Lo sa il Cielo quanto sono triste
[Nel 2019, un anno dopo la sua uscita per Bompiani, ho letto La vita riflessa, il romanzo di Ernesto Aloia, autore già noto e affermato, ma che io non conoscevo. Ho trovato La vita riflessa uno dei romanzi italiani più ambiziosi e riusciti che mi sia capitato di leggere da diversi anni. Da allora lo consiglio a tutti. Oggi ho il privilegio di presentare su NI un suo racconto inedito. A. I.]
di Ernesto Aloia
Il temporale le era corso incontro. Paola aveva fatto in tempo a distinguere alla luce dei fari la polvere sollevata dalle prime gocce sull’asfalto, poi un velo d’acqua corrente aveva preso a scrosciare sul parabrezza. Tutti i veicoli sull’autostrada avevano rallentato; si accendevano le prime luci di sosta; i tergicristalli si agitavano frenetici. Scalciò sul pedale del freno e accostò in una piazzola. Guidare di notte la disorientava e l’impauriva, quasi le toglieva il respiro. E ora c’era quella pioggia che riduceva la visibilità e moltiplicava i riflessi. Svegliò Fede scuotendole la spalla. Si era addormentata con la testa appoggiata al finestrino quando erano ancora in coda per uscire dal parcheggio del Forum. La ragazza, assonnata, domandò se fossero già arrivate a casa. Poi udì il frastuono della pioggia, si guardò intorno e si stirò come se avesse dormito un’intera nottata.
“Per una volta che usciamo insieme”, si lamentò Paola. Aveva lasciato il motore acceso e aveva mantenuto la sua posizione di guida con la fronte troppo vicina al parabrezza, la schiena rigida, le mani serrate sul volante.
“Mamma, è solo un temporale. Ora passa.”
“Non è stagione di temporali.”
“Potrebbe andare peggio.”
Paola sorrise, lasciò la presa sul volante, si appoggiò allo schienale e cercò la mano di Fede. Niente la rassicurava quanto quei momenti in cui la figlia varcava il confine dei suoi quindici anni: sembrava capace di aprirsi a fasi di inattesa consapevolezza ma non aveva ancora imparato a temere la propria sensibilità: l’esperienza non la offuscava, e non sapeva ancora schermarla con il sarcasmo. Allo stesso tempo, la faceva sentire colpevole. Non aveva il diritto di chiedere a Fede di farle da madre. Temeva il contagio dell’ansia. Spiava sua figlia per cercare di coglierne i sintomi precoci, e talvolta la interrogava apertamente. Quello stesso giorno Federica si era presentata a pranzo con un’aria stravolta. Lei aveva riconosciuto subito il pallore, la fame d’aria, l’accenno di balbuzie.
“Hanno quasi investito una mia compagna proprio davanti a scuola. C’è mancato tanto così. Un miracolo.”
Poi, fermandosi spesso per riprendere fiato, le aveva descritto l’episodio. L’urlo della frenata, la ragazza che si faceva di lato all’ultimo istante, lo zainetto che in quel momento teneva in mano che volava per aria, i libri i fogli e il portapenne che ricadevano sparsi sull’asfalto.
E il tizio del SUV cos’ha fatto, è scappato?”
“No, è sceso. Si è appoggiato alla macchina e ha vomitato.”
“Chi è questa tua compagna?”
Fede le aveva detto il nome, ma lei non era riuscita a collegarvi una faccia, o una voce. Le aveva chiesto se fosse andata al Pronto Soccorso.
“E’ a casa adesso. Non si è fatta niente.”
Lo zainetto di Fede le era scivolato dalla spalla ed era caduto sul pavimento con un tonfo e loro due si erano abbracciate. Paola aveva avvertito un tremito nascosto in profondità nel corpo di sua figlia. Era ancora terrorizzata. Ma la paura, le aveva spiegato più volte Roberto, era la reazione sana a un pericolo reale e imminente. Era vitale e primaria, poteva salvarti.
Roberto, il suo barbuto fratello maggiore, era uno psicologo cognitivo-comportamentale specializzato nelle consulenze online. Più volte nel corso delle loro telefonate serali aveva cercato di parlargli dell’ansia, dell’apprensione, dell’angoscia – non sapeva più come chiamarla – che da qualche tempo la prendeva al momento di mettersi alla guida dopo il tramonto; ma lui come ogni terapeuta detestava i pareri informali, e questo lo rendeva sbrigativo e incline al sarcasmo.
“Non è colpa della notte, la notte è sempre la stessa, il buio è lo stesso, casomai ce n’è sempre meno, e fino a qualche tempo fa guidare di notte non ti causava problemi. Sei cambiata tu, è cambiata la tua testa.”
