Gioco a rate
di Andrea Guano
Sapevo benissimo che nella tabaccheria di Gino non avrei dovuto metter piede, le sigarette avrei dovuto prenderle all’apposita macchinetta, tenermi insomma lontano da quel negozio come dalla peste, invece, benché immaginassi che avrei dovuto sorbirmi una discreta coda, e che quella coda, con indosso la mascherina che mi intrappolava il volto, mi sarebbe costata cara, inducendomi a pentirmi di non essermi diretto alla macchinetta, di lì a poco avrei sicuramente inveito contro di me e contro il Governo, anzi più contro il Governo che contro di me, perché il Governo quella mascherina ce l’aveva imposta a forza per salvaguardare la nostra salute, quando invece della nostra salute non gliene importava un fico. Abbiamo dei governanti indecenti, mi dissi guardando quante persone c’erano in fila. Ne contai otto affrettando il passo per collocarmi al nono posto. Guardai piazza Guicciardini, nella quale passavano diverse macchine e due bus, due 37, uno a salire fino al capolinea, l’altro a scendere, ma soprattutto guardavo i passanti per individuare chi stava dirigendosi verso la tabaccheria di Gino. Gli ultimi passi li feci di corsa anticipando una vecchietta di un paio di metri. La guardai di sguincio, vergognandomi per il mio comportamento: lei, per tutta risposta, anziché fulminarmi con gli occhi mi rivolse uno sguardo luminoso, pieno di comprensione. Abbozzai un sorriso, lottando contro la tentazione di defilarmi in tutta fretta per la pessima figura. Quanti minuti avrei dovuto attendere? Dieci? Un quarto d’ora? Sperai il minor tempo possibile, perché se per disgrazia avessi dovuto attendere un quarto d’ora o, peggio, venti minuti mi sarei ritrovato col volto inondato di sudore. Tutta colpa della mascherina, accidenti! Quando diavolo ci avrebbero permesso di girare col volto libero da museruole, senza correre il rischio di beccarci tre o quattrocento euro di multa? Forse mai, mi diceva la zia Lina, che la mascherina se la portava anche a letto. Ma come, mai, dicevo io angosciato. Il nostro Governo vuole così, mi diceva lei, mesta. Già, pensai contando quattro persone davanti a me. Mi tirai giù la mascherina di due dita, liberando il naso e asciugandomi con un fazzoletto il sudore che colava copioso sulla fronte. Ebbi la tentazione di togliermela, quella dannata museruola, e di respirare a pieni polmoni, ma desistetti per il timore che un poliziotto in borghese si accorgesse del mio gesto ribelle e mi punisse senza alcuno scrupolo. Due persone. Ancora due persone e poi ci siamo, Thomas, mi dissi. Mi voltai e vidi altre quattro persone che aspettavano con maggiore pazienza di me. Cercai di pensare alla squadra del mio cuore, il Genoa, e ai giocatori che erano costretti a stare nelle loro case perché colpiti dal Covid. Speriamo che ne vengano fuori alla svelta, altrimenti rischiamo di perdere quattro o cinque partite, pregiudicando il nostro campionato. Stetti a pensare a questa sciagurata ipotesi, ed ero talmente assorbito dalla preoccupazione che non mi accorsi che era il mio turno di entrare nella tabaccheria. Fu la vecchietta alle mie spalle a spronarmi dicendomi, giovanotto, è il suo turno. Entrai nella tabaccheria, andai al banco, ordinai un pacchetto di Diana, Gino mi salutò con un gioviale salve Thomas. Io risposi al saluto, presi le sigarette e il resto, guardai i soldi che mi erano rimasti nel portafogli, sì e no cinquanta euro, ma quei cinquanta euro erano i soldi della rata della friggitrice che avevo appena acquistato da Amazon, e quindi si può dire che non erano più soldi miei. Ormai non avevo quasi più niente di mio, non la casa, non uno straccio di macchina, anche se il pensiero di comprarne una, a rate, continuava a rimbalzarmi in testa, quando non avrebbe dovuto neppure passarmi nell’anticamera del cervello. Soprattutto negli ultimi mesi