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Allegro con Brio

di
Martino Scacciati
A distanza di anni, ormai, sento ancora, addosso, il disagio che provai quando mi invitarono a prendere il thé da loro – ovviamente alle 5. Fin da piccolo, avevo visto quella casa solo da fuori. La consideravo una sorta di enorme grammofono. Qualunque fosse l’ora del giorno o la stagione, le sue finestre spalancate rovesciavano di sotto scrosci di musica sinfonica o lirica. E quella forma di colta prevaricazione mi aveva sempre colpito. Non ero mai riuscito, tuttavia, a vedere il viso del melomane che rompeva con tanta perseveranza i coglioni all’intero paese.
Toccò ai miei, una sera d’estate, potergli finalmente dare un volto. Se l’erano trovato seduto accanto a tavola, durante una cena di amici comuni. Il giorno seguente mi raccontarono tutto. Si chiamava Domenico ed era un avvocato molto affermato. Me lo descrissero piccolo, quasi deforme, in età da pensione e verboso come riescono a essere verbosi solo certi notabili meridionali: persone indubbiamente raffinate e brillanti ma con un invincibile bisogno di protagonismo – e per questo tendenti a sequestrare la conversazione. Era accompagnato dalla moglie, una donna spigliata, anche se pure lei relegata al ruolo di spettatrice. Eppure, almeno a giudicare dallo sguardo estatico con cui assisteva all’assolo del marito, quel ruolo sembrava non dispiacerle. Anzi.
L’impressione che i miei si portarono a casa quella sera fu di due persone simpatiche, tutto sommato. Durante la cena c’era stata un’unica ombra. Abbandonato il fare sornione per una sorta di sordo furore, Domenico si era lanciato in una lunga tirata, violenta e circolare, contro quei maledetti che di notte battevano le viuzze del paese urlando “Brioooo! Brioooo!”. Aggiungendo che, se fosse stato per lui, Brio sarebbe stato già stato riempito di piombo. Ecco, davanti a quella specie di catilinaria anti-felina nessuno dei presenti, un po’ disorientati, aveva reagito. Ma Brio era, a dire il vero, il nostro gatto.
Non ho mai capito bene perché, attraverso i miei, mi fecero arrivare l’invito per quel thé. L’appuntamento cadde in un tiepido pomeriggio primaverile. Qualche minuto prima delle 5, mi avviai verso la casa-grammofono. Dalla strada si vedeva solo la finestra da cui fuoriusciva la musica. Il resto dell’edificio era nascosto dalla vegetazione. Arrivato davanti al cancelletto marrone di ferro, premetti, un po’ titubante, il pulsante del campanello. Dalla bocchetta del citofono un vocione primordiale non chiese chi fossi né disse semplicemente “entra” ma, con termini scelti, si dilungò sul piacere che gli procurava mia visita. Alla fine del cerimonioso prologo, sentii lo scatto metallico della serratura elettrica. Salii qualche scalino, voltai a sinistra lungo il vialetto, poi a destra ma per quanto camminassi della casa non si vedeva nemmeno l’ombra. Anche se di rosmarino, di euforbia, di mirto invece che di pietra, le due pareti in cui era incassato il vialetto mi fecero pensare all’astuta strategia difensiva delle città portuali arabe. Oltre a tradire la diffidenza degli abitanti, quel giro labirintico e pretestuoso attraverso scalette, pendii artificiali, vialetti costituiva il perfetto presupposto per un’aggressione dall’alto. Dopo l’ennesima svolta, arrivai finalmente al curatissimo prato in fondo al quale si stagliava la facciata della casa, un elegante terra-tetto le cui rifiniture dal gusto inglese erano incastonate in una struttura medievale.
Lui mi aspettava accanto alla porta. Era un omino basso, con la testa e le mani sproporzionate, vestito in modo molto elegante con un girocollo blu da proprietario di yacht e pantaloni bianchi. La prima cosa che notai fu il contrasto tra l’espressione solenne, simile a quella di certi presidenti durante le visite ufficiali, e i piedi nudi. Mi strinse la mano con una forza gratuita e mi disse di precederlo.