“Vuoi dire che sono vecchia?” Lo sentì ridacchiare.
“Ti chiami Paola no?”
“E allora?”
“Quante donne sotto i cinquanta conosci che si chiamano Paola? Paola, Roberto… se tornassimo a scuola con questi nomi i compagni ci sfotterebbero come noi facevamo con le Giuditte e gli Alfonsi.”
“E’ bello avere qualcuno accanto nei momenti difficili.”
“Scusami. Quello che volevo dire è che c’è molta polvere sotto il tuo tappeto”, riprese, “Sarebbe ora di dare una ripulita.”
Lei aveva alzato gli occhi al cielo, aveva sbuffato. La polvere. Un altro modo per riferirsi al suo divorzio. All’epoca, tre anni prima, Roberto le aveva consigliato un ciclo di sedute con un suo collega; ma Paola gli aveva risposto che, in tutta onestà, non si era mai sentita bene come dopo la separazione. Aveva sua figlia accanto, insegnare inglese nella nuova sezione linguistica del suo liceo le piaceva – anzi, aveva ritrovato l’entusiasmo e la voglia di sperimentare dei primi tempi – aveva ricominciato a dormire tutta la notte e ad andare a correre tre volte la settimana ed era sempre la prima a offrirsi di accompagnare le ragazze nei loro soggiorni di studio all’estero. Liberarsi da suo marito l’aveva alleggerita di dieci anni. Era stato Vittorio – il Vittorio degli ultimi tempi – a portare nella sua casa la solitudine, l’ansia, il silenzio desolato.
Quando ne parlava sceglieva sempre la strada più semplice: ricorreva alla storia che le aveva raccontato una sua collega la cui la nonna, figlia diciottenne di una misera famiglia dell’Aspromonte, era andata in sposa per procura a un compaesano arricchitosi in Australia. Nella piccola fotografia che le aveva spedito l’uomo appariva come un giovane bruno e baffuto, alto e pieno di baldanza; ma sbarcando dal piroscafo a Melbourne dopo un mese di navigazione la ragazza aveva trovato ad attenderla un sessantenne calvo con una grossa pancia tonda e tesa, due gambette stecchite che lo costringevano a servirsi di un bastone e una guancia deturpata da qualche misteriosa malattia della pelle. Disperata, era scoppiata a piangere; aveva persino cercato di risalire sulla nave, da cui i marinai l’avevano ricacciata a spintoni. Non aveva soldi, non sapeva una parola d’inglese. Aveva dovuto cedere.
La navigazione di Paola non era durata un mese, ma quindici anni. In compenso, aveva avuto la possibilità di scegliere. Da una parte c’erano sua figlia, la sua famiglia, l’insegnamento, gli amici; dall’altra Vittorio, gli ammanchi sul conto, i tagliandi delle sale scommesse dimenticate nelle tasche dei pantaloni. Di giorno ciondolava in pigiama e pantofole. Usciva la sera per rientrare a tarda notte, quando lei fingeva di dormire e lo sentiva aggirarsi per casa furtivo e famelico. Ora, nei suoi pensieri, lei lo chiamava il fantasma. Tutti le consigliavano di concedergli un po’ di tempo, dopotutto aveva perso il lavoro – secondo Roberto stava affrontando una difficile fase di ricostruzione dell’identità – ma Paola si era decisa a rivolgersi a un avvocato. In lei convivevano, prevalendo a fasi alterne, conclusioni e sentimenti contraddittori: c’era quel senso rabbioso dell’inganno subito, ma anche la constatazione che solo le circostanze rivelano l’uomo e che Vittorio forse – dopo tutto quel tempo – si era svelato, era diventato quello che era e non sarebbe mai tornato quello di prima: dunque, che cosa aspettare, e perché?
La cosa più difficile, nei mesi che seguirono, era stata convincere il fratello, gli amici, i genitori che non era mai stata meglio, che le tornavano giorno dopo giorno forze prima bloccate in uno stallo vano. Non volevano crederci. Sostenevano che la sua fosse una serenità contraffatta, un espediente del corpo e della mente per proteggerla dal dolore immediato e darle il tempo di apprestare, in segreto, una difesa per quando sarebbe arrivata la crisi. Ma non era arrivata nessuna crisi.
