L’Anno del Fuoco Segreto: Il Drago delle Rane
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.
di Dario Valentini
Ci sono storie che non hai mai vissuto, eppure le hai vissute. Mi aveva detto Lorca un pomeriggio, dopo avermi fatto riprovare per la millesima volta un passaggio che non mi veniva delle Variazioni Goldberg. Eh già. Gli avevo risposto distrattamente. Poi mi aveva appoggiato una mano sulla spalla e lanciato uno sguardo con gli occhi lucidi. Tutto ok?
«Non so cosa sia peggio» ridacchiò Madeira. «Il fatto che stiamo preparando un concerto per delle piante, o che gli facciamo ascoltare musica fatta con strumenti di legno!»
«Sei proprio una testa di cazzo» Lorca succhiava il fondo della sigaretta, appoggiato con la schiena all’angolo di muro tra il teatro e l’hotel España per proteggersi dal vento. Si era già fatta sera.
«Prova a pensarci vecchio, immagina se a te facessero ascoltare musica fatta con pezzi di carne umana, ti disgusterebbe no?»
«Tipo il canto?» Lorca scoppiò a ridere. «Ne ho sentito parlare! Dicono non sia malaccio.»
«Non intendevo quello» Madeira sistemò l’elastico che teneva faticosamente i capelli, sbuffò. Si ricordava ancora la lezione della Plath sui Kangling tibetani cavati dalle tibie.
«Dai non te la prendere!» Lorca gli diede una bella pacca. «Cosa proponi?»
«Che magari non gli facciamo sentire il solito Beethoven a queste foglioline.»
Lorca lo guardò storto.
«Non fraintendere, Beethoven è…» Madeira guardò in alto aprendo le mani come in segno di resa.
«Ecco» Lorca si accarezzò la barba folta «e su questo forse la storia non stava aspettando col fiato sospeso il tuo augusto giudizio, stella.»
«Ma dico forse…»
«Forse cosa?»
«Forse potremmo fare qualcosa di più…Moderno.»
«Eh si, d’altronde sono qui solo da milioni di anni! Chissà quante volte l’avranno sentito il Chiaro di Luna. E chissà che versioni di merda si saranno dovute sorbire nei salotti o nei reparti dove pensano di curarti la schizofrenia facendoti sentire Einaudi dalla mattina alla sera» Lorca scosse la testa «vuoi fare qualcosa di Satie o magari…Gershwin?»
«Per me si potrebbe osare anche di più.»
«Allora Rutavaara o…Penderecki?»
«Di più, di più.»
«Ho capito. Ti è andato il sangue alla testa e vuoi fare una di quelle cose contemporanee che provi a propinarmi da quando sei tornato.»
«Si ecco, qualcosa del genere.»
«E allora sai che ti dico?» Lorca si arricciò i baffi. Madeira sentì una morsa allo stomaco, gli tremarono le gambe, si aggrappò al maniglione dell’entrata sul retro. «Vuoi fare l’avanguardia? E allora facciamola! Per una volta ti do carta bianca, e ti lascio chiamare anche i tuoi amichetti della Berkley.»
«Mi prendi in giro?»
«Niente affatto! Sei fortunato che il pubblico di queste serate non può scappare» gli fece una linguaccia «e per di più non paga.»
«Oh grazie Lorca grazie! Non te ne pentirai» Madeira si mise a saltellare.
«Basta che poi non mi rompi le palle quando torniamo alla programmazione normale.»
«Ehm…Certamente.»
«Niente lamentele.»
«Nessuna.»
«Niente esperimenti, niente idee strane sussurrate di nascosto agli altri musicisti tra le vie di palazzo, mi sono spiegato?»
«Sissignore.» Se è strano proporre un Windman ogni morte di papa, tanto vale che ci trasferiamo all’Egizio e tanti saluti, pensò. Quand’è che abbiamo smesso di andare in cerca di guai?
Lorca restò un secondo in silenzio, poi disse «Considerati responsabile creativo del progetto.»
«E mi fai anche dirigere l’orchestra?»
