood, Slavenka Drakulić e Karl Ove Knausgård, creando così una mappa del nostro immaginario contemporaneo interconnesso. Nella terza e ultima sezione – Global Media – gli articoli di Elisa Gambaro e Francesca di Bari, insieme all’intervista alla drammaturga e attrice Chiara Lagani, esaminano la rinascita transmediale globale della quadrilogia nella serie tv e nel teatro sperimentale.
Siamo grate ad Ann Goldstein per il suo tempo e il suo talento; a Chiara Lagani per la sua visione innovativa e per averci permesso di utilizzare immagini (incluso quella di copertina) della performance teatrale della sua compagnia; all’editor di MLN Laura di Bianco per aver accolto con entusiasmo il nostro progetto e averlo portato a compimento; agli assistenti editoriali Sam Zawacki e Victor Xavier Zarour Zarzar per il loro aiuto esperto; a Evie Elliott per la sua elegante traduzione; a tutte coloro che hanno contribuito a questo numero per aver perseverato con i loro saggi in un momento difficile e spaventoso; e alle nostre famiglie per il loro incrollabile sostegno al nostro lavoro intellettuale e creativo.
Prospettive globali, trauma e global novel.
La poetica di Ferrante tra storytelling, realismo perturbante e smarginatura
di Tiziana de Rogatis
Questo mio saggio, pubblicato in lingua inglese, si articola in quattro sezioni. Nella prima – che qui presento ai lettori di Nazione indiana in lingua italiana – individuerò brevemente il nesso tra la globalizzazione, il trauma e alcuni tratti delle scritture del trauma – come il global novel – ed esaminerò determinati aspetti di quello che è destinato a imporsi come l’evento traumatico dell’inizio del nuovo millennio, vale a dire la pandemia da coronavirus, e i suoi contraccolpi sul concetto stesso di globalizzazione. Nella seconda introdurrò brevemente i tratti salienti dell’immaginario globalizzato quali emergono in relazione al global novel e ad altri generi di scrittura. Nella terza individuerò alcuni tratti specifici del global novel, del suo “traumatic realism” (Foster) e del suo “planetary realism” (Ganguly). Nella quarta parte, infine, definirò i tratti globali della poetica di Ferrante, mettendoli in relazione con quanto detto nelle parti precedenti.
Prima sezione: Scrivere dall’interno del trauma
Questo saggio nasce a cavallo tra due diverse epoche della globalizzazione: prima e dopo l’emergenza coronavirus. Ho discusso una sua prima forma a Durham, in qualità di keynote speaker del convegno Elena Ferrante in a Global Context, il 7 giugno 2019, e ho poi rielaborato quel testo per la sua pubblicazione tra aprile e maggio 2020, durante il lungo periodo di lockdown globale necessario per contenere la diffusione del virus. Nel pieno quindi della tragedia che ha segnato l’Italia, dove mi trovavo, e il mondo. Nel corso di questa rielaborazione, mi sono stupita nel constatare quanto molti romanzi della contemporaneità cui facevo riferimento nel mio intervento, e tra questi la quadrilogia di Ferrante, avessero intercettato l’età del trauma che la pandemia ci ha pienamente svelato. In particolare, il global novel ha messo al centro della percezione il nesso tra le storie individuali, la Storia pubblica e il “traumatic realism” (Foster), che emerge come a “tendency to redefine experience, individual and historical, in terms of trauma” (Foster). I protagonisti del global novel sono infatti personaggi finzionali dotati di una coerenza e di una intensità tali da rendere per il lettore immediatamente percepibili e urgenti le emergenze contemporanee dell’ecologia o del terrorismo o delle violenze e diseguaglianze di genere che si intrecciano nei plot e modellano di volta in volta i loro destini. E tuttavia, nonostante questa capacità critica e profetica delle opere con cui dialogavo, i giorni del lockdown sono stati per me anche giorni di delusione nei confronti della letteratura. In quei giorni, un senso oscuro di tradimento mi ha portato spesso a sentire come debole il potere dello storytelling, di cui pure parlo a lungo in queste pagine. A poco a poco, ho capito però che dietro il tradimento si celava un’emozione più complessa. Come molti, in quel periodo, avevo paura di allontanarmi dalla realtà, di svincolarmi da essa, di abbandonarmi alla scoperta di un mondo finzionale. Magari un mondo narrativo non meno arduo e terribile di quello reale, ma alternativo ad esso. Interrogandomi su questa mia ansia, ho capito che – come molti insonni di quella lunga fase di isolamento – non potevo permettermi di perdere di vista il mondo circostante. Sentendomi assediata da un senso imminente e diffuso di pericolo, mi legavo strettamente alla realtà perché avevo paura di perderla, di perdere cioè la mia capacità di decifrarla nel momento in cui essa si era fatta, all’improvviso – una fredda domenica di fine febbraio (all’annuncio sui media di una presenza incontestabile del contagio in Italia) – talmente spaventosa da diventare effettivamente imprevista, insondabile, incomprensibile. Questa mia ansia era appunto il trauma (o meglio, uno dei suoi tanti sintomi).