Una volta all’interno, mi invitò a sedermi su una delle poltroncine di vimini ricoperte con una candida tela di cotone. Alle mie spalle, spalancata sul golfo, c’era una grande finestra. Domenico prese possesso della sua poltrona, piazzata al centro della stanza. Intanto, dalla parete opposta alla finestra, arrivavano i rimasugli di una imperiosa ramanzina della moglie a una domestica occulta. Qualche secondo e la moglie sbucò da dietro il muro, impegnata nel visibile tentativo di ricomporre sulla faccia il sorriso da ospiti. In mano reggeva un vassoio argentato su cui fumavano delle raffinatissime tazze di porcellana inglesi, circondate da una porzione – a dire il vero un po’ micragnosa – di biscotti al burro. Mi salutò con calore e ci porse il thé.
Mentre riflettevo sul curioso contrasto tra lo sfarzo del servito e la povertà di dolciumi di contorno, anche lei si sistemò a sedere. Intanto, Domenico aveva attaccato un monologo identico a quello descritto dai miei genitori, iniziando dal tema che sapevo essere il suo prediletto: la politica. Si lanciò in un discorso che, per tempi, toni e accuratezza stilistica, sembrava rivolto non a due persone in un salotto ma a una moltitudine raccolta in una piazza o in un teatro. Lei, intanto, restava in silenzio, rigida. Il naso grifagno, gli occhi piccoli e inespressivi, i capelli corti sulla nuca ma rigonfi per il ciuffo bombato, la facevano sembrare una grossa civetta. Nella impertinente fissità di quello sguardo temevo di intuire come un’intenzione predatoria, quasi volesse ghermirmi con gli occhi. E non riuscivo a respingere fino in fondo l’impressione, fastidiosa, che la preda di quel pomeriggio, il topolino destinato a esser divorato, fossi io. Dubito che, preso con era a tornire le parole, se ne sia reso conto ma dentro di me sentivo crescere il disagio sia per la inevitabile noia suscitata dal monologo che per la nuvola severa sospesa sopra la mia testa e dalla quale, me lo sentivo, sarebbe presto saettato il giudizio della moglie. Non trovai di meglio che rifugiami nel sapore di quell’ottimo thé. Ogni tanto, però, muovevo la testa a caso come per gettare in quella bocca da cerbero, sempre aperta e famelica d’assenso, un pugnello di approvazione.
Forse avrei dovuto provare a mostrarmi entusiasta ma non ci riuscii. Seppur nascosta tra le volute barocche e gli arzigogoli del suo sermone, nei discorsi di Domenico spuntava una difesa sistematica di tutti i personaggi più stronzi dell’attualità e dell’intera storia umana.
Era chiaramente affascinato da figure che, non importava se con sperpero di vite umane, erano riusciti a raddrizzare una situazione di confusione e a riportare l’ordine. Nei momenti di particolare eccitazione oratoria, ricorreva sempre allo stesso gesto: si portava la mano vicino alla bocca e alzava il grosso indice, non si sa se per attirare l’attenzione, minacciare o imporre il suo potere virile. Come io assaporavo il thé, Domenico sorbiva, rapito, l’aroma distillato nelle sue stesse parole. Per meglio sentirne il sapore, faceva ruggire le erre, schiocchiare le ti, sciabordare le esse, allappare le pi e le emme, e insomma, indugiava con la lingua e tratteneva quanto più possibile i suoni di cui era produttore e gourmet.