«Forse. Ora torniamo dentro che ho freddo.» Lanciò il mozzicone su Carrer San Pau. A destra si sentivano i soliti schiamazzi della Rambla. A sinistra l’odore del ristorante indiano in cui si era sempre rifiutato di andare a mangiare, e dire che gli altri insistevano tanto. Per Lorca il Gran Teatro Liceu era un posto speciale, ci aveva suonato per la prima volta negli anni settanta e proprio lì aveva esordito come direttore. Vederlo così, tutti i sedili tenuti abbassati dai vasi e occupati da fiori e piante varie, gli faceva un effetto strano. Sorrise e abbozzò un inchino. Calici e corolle dai colori vertiginosi si alternavano a germogli più comuni e ad escrescenze smeraldine, lussuriose. I primi posti erano occupati da rose impettite. Altri da piccoli ciclamini montani. Gerani dall’aspetto dignitoso e ginestre indifferenti. Gelsomini rampicanti dai fiori bianchissimi e profumati. Orchidee di colori ibridi (che sebbene si dicesse molto facili da tenere lui era sempre riuscito a far morire nel suo appartamento a Muntañer). Calle funebri (le preferite di Marta, la numero due). Ma anche girasoli smargiassi e oleandri dalle intenzioni chiaramente malefiche. Piu avanti c’erano arbusti e alberelli. Melie e magnolie imperscrutabili. Limoni, olivi e altri piccoli alberi da frutto. In fondo in fondo si vedevano persino alcuni ortaggi. Pomodori, zucchine fiorite e radicchi. Un po’ fuori posto forse, ma perché escluderli? Di molte altre specie non avrebbe saputo dire neanche il nome. Pareva il giardino diffuso di qualche maharaja eccentrico. Erano spettatori strani di certo, ma silenziosi, e nei brevi intervalli tra un pezzo e l’altro non avrebbero applaudito in maniera incongrua rovinando l’atmosfera: quella tensione che si creava poco prima che iniziasse il passaggio successivo, e che era uno dei suoi momenti preferiti in assoluto, quasi sempre guastata da qualche stronzo che non sapeva stare zitto e qualche altro ancora più stronzo che gli diceva di stare zitto. E poi, di sicuro, non potevano aver portato con loro i cellulari. Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che li osservassero, con occhi verdi come i raggi del sole tra le foglie. Proprio lì vicino, alla Filmoteca de Catalunya ci aveva conosciuto la numero uno. Rocìo. Un’andalusa bruna e testarda con le tette perfette che aveva amato spietatamente. Questi avverbi alla “Siglo de Oro” saranno i chiodi della tua bara, lo perculava Madeira. Era una donna all’antica che per chiedere il divorzio ci aveva messo parecchio, quando le sue scappatelle erano diventate proprio impossibili da ignorare. Cornuta sontuosamente, sghignazzava Madeira alzando il bicchierino dell’amaro. Si era risposato altre due volte con scarsi risultati e non aveva avuto figli, dedicandosi da un certo momento in poi completamente alla musica. Tra gli studenti che aveva amato di più c’erano state un paio di ragazze particolarmente dotate e il suo pupillo. Esecutore eccellente seppur non straordinario, ma dal tocco e dalla sensibilità singolari, cui aveva perdonato nel corso degli anni troppe mattine in ritardo, visibilmente in hangover e certe scelte estetiche estremamente discutibili (in ordine di gravità crescente i capelli lunghi, i vestiti stravaganti, gli orecchini e per ultimo il rossetto. Il rossetto, Dei abbiate pietà di noi). Infine aveva pure dovuto ingoiarsi la bile per la fuga oltreoceano. Motivi di studio un paio di palle. Avrebbe dovuto essere arrabbiato con lui, ma in tutta onestà, quando ce l’aveva avuto davanti di nuovo, si era scoperto solo contento di rivederlo.