Come sottolinea Laplanche, il trauma psichico invera il suo significato etimologico di ‘ferita’ in due tempi: prima l’io vive l’“implantation of something coming from outside” e solo dopo si avvia “the internal reviviscence of this memory” (Laplanche). L’evento traumatico – sottolinea Caruth – “is its future” (Caruth): si costituisce e si struttura progressivamente nel momento in cui il tessuto circostante della vita psichica e sociale non può metabolizzarlo e integrarlo nel proprio funzionamento preesistente. La sigla Post Traumatic Stress Disorder (PTSD), coniata da The American Psychiatric Association nel 1980, sottolinea ulteriormente questo nucleo di temporalità postuma e slogata che è il motore del trauma. Prende forma quindi uno scenario all’interno del quale il trauma ritorna continuamente come “deferred action” (Freud): fantasma, spettro, sopravvivenza assillante che orienta i passaggi successivi di un’esistenza o di una comunità sulla traccia nascosta dell’evento originario, spingendola a rivivere costantemente su di sé o sugli altri innumerevoli sintomi e varianti di quella paura, impotenza, coercizione, disorientamento. In modo analogo, come vedremo nella quarta parte di questo mio saggio, anche le scritture che – come la quadrilogia di Ferrante – mettono in scena il trauma mimano sul piano formale i funzionamenti del trauma, modellando analoghe strutture labirintiche e slogate (Nadal-Calvo).
Ed è quindi dal trauma che voglio partire. Rivedere quanto avevo già scritto in questo saggio dalla prospettiva della nuova era storica che il coronavirus ha portato ad emersione significa avere la consapevolezza che non sto solo scrivendo sul trauma ma sto scrivendo dall’interno di un trauma, privato e collettivo. Questa cornice del trauma sta ridefinendo infatti sotto i nostri occhi, nelle ore e nei giorni che passano, le categorie storiche e i concetti che discuto in questo saggio. È importante quindi cercare di focalizzare in questa prima parte introduttiva la metamorfosi in atto intorno alla categoria di globalizzazione, in particolare. Come infinite rifrazioni sempre identiche e tuttavia variate nella quantità e nella qualità, abbiamo visto molte nazioni ripetere gli stessi errori, ispirare nei propri cittadini analoghe rimozioni e dissociazioni dalla realtà, lamentare le stesse carenze di personale medico e strumenti primari di cura. Questo fenomeno cumulativo assomma in sé tanti passaggi dell’epidemia e della sua diffusione, resi traumatici non tanto o non solo dalla gravità dell’evento originario, ma anche e soprattutto dal fatto che come ha sottolineato Arundhati Roy, le conseguenze concrete del trauma si ingigantiscono nel momento in cui le nostre menti si rifutano di “acknowledge the rupture”. Ma – continua Arundathi Roy – “the rupture exists” (Roy). Sarebbe banale dire che la “rupture” del trauma svela lati oscuri della globalizzazione, finora non rilevabili. Al contrario, il trauma svela un trauma retrostante e antecedente. Il trauma del trauma è scoprire che le società globalizzate possono diffondere un virus a velocità inusitata. Il virus si è potuto tramutare in pandemia e ha potuto causare così tante morti perché la classe politica e l’immaginario collettivo globale sono stai incapaci di comprendere il trauma essenziale della globalizzazione: il suo costituirsi – con una intensità mai sperimentata prima nella storia umana – come rete e meccanismo di interdipendenza geopolitica che lega non solo i destini di individui lontani e diversi tra loro ma anche l’umano e il non umano (il paziente zero di Wuhan e il pipistrello, per esempio), tutti i viventi e l’ambiente. Il trauma del trauma è fare i conti con il fatto che le società globalizzate neoliberiste aumentano le riserve degli istituti bancari erodendo inversamente le riserve del welfare e dunque anche della sanità pubblica, in molte nazioni impreparata quindi a gestire l’evento (Hartford). Il trauma del trauma è scoprire che il fondamento delle società globalizzate neoliberiste è la delocalizzazione della produzione di qualunque tipo di prodotti. Da un giorno all’altro (e tuttavia di nazione in nazione in tempi diversi, a seconda del calendario della pandemia), il trauma invisibile della globalizzazione si è incarnato quindi nella vulnerabilità globale più diffusa e tangibile di questa emergenza: quella di essere privati non tanto di un baluardo della tecnologia e della scienza (un vaccino o un farmaco immediatamente risolutivi) ma degli strumenti sanitari più elementari per combattere il virus, quelli che qualunque modernità preglobalizzata avrebbe garantito. Mascherine, disinfettanti, reagenti chimici per l’analisi dei tamponi (Ramonet).
(de Rogatis, Tiziana. “Global Perspectives, Trauma, and the Global Novel: Ferrante’s Poetics between Storytelling, Uncanny Realism, and Dissolving Margins.” MLN 136:1 (2021), 6-9. © 2021 Johns Hopkins University Press. Reprinted with permission of Johns Hopkins University Press.)