ne avevo fatto un sacco, di rate, al punto che potevo dire di esserne sommerso. Rate su rate. Avevo preso il frigorifero, uno stereo, un notebook, e altri mobili, roba piuttosto scadente, ma che mi restituiva la balzana idea che l’appartamentino in cui abitavo fosse più accogliente. Non so se quest’idea la dava anche ad altri, ma questo m’importava di meno, visto oltretutto che frequentavo pochissime persone. Metà del mio stipendio se ne andava in rate, e tirare avanti diventava sempre più difficile. Se non cambia qualcosa, non arriverò a fine mese, pensai. Mentre mi infilavo in tasca le sigarette, occhieggiai una delle tre slot-machine presenti nel locale. Una di esse era libera; le altre due erano occupate: una, la più malandata, da una donna in là con gli anni; l’altra, la più nuova e smagliante, da un uomo sulla cinquantina. Imbavagliati nelle loro mascherine entrambi i giocatori giocavano con grande attenzione. Tirai fuori i cinquanta euro dal portafogli e me li feci cambiare in monete. Avresti dovuto andartene a casa, e liberarti da questa orrenda museruola. Non avresti dovuto farti cambiare i cinquanta euro in monete, mi dissi, mentre mi avvicinavo all’unica slot machine libera, una slot che aveva già fatto il suo tempo ma che avrebbe potuto riservarmi gradevoli sorprese. Stai qui, prigioniero di questa mascherina, per ottenere un diverso tipo di aria, forse più necessaria di quella che sei costretto a respirare. Senza pensarci su un attimo inserii dentro la feritoia la prima moneta da un euro. Premetti il pulsante e subito la ruota cominciò a girare vorticosamente. Pregai che si allineassero tre re, il che avrebbe voluto dire che avrei udito un tintinnio sorprendente, e sarebbero uscite una montagna di monete da uno o due euro, pari a cinquecento euro, il che avrebbe voluto dire che l’indomani sarei corso da Unieuro e mi sarei comprato un TV Samsung da quarantadue pollici, 4K, che avevo visto qualche giorno prima su un volantino che mi ero ritrovato nella sgangherata cassetta della posta. Questo televisore me lo comprerò, mi ero detto appena l’occhio mi ci era caduto sopra. Era un televisore magnifico, con due prese USB e quattro prese HDMI, mentre in casa avevo ancora una baracca da ventotto pollici, di quelli antidiluviani, con il tubo catodico che non esistevano più nemmeno negli istituti per anziani. Quel vecchio televisore lo avevo in casa da quasi sedici anni, e ancora non avevo potuto comprarmene uno nuovo. Forza, forza, mi esortai asciugandomi la fronte con il braccio e subito battendo un pugno sulla slot machine, come se avessi il privilegio di bloccare i simboli o, viceversa, accelerarne il percorso per poi inchiodarli al momento giusto. Ecco che la ruota rallentava e no, non si allinearono tre re, ma tre simboli che non avevano niente a che fare uno con l’altro. Ma perché non ho avuto un po’ di fortuna, accidenti a me, perché se non si sono affiancati, se non tre re, almeno tre fate, il che voleva dire che sarebbero scese molte meno monete, ma avrei raggranellato duecentocinquanta euro, che è pur sempre una discreta sommetta. Cacciai rabbiosamente un’altra moneta nella feritoia, e di nuovo picchiai sul pulsante e di nuovo, ancora e ancora, i simboli girarono all’impazzata. C’erano almeno dieci tipi di simboli, dai re alle fate, dai bastoni alle fragole, e dovevano allinearsene almeno un paio per vincere da uno a dieci euro. Solo coi tre simboli allineati si vinceva, non con due, tre simboli allineati equivalevano, a seconda dei simboli, da cinquanta a cinquecento euro. Con cinquanta euro non risolvo nulla, mi dissi, ma se le vincessi per cinque o sei volte il discorso potrebbe cambiare. Con trecento euro non compreresti il Samsung che sogni da qualche mese, ma risolleverebbero la tua situazione. Hai debiti con Adolfo, un tuo vicino di casa, e ventidue euro