Madeira invece, che aveva suonato a Boston, Chicago e New York, lo odiava il Liceu. Diceva che era pieno soltanto di vecchi Catalani bavosi e che in America invece sì che la grande classica si apriva a tutti, e sul velluto rosso ci trovavi gente di ogni tipo. Dalla band di metallari ai fanatici dell’hip-hop all’appassionato di soul. C’era il nonno che Shostakovich praticamente l’aveva conosciuto e accompagnava il nipotino al primo concerto in assoluto. C’erano gli sconti per i ragazzi del college che arrivavano a piccoli branchi e cercavano di portarsi in teatro qualche schifezza da mangiare infilandola nelle felpone dell’NYU. E le serate più sperimentali, dove andavano principalmente gli addetti ai lavori, compositori di elettronica da tutto il mondo in cerca di suggestioni, e anche rocker famosi. E via raccontava a Lorca di quella volta che ci aveva incontrato il Boss. Sì, intendo proprio Bruce Springsteen. Ah, non ti facevo un fan di quella roba, gli aveva risposto il suo maestro. E di quella musicista Blues di Tampa (Florida) che al tempo non era famosa ma gli aveva fatto un pompino tutt’ora imbattuto. A questo punto della storia di solito si metteva la mano sulla bocca e gli occhi gli si inumidivano. Era davvero incredibile. Ma dici il pompino? No vecchio porco! La scena era incredibile, era così…viva! E allora perché diavolo sei tornato? Perché sono un coglione, ho messo incinta una violoncellista di Badalona quand’era in trasferta e non me la sono sentita di far crescere il fagiolo senza un padre, gli aveva raccontato al primo whiskey insieme dopo tanto tempo. Erano al Bar Jardin, un terrazzo allestito a café a cui si poteva accedere solo passando per un bazar di cianfrusaglie cinesi e salendo una scaletta. Beh congratulazioni! E non sapevo che fossi sposato. Ma che dici, sono il papà del bambino mica un martire, pago gli alimenti e vado a trovarlo il weekend. Quella era una matta, e pure chiatta. Eh si. Aveva detto Lorca poggiandogli una mano sul polso. Le violoncelliste sono spesso così. Però decisamente più facili da portarsi a letto delle violiniste. Decisamente. Madeira non aveva indagato oltre, si era limitato ad annuire.
Il giorno dopo la loro discussione Madeira si era presentato in teatro con pantaloni comodi, capelli sciolti e una giacca sportiva con le maniche tirate su, mettendo in bella mostra i tatuaggi di Sinatra e Miles Davis sull’avambraccio sinistro. Lorca si era sbrodolato il caffè addosso. Il giovane si era avvicinato al palco con falcate che parevano salti e il mento alto.
«Mettiamoci a lavoro.» Aveva estratto dalla valigetta un plico di spartiti e appunti «Guarda qua.»
Lorca aveva sbarrato gli occhi «E questa cos’è?»
Madeira si era limitato a sorridere.
«E il primo movimento lo vuoi tutto fatto così?» aveva rincarato la dose il maestro
«Per non offenderle…Lo capisci?»
«Veramente no! Ma poi chi te la suona? E chi ce li ha questi strumenti?»
«John Ashbery e i suoi»
«Da Londra?»
«No no sono in tour per l’Europa, ha detto che ci raggiungono e portano tutto, non vedono l’ora»
«Contenti loro» Lorca si era messo una mano sulle tempie. «E poi prosegue con tutta l’orchestra?»
«Esatto, e in più ho invitato Ghiannis Ritsos, Jordan Dreyer e Anne Sexton dei Sexton Trio. Saresti sorpreso di sapere quanti di loro si trovano qui in Spagna»
«Mi hai preso seriamente cazzo, e quelli ti hanno pure risposto»
«Non solo mi hanno risposto Lorca, sono entusiasti.»