Il frastuono diminuiva. Ora nella pioggia si riusciva a distinguere una cadenza. Era come un esercito in marcia nella pianura. Le auto che si erano ammassate sotto un cavalcavia in cerca di un riparo stavano ripartendo e formavano una lunga fila. Anche Paola, con cautela, si rimise in carreggiata. Si mantenne per qualche minuto nella corsia di destra ben distanziata dalla colonna di fanali rossi. Prese un gran respiro sforzandosi di flettere il diaframma e di riempirsi a fondo i polmoni, poi si spostò al centro e accelerò. La pioggia cessò dopo pochi chilometri. Ai bordi dell’autostrada, tra i campi fradici, apparvero i primi capannoni e più lontano si riuscivano a scorgere gli abituali punti di riferimento: Superga, le torri della Falchera con qualche rara finestra illuminata, le montagne gravate dalla massa delle nubi gonfie di bagliori. Al casello Paola abbassò il finestrino e inserì la carta di credito. Scelse di non prendere la tangenziale e, quando finalmente le luci si addensarono e la città le si strinse intorno, e vide che sull’asfalto non c’era traccia di pioggia, si sentì al sicuro. Fede se ne accorse e le posò una mano sulla spalla.
“Non era così male il tuo Morrissey.”
Tre mesi prima Fede aveva ricevuto in regalo un piccolo giradischi, un discendente cinese della fonovaligia con amplificatore e casse integrate che Paola ricordava in casa dei suoi genitori, abbandonata a favore di un impianto stereo ad alta fedeltà. L’epoca dell’alta fedeltà era finita da un pezzo, e la fonovaligia si era presa la sua rivincita. L’entusiasmo di sua figlia per quel giradischi, che rappresentava il ritorno dell’antica materialità analogica dell’ascolto musicale, l’aveva colta alla sprovvista. In tutta la casa non c’era neanche un vinile. Erano scese in cantina dove, in uno scatolone etichettato da una ditta di traslochi, avevano ripescato i suoi vecchi album degli Smiths.
Orgogliosa, aveva mostrato alla figlia la gestualità rituale – estrarre il disco dalla busta, posarlo sul piatto, posizionare la puntina con precisione e mano ferma proprio sullo spazio non inciso prima di ogni traccia. Erano rimaste in silenzio, ipnotizzate, per tutta la durata della prima facciata.
“E’ come se la musica diventasse più importante”, aveva commentato Fede. Parole che avevano lasciato Paola a bocca aperta: era esattamente quello che aveva sempre pensato lei, che il digitale avesse in qualche modo inspiegabile sottratto intensità e splendore alla musica, così come insinuandosi dappertutto nel tempo e nello spazio sembrava aver rubato qualcosa, difficile dire cosa, a molti dei suoi gesti quotidiani. Era un pensiero, però, a cui non dava mai voce, perché conosceva la scontata obiezione – che non fosse stata la semplificazione digitale a impoverire quei momenti ma più banalmente il tempo, l’usura, il succedersi delle stagioni: in una parola, la vita.
Fede, comunque, era entusiasta del disco e del gruppo. Così, quando aveva ricevuto una mail da Songkick che l’avvisava della data di Morrissey al Forum, Paola aveva comprato due biglietti senza stare troppo a pensarci su, salvo poi accorgersi che gli orari dei treni erano impossibili e che di conseguenza le sarebbe toccato guidare di notte per trecento chilometri.
Il semaforo lampeggiava e Paola rallentò all’incrocio per controllare a destra e a sinistra.
“Bravo è bravo, niente da dire. Ma l’ultima volta che l’ho visto aveva iniziato con tre quarti d’ora di ritardo ed era partito con una tirata contro la polizia italiana. Forse il giorno prima l’avevano arrestato, non ricordo, e lui ce l’aveva fatta pagare. A noi, il pubblico. Aveva cantato da cani. Insomma mi era sembrato un po’ stronzo.”
Fede rise. “Ma se era il tuo idolo, se eri innamorata di lui.”
“Ma quando mai.”
“Quando ti vestivi di nero e tu e papà andavate a quella discoteca in centro, come si chiamava.”
“Il Tuxedo. No che non ero innamorata.”
“Perché era gay?”
“Perché era una lagna.”
Morrissey si era presentato sul palco in perfetto orario, massiccio, ingombrante in una sorta di pigiama rosso rubino, inaspettatamente sorridente. Aveva regalato fiori agli spettatori delle prime file, si era chinato a stringergli la mano dopo ogni canzone. Ma a metà del primo bis a Paola era sembrato partecipe fino alla commozione. La voce gli si era spezzata e aveva saltato un verso facendo cenno con la mano alla band di continuare. Si era voltata verso Fede per farglielo notare e si era accorta che lei sì, stava piangendo. Dapprima aveva pensato a una banale immedesimazione, ma le era bastata una seconda occhiata per notare che sua figlia non aveva solo gli occhi lucidi: singhiozzava, e le lacrime le rigavano le guance. Non poteva essere colpa del testo lamentoso della canzone o della voce di Morrissey che si spezzava, e allora di cosa? Stava per domandarglielo quando era partito un pezzo frenetico, rumoroso e distorto. Poi le luci si erano accese. Erano uscite dal Forum incanalate nella folla e appena salite in macchina Fede si era addormentata di schianto.