La concione sembrava, tra l’altro, un’eco fisica del mobilio. Tutta quella eterogenea profusione di parole ricercate, citazioni, frasi fatte, espressioni latine faceva da pendant alla congerie di ninnoli, argenti rilucenti, piatti, piattini, statuine, porcellane, medaglie, orologi da tavolo, la cui unica caratteristica comune era un gusto facile e un po’ ostentato. Il vaso giallo cinese che torreggiava sul prezioso tavolo di rovere settecentesco nell’angolo opposto al mio, innalzandosi su un mare di aggeggi dalle fogge e materiali più disparati, equivaleva, per esempio, alla massima dantesca (“Vuolsi così colà dove si puote / ciò che si vuole, e più non dimandare”) che Domenico infilava qua e là appena possibile, spesso a sproposito. Per il mio disagio il disagio provocato dallo sguardo fisso della civetta, staccai gli occhi dalla tazza del thé per cercare dove fosse l’impianto che da chissà quanto tempo funestava la pace del paese. Mentre Domenico cercava di convincermi dei progressi compiuti dal Cile grazie a Pinochet, riuscii a voltarmi e perlustrare entrambi i lati della lunga parete alle mie spalle: lo stereo, però, non c’era. Con una certa delusione capii, così, che a meno che mi fossi intrufolato nelle altre stanze, quel mostro che vomitava fiumi di note sarebbe rimasto un mistero.
Quando, con lo sguardo, tornai sul mio ospite, fui colpito da una sorta di sinistra epifania. Ebbi, osservandolo, una rivelazione che accrebbe il mio imbarazzo: in quel viso sommario, nella bocca larga, nel naso grosso e schiacciato, negli occhi tiroidei mi parve di riconoscere la testa di uno di quegli spaventosi pesci abissali, dalle forme di un’inesplicabile bruttezza che, riemerso all’improvviso dalle profondità preistoriche del tempo, s’imbatte in un sub sfortunato e lo uccide di terrore. Fui salvato dallo stato di ansia e confusione in cui mi aveva precipitato quella visione dall’unico intervento della civetta. Approfittò che il marito avesse appena terminato la sua nuova, turpe apologia (il beneficiario questa volta era Nerone, considerato un modello di razionalizzazione urbanistica), per disserrare le labbra – fini e premute l’una contro l’altra in un’espressione di permanente raccapriccio – e rompere il suo occhiuto silenzio. Mi chiese, insinuante: “E dimmi un po’, che tipo di persone frequenti, a Roma?”. Dai nomi di commendatori, contesse e principi snocciolati e buttati lì di seguito per sondarmi, intuii l’aspettativa che facessi parte degli unici giri d’amicizie per lei frequentabili. Forse le ero simpatico e quello era il suo modo di dimostrarmelo. O forse voleva rendere più prezioso, illudendosi sull’eccezionalità delle mie conoscenze, il suo pomeriggio.
Non appena riportai lo sguardo su Domenico, che aveva riguadagnato la ribalta con una vibrante protesta sul prezzo della benzina, notai un barbaglio luciferino nei suoi occhi. All’improvviso, sciolse la postura ostentatamente composta, si alzò e si avvicinò al grande mobile in stile marinaro-razionalista alla mia destra. Ne aprì un cassetto, ci infilò la mano e la tirò fuori impugnando una pistola. Poi, abbassato il tono della voce, mi spiegò: “Questa la uso per accogliere nelle dovute maniere i gatti che osano venire in giardino. Mi pisciano sul prato e io non lo posso tollerare…”. E rise, gongolante, di un riso in cui sembravano mescolarsi orgoglio e sollievo. Lo guardai sgomento e mi domandai quali gatti, mammoni e non, soffiassero in quella testa perché avesse bisogno di zittirli con una pistola. Almeno a giudicare dal modo in cui aveva riso, ebbi la certezza che sarebbe stato benissimo capace di usarla – se non l’aveva già fatto. Dopo quella esibizione, non riuscii a trattenermi oltre. Improvvisai una scusa, ringraziai e mi congedai.