Questa iniziativa “Plantastica” del comune non aveva scosso particolarmente Madeira, preso com’era dai cazzi suoi. E onestamente della flora non gli era mai interessato molto. Non che fosse uno di quelli che odiano stare nella natura o cose del genere, semplicemente non ci aveva mai pensato. Inizialmente aveva trattato le piante con indifferenza, attraversando su e giù il teatro come se non ci fossero. Erano state una buona scusa per fare la musica che voleva lui e basta. Poi, i giorni che era più nervoso, aveva iniziato a scostare con irritazione le fronde delle acacie più impertinenti e i rametti dei ciliegi. A volte, per scaricarsi, rivolgeva pernacchie ai pitosfori e battutine alle zinie che gli parevano sempre più vapide. E un momento che si era sentito particolarmente giù di corda aveva deciso di raccontare le sue disgrazie allo spelacchiato cedro libanese nell’angolo a destra, ricevendo in cambio solo un ovvio e apprezzabile silenzio. S’era ritrovato ad abbracciare il tronco esile, con un sogghigno e uno sbuffo. Aveva letto da qualche parte che era terapeutico (Forest Bathing: indicazioni pratiche per abbracciare con profitto gli alberi: camminare in un parco o in un bosco, accarezzare la corteccia, sentire il profumo del legno, guardare verso l’alto la cima e, alla fine, scegliere la pianta giusta, cingerla con delicatezza e intensità, fino a sentirsene parte. Abbracciando un albero il suo peculiare “schema vibrazionale” interferirà positivamente con i meccanismi biologici del nostro corpo…) e si era sentito ancora più idiota. Ritraendosi però aveva avuto l’impressione che le maonie educate a siepe li intorno lo accarezzassero con le loro fogliette obovate o gli battessero sulle spalle con tante piccole manine. Ciao poverino ciao. Bah, tutte cazzate forse, ma doveva ammettere che i fiori rossissimi del melograno e quelli di rosa e perla del pesco in terza fila erano davvero uno spettacolo. Una mattina prima delle prove Lorca l’aveva trovato ad accarezzare la rafflesia del posto 7B.
«Ci ho ripensato sai, questo esperimento vegetale tutto sommato mi piace. È una trovata interessante, molto Americana. Bravo sindaco! Ricordami di fargli i complimenti» Aveva detto.
«Allora forse Barcellona non è senza speranza come pensi» l’aveva sfottuto il vecchio.
«Chissà.»
«E comunque farle i complimenti. Il sindaco è una donna adesso»
***
Ashbery tocca la piccola tastiera in mezzo al palco, illuminato da un singolo faretto. I tasti non oppongono alcuna resistenza, non hanno peso, come fossero immersi in un lago formatosi su un cratere lunare. Il sequenziatore proietta un riflesso granulare della composizione. Quattro voci processate da un cervello modulare si intrecciano in una polifonia delicata ed elegante. Alzo i palmi a piccoli scatti. Al mio segnale dal buio entrano altri due sintetizzatori. Cesàr e Salvatore immergono le mani nel liquido scuro e generano piccole onde che si espandono e si moltiplicano. Unisco pollici e indici e li tengo sospesi. Bene così. Ho la fronte umida, chiudo gli occhi.
Tra le fiamme verdi vedo una creatura. Emette versi che non ho mai sentito. Vibrazioni che mi attraversano in ogni punto contemporaneamente. Sono come semi che scivolano e ogni volta che colpiscono qualcosa tintinnano, o come rugiada che gocciola dalle foglie…con un intento preciso? E i suoni si trattengono nell’aria e slittano l’uno nell’altro. Non sono nostri, mi spiega una delle Tre Madri. Tentano una canzone che addormenti l’acqua? Chiedo. Perché si muove così? Se mi muovessi anche io potrebbe aver paura di me e scappare? In quel caso forse i rumori smetterebbero, e non voglio che finiscano. Forse se fossi fatta a sua immagine. Prego che il latte scorra e la polpa stringa, e quando mi stacco da tutti gli altri mi rimane una ferita sulla schiena. Se mai decidessi di tornare. Le Tre Madri mi sorridono e in quel momento rinuncio alle loro voci. Per un secondo il silenzio mi investe e mi fa sentire terribilmente sola. Ma quando ascolto la creatura e quando la guardo, penso che non vorrò tornare. E quando mi sfiora ne sono sicura. Quando mi bacia con quelle labbra calde e pitturate d’orchidea. Mi vergogno delle mie che sono bianche e verdi e fredde. Mi prende in giro mentre mi accarezza, e non smette mai di parlare. Questa è una chiesa, quello è un cane, quella è la luna. Lo so cos’è quella. E quando camminiamo per il quartiere gotico mi prende sotto braccio per spiegarmi come si fa, e io faccio finta di non aver ancora imparato. Quando piove ripete: mettiti il cappotto. Non mi serve il cappotto.