li devi al fruttivendolo. Ma basterebbe che per una volta, una sola volta si allineassero tutti e tre i re col loro sorriso beffardo e l’armatura lucente e potresti comprarti il Samsung, e finalmente vedresti la TV come si deve, non più immagini ridotte e sbiadite con i colori sfuocati, no, il telegiornale lo vedresti in modo magnifico, e del volto di Mentana vedresti persino le borse sotto gli occhi e le rughe, e la domenica i campi di calcio risalterebbero in modo magnifico, l’erba sarebbe verdissima, l’hai già vista alla TV del bar dove vado spesso, la domenica, quando il Genoa gioca in trasferta, a vedere la partita. Insomma, la vita ti sembrerebbe sicuramente meno grigia e non avresti più il morale sotto ai piedi, o meglio il morale si fermerebbe alle caviglie, e non scenderebbe inesorabilmente. I tre rulli rallentarono la loro corsa, prima quello di sinistra dove, alleluia, si fermò un re, e poi il secondo re si allineò al suo compagno, e già esultavo dentro di me, già stavo per fare un salto col pugno chiuso, e il terzo rullo girava ancora, ed ecco il terzo re, e io assestai un pugno poderoso alla slot come per bloccare quel re, per inchiodarlo all’istante. Lui non aveva la mascherina, mentre io sì. E Gino, il tabaccaio, disse a voce alta, ehi, calmi, lì alle slot. E tu, Thomas, metti a posto la mascherina, mica voglio prendere una multa per colpa tua. Ma io quasi non lo sentivo, un mormorio incessante smorzava persino i pensieri, del resto il locale non era zeppo di clienti come una volta, ma nemmeno si poteva dire che fosse vuoto. Sistemai la mascherina sopra al naso, e fissai lo sguardo sul display, e solo quando vidi il terzo re scendere di una posizione sotto ai suoi simili assestai un calcio alla slot machine. Avevo speso tre euro, poca roba, ma avevo avuto modo di vedere che aria tirava. Tira una brutta aria, Thomas, pensai. Ogni sera i telegiornali lanciano notizie sempre più allarmanti, aumentano le terapie intensive e aumentano i morti. Epperò persone note come Briatore o come Berlusconi sono guarite nel giro di quindici giorni, e qualche giocatore del Genoa dei venti contagiati iniziali, può per fortuna tornare a giocare dopo neppure dieci giorni di isolamento. Sbattitene i coglioni e togli questa dannata mascherina che ti ammorba, pensai e subito mi tolsi la mascherina, o meglio la posizionai fra la gola e il mento. Dovresti smettere finché sei in tempo, sei pieno di debiti, ricordati, mi dissi. In genere capisci subito quando non è giornata, un mesetto fa quaranta euro le hai guadagnate, anche se le volte successive ce le hai lasciate abbondantemente con gli interessi, mi dissi mentre inserivo la quarta, poi la quinta e la dodicesima moneta. Mai che due simboli si allineassero. D’accordo che col gioco non si può mai dire, questo lo hai capito, basta solo un attimo, un pizzico di fortuna, e potresti vincere, e magari ti troverai ad aggiungere circa cinquanta euro ma alla fine il Samsung te lo porterai a casa. Devi sperare, pregare e sperare, mi dissi mentre infilavo nella feritoia prima la diciottesima, poi la diciannovesima moneta, ma nulla, i simboli parevano avercela uno con l’altro, per cui a un bastone si affiancava una fragola ma mai due bastoni insieme, mai due fragole che mi avrebbero permesso di incassare quattro euro, quattro euro che sarebbero stati una manna per risalire la china. Ormai era circa una mezz’ora che ero nella tabaccheria di Gino, nella quale ero tornato a comprare le sigarette e anche buste e francobolli e caramelle, avevo già perduto trentacinque euro, una rata della TV l’avevo perduta, pestavo la destra sul pulsante e i simboli vorticavano e non c’era nulla da fare, ancora una volta mi resi conto che avevo la stessa sfortuna di mio padre, per non dire quella di mio zio, entrambi giocatori incalliti sia pure di infimo livello, ed