Il mistero della casa-grammofono è rimasto inviolato. Dopo quel pomeriggio, fatta eccezione per la musica dalla sua finestra, non ho più sentito Domenico. Quell’invito a prendere il thé è rimasto isolato – e forse è meglio così. Alcuni mesi più tardi, però, mi chiamò sua moglie. Dopo una lunga e contorta premessa sull’importanza della coppia, annunciò di volermi presentare la sua estetista. La descrisse come una ragazza bionda, carina e sola da tempo. Io non sapevo bene come svincolarmi e balbettai qualche scusa ma non mi lasciò scampo. “Devi conoscerla!”, mi ordinò con il tono di chi non lascia scelta. Poi ci mise in contatto e, prima dell’incontro, mi impartì anche una lezione sulle norme fondamentali da seguire per un felice esito della relazione: “Devi tenere sempre presente la regola delle tre Ci”, mi disse. “Le tre ci…?”, ripetei, incerto. “Sì, le tre ci: cuore, cervello e cazzo”, confermò scolpendo le parole. Nonostante il suo insegnamento, la relazione si consumò nel tempo di un aperitivo: la ragazza era insipida e poco interessata non solo alla regola delle tre ci ma, forse, persino agli uomini. Dopo poco fu chiaro che lei non era minimamente attratta da me né io da lei. Non ce lo dicemmo ma c’eravamo presentati all’appuntamento solo per far contenta la civetta. Dopo quell’aperitivo, la ragazza sparì. Né io feci più nulla per ricercarla. Ma che m’importa, mi dissi.
Mi importò e molto, invece, del fatto che, poche settimane dopo quel thé, anche Brio, il nostro gatto, sparì. Le ricerche, notturne e non, si moltiplicarono. Tutta la famiglia si sgolò per chiamarlo – ed ebbi anche l’impressione che dopo ogni nostra ‘battuta’ in giro per il paese, la musica dalla casa uscisse anche più alta e rabbiosa – ma ogni tentativo fu inutile. Tappezzammo le vie del borgo con la foto del gatto, promettemmo ricompense, fermammo chiunque incontrassimo per strada ma non servì a nulla. Con il passare dei giorni la nostra speranza si affievolì e non potemmo che arrenderci a una desolata certezza: Brio non c’era più. Nel frattempo anche Domenico era sparito. In diverse occasioni mi sembro di intravedere la sua macchina ma ogni volta, appena comparivo all’orizzonte, accelerava, come volesse evitarmi. I miei erano certi di averlo visto a una pompa di benzina nei pressi del paese mentre litigava furiosamente e quasi veniva alle mani con il gestore. E memore della sue rabbiose lamentele, ipotizzai che il motivo della lite fosse proprio il prezzo del carburante. Ma a parte queste fuggevoli tracce, di Domenico non sapemmo più nulla.
Quando mi ero ormai convinto che sua esistenza si fosse ridotta al flusso musicale della casa-grammofono, una mattina d’estate, sbucò da dietro la porta marmorea del paese, così all’improvviso che quasi ci sbattei contro. Né io né lui, date le condizioni, potevamo sottrarci all’obbligo di una conversazione. Gli chiesi, dunque, come stesse e detti fondo a tutte le logore formule che si usano in questo genere di occasioni. Poi mi ricordai di Brio. Chissà, magari, lui lo conosceva e poteva averlo visto. Gli chiesi se ne sapesse nulla. La sua. però, fu una strana reazione. Per un momento guardò altrove come per sfuggire al mio sguardo, poi, fatta una lunga pausa, sussurrò con un’espressione che non riuscii a decifrare: “Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole”. Poi mi guardò con aria di sfida e aggiunse: “E più non dimandare”.
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1 commento

  1. Molto carino e elegante. Forse l’intermezzo dell’estetista e’ inutile ed il brano si conclude bene con Dante

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Sono musicista, quando si studia un brano si considera che anche il silenzio, la pausa sia musica. Compositori come Beethoven ne hanno fatto uso per sorprendere, catturare, ritardare le emozioni del pubblico, il silenzio parte della bellezza. Il silenzio qui però non è la bellezza. Il silenzio che c’è qui, da più di dieci mesi, è anti musicale, è solo vuoto.
francesco forlani
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Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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