Le note alte rimbalzano, colpiscono prismi di vetro. Piccole crepe li attraversano. I medi sono nuvole di sale che scorrono sotto il ghiaccio e lo graffiano. Soffiano e montano. Poi si inserisce una linea di basso magnetica e ruvida. Alzo un braccio. Le luci si distendono. Ci siamo.
Tra le fiamme verdi vedo una creatura. Ha la chioma d’oro rosso, e un mantello asimmetrico che le cade su una spalla, un arazzo ocra e arancione. Il tessuto denso si dirada in fazzoletti, simili alle foglie bilobate del ginkgo, che si allungano a coprire il braccio sinistro, quello più lungo. Gli occhi sono sogni d’ambra. E l’aria che ha intorno è come se brillasse e si muovesse ripiegandosi piano come velluto sull’acqua. Ha lo stesso odore che hanno i cuccioli, misto a quello della buccia dell’uva. A volte mi fissa come se non ci fosse altro da guardare, altre mi guarda attraverso. Le prime notti stava tutto il tempo con il viso attaccato all’abatjour vicino al letto. E come mi spingeva la testa fra le cosce! Dentro lamine cribrose, colorate con la densità degli anemoni, mentre spazzate di blu stellare mi inondavano i pensieri. Certi giorni ho la sensazione che morirebbe se la lasciassi sola. O che morirei io. Quando esagero col vino mi tiene su e mi gira le sigarette. Lo vuoi un gelato? Basta che non mi fai ridere se no mi esce tutto dal naso. Questa cosa del respirare non ti riesce ancora bene.
Vladimir attacca il secondo movimento. Leggerissimo sui piattini. Poi ci inserisce i tamburi e un filo di cassa. Sciolto. Gabrièl entra con il contrabbasso. Fa una faccia come se annusasse qualcosa di strano, e al tempo stesso pare estremamente soddisfatto. Gli faccio un gesto con la mano. Piano. Con la sinistra evoco la melodia: appaiono gli archi, trattengo gli ottoni per un soffio. Non ancora. Lancio uno sguardo al batterista, mi sorride. Tienila esattamente così. Con una manata spazzo via gli acuti per un quarto. Con l’altra faccio entrare le trombe. Ora tutti insieme. Cristina è uno spettacolo con quel suo staccatissimo. Respiro, mi giro.
Tra le fiamme verdi vedo un dio. Il cappello piumato, il vestito bianco e dorato. I piedi nudi. Quando mi vede triste si inventa certe stupidaggini solo per strapparmi un sorriso. Toglimi una curiosità, mi chiede, le farfalle erano petali una volta? Si sono staccate dal gambo e adesso volano? A volte rido solo per dargli soddisfazione, ma quella era proprio divertente. Oppure guarda i vasetti sul terrazzo ed esclama: i fiori sono stati a fare festa stanotte! Per questo hanno la testa che ciondola. Ti va se usciamo anche noi domani? Ci sarebbe il concerto di alcuni amici. E quando tocca il pianoforte mi si stringe lo stomaco. Vorrei attaccare l’orecchio a quella carcassa e urlare ti prego ancora, ti prego basta. Come fa ad essere così bella questa musica che viene dalle ossa dei miei morti, che mi fa ballare sul tappeto dell’appartamento come se le setole fossero fili d’erba umida e arrabbiare così tanto da lanciare per aria gli spartiti e scagliare via i vinili dalle mensole. Mentre singhiozzo mi tiene stretta fino a farmi mancare il respiro. Lo so, ripete. Lo so.
Dreyer succhia sull’ancia. Il sax esplode. Per un secondo pare fuori scala ma poi si piega di un semitono e rientra. Mi fa l’occhiolino. L’assolo ruota su sé stesso e sfreccia, salta come un funambolo tra le ottave, senza rete di protezione. Trattengo il fiato.