entrambi con le mani tragicamente bucate. Io non sono come loro, mi ero detto più volte, ma altrettante volte, dopo una pausa di riflessione, avevo dovuto riconoscere che non solo ero come loro, ma anche peggio, visto che loro un lavoro fisso lo avevano, mentre io no, io un lavoro fisso non l’avrei avuto mai, solo dieci anni prima, ossia prima che venisse introdotto l’euro, rovinandoci completamente, ma erano altri tempi. Allora c’era la lira che non sarà stata una moneta magnifica ma consentiva un livello di vita dignitoso, mentre adesso, di lavoro non se ne trovava quasi se non d’estate, come stagionale, nelle località di villeggiatura, tipo Rimini o Riccione. Ma quest’anno, per via del Covid, sono stato lasciato a casa e la zia Lina s’è fatta pure un pianterello. L’anno prima invece, prima che il Covid ci rovinasse misteriosamente l’esistenza, avevo tentato l’avventura, ma era stata un’esperienza terribile, devastante, che mi aveva lasciato prostrato in modo indicibile nel fisico e nel morale. La mia sola fortuna era l’esistenza di mia zia Lina, pensai mentre pestavo sui tasti della slot. Mia zia Lina mi allungava duecento trecento euro al mese che io, regolarmente, spendevo perlopiù al gioco, nella vana e illusoria speranza di moltiplicarli. Ma buona parte di quei soldi li spendevo in cose futili. Se avessi fatto una lista degli oggetti o elettrodomestici spesso inutili che avevo comprato sarebbe venuta fuori una lista lunghissima, che forse non sarebbe rimasta dentro un foglio A4. Perché non ti dai una regolata, Thomas, mi dissi mentre premevo e premevo il tasto, vincendo solo dieci euro e facendomi quasi esultare. Dovresti smetterla di spendere tutti questi soldi, mi dissi dando un’occhiata all’orologio da polso, un magnifico Sector No Limits, che mi era costato la bellezza di duecentotrenta euro. Premetto che io ho sempre giocato, ma da quando si era diffuso il Covid, da quando tutti i giorni il Presidente del Consiglio, il Ministro della Salute, i tecnici della Task Force davano voce a un bollettino di guerra segnalando i positivi, i guariti, i ricoverati in terapia intensiva e i morti, sentivo il bisogno di gratificarmi con svariati acquisti. Ma, onestamente, faceva effetto la cura? A essere sincero direi di no, il pensiero del Covid, di un virus che o prima o poi avrebbe potuto infettarmi, continuava a attanagliarmi la testa, anche se in modo più lieve rispetto ai mesi di Marzo, Aprile, Maggio quando il Covid si era scatenato e sembrava voler ghermire le nostre vite. L’obbligo di restare chiuso in casa mi aveva messo in ginocchio, ero vuoto, spaventato, indifeso, tanto più che non potevo entrare in un bar o in una sala giochi, come ero solito fare. In quel periodo orrendo ricordo di essermi sentito come se fossi in una camera di ospedale, mi mancava l’aria, come se i miei polmoni fossero in difficoltà, avevo persino pensato di sottopormi a un tampone. Però me l’ero sgamata, anche grazie a svariati giochi: il solitario, monopoli, gli scacchi. Accendevo il portatile e giocavo contro un avversario immaginario. E perdevo, perdevo, inesorabilmente perdevo. Sicché riuscivo a respingere la tentazione di giocare a poker o alla roulette, cosa parecchio dura visto che quel periodo mi era parso interminabile. Poi, un bel giorno ci era stata concessa la libertà di uscire, i negozi avevano riaperto, idem i ristoranti e i mercati. Non so voi, ma a me era parso tornare a rivivere, anche se gli altri problemi, la mancanza di un lavoro fisso e, con esso, la mancanza di una ragazza, continuavano a esistere e rovinarmi la vita. Dovresti avere più soldi, Thomas, mi dicevo ogni giorno. Solo i soldi potrebbero trarti fuori dall’abisso in cui sei caduto. Ma anziché guadagnarli, i soldi, li spendevo nel più bieco dei modi. Un giorno compravo una pianta per abbellire il mio poggiolo