Paola svoltò in una stretta via alberata, parcheggiò e spense il motore. Si lasciò andare contro il sedile e chiuse gli occhi. La strada e la notte erano alle sue spalle. Il momento che aveva temuto fino alla fine – le vertigini, la perdita dell’orientamento, la fitta al petto – non era mai arrivato. Domani avrebbe chiamato Roberto per raccontarglielo.
“Quindi eri innamorata solo di papà?”
Era distratta, stava ancora cercando di figurarsi quella telefonata esultante con il fratello, e Fede aveva dovuto insistere.
“Sei mai stata innamorata di papà?”
“Certo che lo sono stata.”
“Quando?”
“Ai tempi in cui non ero innamorata di Morrissey.”
“E dopo?”
Paola fece un gesto brusco con la mano che poteva significare chi lo sa, non ho voglia di parlarne, tanto tempo fa.
“Anche dopo”, disse, “Ma parliamone domani, con calma.”
“Potremmo non averne il tempo, ti rendi conto?”
Che sciocchezza, pensò, abbiamo tutto il tempo del mondo. Era sfinita, sentiva di non meritarselo, l’interrogatorio. Scese dalla macchina e andò ad aprire il cancello d’ingresso. Mentre frugava nella borsa alla ricerca delle chiavi il brontolìo di un tuono le fece sollevare la testa e una sventagliata di gocce si sparse sul marciapiede. Spinse il cancello appoggiandosi con la spalla.
Abitavano uno degli otto appartamenti di una palazzina costruita negli anni Trenta – un tipo di edificio piuttosto raro in città, con ampie vetrature, interni di marmo, balconi d’angolo ricurvi affacciati sulle magnolie del giardino. C’era anche un ciliegio, ma quell’anno una gelata gli aveva bruciato le gemme, così non avrebbe dato fiori. Paola tenne aperto il cancello dietro di sé. Fede rimase immobile, rigida, a braccia conserte.
“Io non vengo.”
“Per favore, ho freddo. E sta per piovere.”
“Non mi muovo di qui.”
Si avviò da sola lungo il vialetto, poi salì le scale fermandosi dopo ogni rampa ad ascoltare. Fede aveva le sue chiavi, e sperava che l’avrebbe raggiunta presto, ma allo stesso tempo era furiosa con lei, così piena di rabbia da sentirsi un nodo in gola. Aveva creduto di avercela fatta, finché sua figlia non l’aveva tradita. Il tempo. Cosa ne sapeva lei del tempo? Entrò in casa senza fiato, con le lacrime agli occhi. Si premette la mano sulla bocca come un bavaglio. Non voleva che Fede si accorgesse che la stava aspettando, così spense le luci: avrebbe pensato che se ne fosse andata a dormire e sarebbe salita anche lei. Ora si muoveva per le stanze al buio, di tanto in tanto si avvicinava a una finestra e arrischiava un’occhiata in strada. Sua figlia era sempre lì, davanti al cancello, sotto una pioggia rada. Si ritrasse in fretta dal chiarore che i lampioni della via proiettavano in casa attraverso le vetrate e inciampò in qualcosa di pesante, duro e cedevole al tempo stesso. Perse l’equilibrio e si ritrovò seduta sul pavimento. Tastò alla cieca davanti a sé e trovò lo zaino di Fede. Era rimasto dove l’aveva lasciato cadere rientrando da scuola. Sembrava davvero sconvolta. Era accaduto soltanto poche ora prima e Paola se n’era quasi dimenticata. Lo raccolse e lo portò nell’ingresso, l’unico punto della casa in cui la luce accesa non sarebbe stata visibile dall’esterno. La spessa tela era strappata, raschiata e annerita in più punti, i libri squinternati, i quaderni erano ridotti a fogli accartocciati e ficcati dentro alla rinfusa. Le penne erano spezzate, gli occhiali da sole in frantumi. Lasciò cadere lo zaino, vi si inginocchiò accanto, lo sollevò e se lo strinse al petto. Un tuono distrusse il silenzio della casa, che le era sembrato inespugnabile.
Poi ci fu la pioggia che scrosciava sul tetto, sui balconi, sulle foglie dure delle magnolie, che gorgogliava nelle grondaie e scorreva sopra e sotto il piano della strada, scendeva con furia a rodere le fondamenta, a minare la città intera.