Tra le fiamme verdi vedo una dea. La pelle iridescente e salmastra. La voce come il drago delle rane. Raccontami ancora quella storia, chiedo. E va bene. Scopre i denti, mandorle ancora acerbe. Appoggio la testa sulla sua pancia, mi infila una mano tra i capelli e tasta le ciocche come se quella consistenza ancora la sorprendesse. Chiudo gli occhi. Bolle bianche e rosse mi inondano il campo visivo, cerchi come di vetro soffiato che si espandono. Nel crepuscolo gli alberi si baciano? Vedo ortensie in fiore che delimitano un giardino per bambini zoppi. Sento come uno sfrigolio, identico in tutti i punti del mio corpo. Poi si interrompe. È sudata fradicia e ansima. Anche tua madre era una strega? Mi chiede d’un tratto. Si, rido. Alziamoci, ti prendo un bicchier d’acqua. Come ti sta bene questo vestito. Lei alza le spalle. A-B, A-B canticchia, cos’è un pentametro? Alcuni giorni sembrano sfilate, altri la fisso e non le importa. Possiamo rimanere a casa stasera? Decidiamo dove mettere la libreria? Ti va se cuciniamo la zuppa? Certo le ricette senza verdure non sono semplici. Senti a Tatiana per la spesa le scrivo così: piante no, frutta no, erbe di qualsiasi tipo no, carne si specialmente rossa, pesce ok.
Anne l’ho conosciuta in un appartamento ad Harlem dove ogni domenica fanno una jam session free jazz. La gente si porta le sedie da casa e quando finisce il posto dentro si piazza in corridoio o sta in piedi pur di rimanere ad ascoltare. Si sente odore di fumo e trench coats umidi. A una certa ora l’edificio è pieno e la musica si sente fino alle lavanderie al piano terra. Le sue dita spintonano l’armonia ai limiti estremi. Poi allargano le grate e la liberano. Fuori dal perno tonale dominante. Seguono secondi di scale spaventose e arpeggi al vetriolo. Stringo i denti. Guardo il pubblico.
Tra le fiamme verdi vedo una furia. Si infila una mano in gola ed estrae una spina bianca. Una lama mutaforma che urla, strappa e scioglie. Parole che si appiccicano addosso e ustionano a lungo. Tu non sei come me. Non sai neanche cosa vuol dire. Non ci provi abbastanza. Torniamo indietro senza parlarci. Le luci dell’autostrada rimbalzano sulla vernice dell’auto e i fari mi bruciano le pupille. Ma se chiudo le palpebre è ancora peggio. La casa pare un castello che ci tiene lontani. E se ci incontriamo è per caso, nel buio e al freddo.
Ritsos non so come faccia, martella su tasti lontanissimi con forza terroristica. Animato da una specie di febbre. Ogni terzo e quinto battito pungola il ritmo con un bastone elettrico e lo stordisce.
Tra le fiamme verdi vedo una furia. Il corpo corazzato da boccioli ossei. Gli occhi fasciati da garofani sanguinanti. Grappoli di bacche e amarene le infestano i capelli. Le orecchie sono protette da licheni appuntiti che si allungavo verso l’alto a formare palchi fioriti. Dalla piaga sulla schiena escono steli, zampe sottili come scheletri di farfalle, spruzzi di aghi di abete rosso, liane spettrali e asparagi dentati. Si sente un odore come di carne in decomposizione. Tu non fai che bere, dire stramberie e spaventarmi. E non ascolti, o non capisci. Non avrei mai dovuto venire qui. Si morde la lingua. Sei tu che non sai cosa vuol dire. Stringe i denti fino a vomitarsi in bocca dalla rabbia. La bava gocciola sul parquet. Penetra le doghe e le macchia di gigli.
Infine si calma, e non è meno pauroso. Le note diventano un vago tremolio di stelle. Fuggono e si nascondono dietro all’arpa labirintica. Ordino all’orchestra di accompagnarle come se le prendessero per mano. Quando capisco che sta per finire ho i brividi.