deserto, l’altro compravo una sciarpa del Genoa, il terzo un paio di forbici. I lavoretti che di tanto in tanto mi capitava di svolgere, come ad esempio il portiere di notte in sordidi alberghi nei vicoli, oppure lo scaricatore di frutta e verdura ai mercati generali, o ancora il fattorino per aziende che erano ben lontane dall’idea di assumere in pianta stabile del personale e si avvalevano di personale precario e variegato, non mi avrebbero mai consentito di soddisfare i miei bisogni. Quindi, in attesa che si compisse il miracolo e che qualcuno mi offrisse un posto di lavoro che mi permettesse di guadagnare uno stipendio decente, avevo bisogno di un colpo di fortuna e capivo, eccome se lo capivo, che per guadagnare una somma ingente avrei dovuto tentare altre strade, come il gioco del Totocalcio a cui, il Giovedì, mi dedicavo anima e corpo, o, ancor meglio, tentare la fortuna con la lotteria dell’Epifania. Compravo puntualmente biglietti su biglietti di gratta e vinci, ma non avevo mai vinto più di cinquanta euro. Chiaramente le mie risorse economiche, nonostante il generoso aiuto di zia Lina, non erano sufficienti a raggiungere i miei obiettivi, per cui avevo dovuto più volte ricorrere a quei santi della Agos, i quali, nonostante non avessi un lavoro fisso, mi avevano generosamente concesso prestiti su prestiti, grazie ai quali, momentaneamente, riuscivo a barcamenarmi. La voce delle operatrici della Agos mi era più familiare di quella di mia zia Lina. Capivo bene mio zio che era un noto scialacquatore, tanto che finì la sua esistenza in un ospizio per poveri dove aveva sì trovato un piatto di minestra da mangiare e un letto nel quale dormire, contentandosi di giocare cifre risibili con altri spiantati come lui. Alla fine, però, era morto solo come un cane, non assistito da nessuno, neppure da un prete, che pure lui odiava. Più o meno identica sorte aveva avuto mio padre che, è vero, aveva un lavoro fisso, ma il desiderio di un tenore di vita superiore alle sue possibilità, avevano indotto a cercare prestiti su prestiti. Capivo anche mia madre che, dopo anni di sofferenza, aveva letteralmente cacciato di casa suo marito, ossia mio padre, rinunciando al suo stipendio, costringendosi a svolgere lavori nelle case e ad assistere donne e uomini sì acciaccati e invalidi ma alla fin fine più in forma di lei. La nostra è sempre stata una famiglia che ha desiderato vivere al di sopra delle proprie possibilità, e alla fine si è irrimediabilmente rovinata, pensai pestando sui tasti della slot. Presto esaurii i cinquanta euro destinati a pagare una rata alla Agos, e allora fui costretto a chinare la testa, a umiliarmi chiedendo un prestito al tabaccaio che, sia pure con qualche perplessità e reticenza, mi concesse. Te li do al più presto, Gino, fidati, gli dissi. D’accordo, Thomas, però mi raccomando: non tirarmi il pacco. Tornai alla slot e di nuovo ingaggiai una lotta senza esclusione di colpi. Di tanto in tanto vincevo cinque o dieci euro, ma mai avevo la soddisfazione di vincerne cinquecento o mille, che era il massimo della cifra che quelle slot potessero elargire. Mi stavo accorgendo che il mio sogno di acquistare il Samsung quarantadue pollici grazie alla slot stava diventando una vera e propria chimera. Non ce la farai mai, Thomas, la sorte come al solito ti è avversa, mi dissi sistemando la mascherina sul naso. Dopo neppure mezz’ora fui di nuovo costretto a ricorrere alla generosità di Gino, il quale mi elargì altri cinquanta euro in monetine che riempirono un bicchierone di plastica. Mi battevo come un leone contro quella macchinetta mangiasoldi, ma lei non era generosa e altruista come Gino, lei era egoista e avidissima, ingurgitava i miei euro senza nessuno scrupolo di coscienza e senza neppure ringraziarmi, io a volte perdevo la pazienza e diventavo aspro, addirittura cattivo