Tra le fiamme verdi vedo un bambino. Steso sul divano come se avesse la febbre. Non ti avvicinare. Si infila il cappotto e non torna a dormire a casa. Quella notte giro per il quartiere. Il giardino dove giocano a scacchi è chiuso. Mi siedo su una panchina di piazza San Jaume con il viso fra le mani. Un signore anziano mi si avvicina e inizia a bestemmiare contro il palazzo del comune. Questa città non è più come una volta, non c’è spazio per voi giovani. I miei figli sono dovuti andare a lavorare in Germania, dove fa sempre pioggia, e non li vedo mai. Tu di dove sei? Mi limito a scuotere la testa. Mi saluta battendomi delicatamente la mano sulla schiena. Forza dice. Alcuni ragazzi mi lanciano addosso delle lattine e sghignazzano. Un tipo con la barba mi chiede se voglio erba. Quando tiro su la faccia non mi ripete la domanda. A una certa ora ripiego in piazza San Miguel che è più tranquilla. Alle quattro mangio un gatto in un vicolo. Alle cinque torniamo verso casa insieme. Fa un po’ fatica a camminare, ma adesso profuma di arancia.
La nostalgia mi artiglia lo stomaco. Mi aggrappo a quell’ultima pagina. Gli strumenti abbandonano la scena uno dopo l’altro. E vorrei gridare fermi! Stop! Avete sbagliato, la dobbiamo rifare da capo! E invece è perfetta.
Tra le fiamme vedo una bambina. Oggi fissa la strada dalla finestra, c’è un’aria come di campagna. Cosa vuoi per colazione? Guarda quel tipo che strano, con quella maglia lunga e tutta colorata. Indica un passante. Mi rispondi? È uguale, fai tu. Esco dall’appartamento e fumo due sigarette di fila. Poi un’altra, finchè il sapore in bocca non è schifoso come il mio umore. Cammino fino alla spiaggia e guardo il mare. Penso all’immensa tristezza vegetale. Alla figa. Alla sismica indifferenza della terra. Siamo troppi, siamo pochi. Ogni secondo pare un’eternità. Ficco la mano nella sabbia. Le cose sono così fredde. Alcuni ragazzi giocano a pallone. Ehi amico che ti prende? Mi chiede uno studente erasmus in uno spagnolo stentato. Non lo so, dico io. Stasera c’è una festa al Razzmatazz, pieno di belle ragazze, dovresti venire. La vuoi una birretta? Sono le dieci di mattina. Gli sorrido, e lui pare ancora più preoccupato. A quel punto scatto in piedi e mi metto a correre. Arrivo sotto al portone di casa e quasi rompo la chiave dalla foga. Salto le scale a due a due. Infine entro, ma le rose sono già cresciute. Bianche come la mia pena.
Silenzio. Rimango immobile con le braccia ancora alzate. Stanchissimo e con la nausea.
Lorca si avvicina e mi sussurra all’orecchio «Tutto bene?»
Nelle fiamme verdi vedo tutto questo. Questi momenti sono solo miei e tuoi. Piccoli punti su una linea infinita. Oh ti prego, non dire così.
A volte mi sembra di vedere il tuo viso in posti improbabili, nelle fioriere al mercato o al parco della Cittadella. Anche solo un mezzo sorriso.
Sono passato davanti al mio appartamento dei tempi del conservatorio in Calle Escudellers e seduta lì davanti, su una sedia di plastica ingiallita, c’era la signora grassa del quarto piano. Mi ha allungato un volantino come a tutti gli altri passanti. Ma io mi ricordo di lei! Ho detto ad alta voce. Anch’io mi ricordo di te, tesoro. Mi ha risposto come fosse ovvio, sostenendo il mio sguardo.
Anche tu rivivi quegli istanti? All’improvviso sono lì e non riesco ad andarmene. Sei seduta in soggiorno, è pomeriggio. Stai leggendo Il Pescatore e la sua Anima di Oscar Wilde. O qualche altra raccolta di fiabe. Il sole filtra tra le finestre. E si vede che te lo stai godendo tutto. Metti giù il libro e alzi gli occhi, come per cercarmi.
Non diciamo niente ad alta voce, eppure ci diciamo tutto. L’universo trema sul suo stelo.
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Immagine di Francesco D’Isa.
Dario Valentini (1993) ha pubblicato racconti per L’Indiscreto, Nazione Indiana, Minima&Moralia, Sugarpulp e altre riviste letterarie.