arrivando ad assestarle dei pugni ai fianchi per indurla a più miti consigli, mica chiedevo la luna, chiedevo solo cinquecento euro, non di più, neppure mille euro, solo cinquecento santa madonna, ma la slot era testarda, direi persino ottusa in questo diniego assoluto a voler elargirmi ciò che chiedevo. Ancora una volta ricorsi a Gino, e il buon Gino, pur non essendo entusiasta, mi riempì il solito bicchierone di monetine da uno o due euro, che io arraffai senza ritegno. Ma la slot era implacabile, era più forte di me e dei miei due compagni di gioco che mi erano a fianco, uno a destra l’altra a sinistra. Anche loro credo che non fossero molto fortunati, ma di tanto in tanto qualche loro urletto di gioia mi capitava di sentirlo, mentre io no, io mi inabissavo come mi ero sempre inabissato, il fondo è sempre stato il mio habitat, non il sole, la luce, la felicità, ma il buio, il fondo, l’oscurità. Mi sentivo come se fossi in croce, mentre la tabaccheria pullulava di clienti i quali parlavano a voce alta, scoppiando in qualche risata, compravano sigarette, gratta e vinci, buste e francobolli, caramelle, dimentichi di me, della situazione tragica in cui mi trovavo. Ti comporti proprio come si sono sempre comportati papà e lo zio Stefano, anzi, forse sei anche peggio, meno male che c’è zia Lina, l’unica mosca bianca in famiglia, visto che lei è costruttiva, positiva, risparmiatrice e generosa. Se non ci fosse lei sarei già in mezzo a una strada a chiedere l’elemosina, sarei a un angolo di strada a sperare nel buon cuore dei passanti, invece grazie a lei sono qui, ostinato, stupidamente ostinato, anche se ormai ho capito benissimo che la TV Samsung dovrò scordarmela e rimandarne l’acquisto ancora una volta. Ero talmente assorto nella lotta contro la slot che non sentivo più niente: sparì il brusio dei clienti, non vedevo più i compagni di gioco al mio fianco. Vedevo solo i simboli che ruotavano e ruotavano ma mai, dico mai, si allineavano. Eravamo soltanto io e la slot in una sorta di lotta all’arma bianca. Avevo già le ginocchia per terra, e forse mi sarei abbattuto sul pavimento se non avessi sentito un colpetto sulla spalla. Thomas, adesso devo chiudere, mi disse Gino con benevolenza. Mi staccai dalla slot con sofferenza. Mi raccomando, Thomas, ricordati i soldi che mi devi. Certo, dissi come in trance. Ero in uno stato di avvilimento che conoscevo, ma che ogni volta che mi piombava addosso faceva danni. Uscii dalla tabaccheria dicendomi: sei proprio come tuo padre e tuo zio, Thomas, forse anche peggio. Sei inguaribile. Se zia Lina sapesse cosa combini con i suoi soldi, ne avrebbe un dolore indicibile. Mi accesi una sigaretta, indeciso sul da farsi. Andarmene a casa o… Non volevo rinunciare al Samsung. Mi venne in mente il bar in fondo a via Bertuccioni. Anche quel bar, lo ricordavo bene, aveva le slot. Non esitai un attimo e, tirandomi giù la mascherina, imboccai la discesa.
Molto molto coinvolgente e attuale. Ti pare proprio di vedere il ludopatico Thomas, e alle sue spalle la triste genealogia familiare, solo, scazzato con tutto reso ancor più fosco dalla pandemia, il bavaglio e le limitazioni. Perso in una guerra che non vincerà, non potrà vincere mai. I suoi pensieri sono i pensieri, rispetto al covid, che hanno attraversato in questi lunghissimi mesi la mente di tanti. E sono stati resi con notevole efficacia.
È un racconto molto scorrevole, che si legge d’un fiato. La personalità di Thomas descritta con molta precisione e finezza psicologica, sembra quasi la sceneggiatura di un film. La sua debolezza suscita tenerezza, ma allo stesso tempo anche rabbia perché si capisce che non riuscirà a vincere la sua dipendenza e al contrario ne sarà sempre schiavo, nonostante la sofferenza che questa consapevolezza gli provoca. Un ritratto umano molto ben costruito. Bravo Andrea!