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Diario della pandemia dall’Himachal Pradesh #5

di R. Umamaheshwari 

R. Umamaheshwari è una storica e giornalista che vive in India. Ha pubblicato When Godavari Comes: People’s History of a River (Journeys in the Zone of the Dispossessed), Aakar Books, New Delhi, 2014; Reading History with the Tamil Jainas: A Study on Identity, Memory and Marginalisation, Springer, 2017 e From Possession to Freedom: The Journey of Nili-Nilakeci, Zubaan, New Delhi 2018. Un anno fa ha cominciato a scrivere un diario della pandemia dall’Himachal Pradesh che pubblichiamo a puntate. Qui la prima, qui la seconda, qui la terza, qui la quarta. Quella che segue è la quinta.

 

Raccoglitori di immondizia in una Metropoli

Lakshmi e Gopal, che appartengono alla comunità dei Madiga (il rango più basso del sistema delle caste) lavorano come raccoglitori di immondizia a Hyderabad, il posto in cui stavo. Sono venuti in città da Perivili, un villaggio a circa cento chilometri da Kurnul (nella regione Rayalaseema dell’Andhra Pradesh), più o meno quindici anni fa.

Inizialmente lavoravano come lavoratori occasionali, disposti a fare ogni tipo di lavoro (portare carichi di sabbia, ghiaia, etc. per siti di costruzione, o altri singolari lavori), ma il lavoro non arrivava ogni giorno. Così circa dieci anni fa hanno deciso di diventare raccoglitori di immondizia, perché pensavano che questo lavoro avrebbe dato loro un reddito più sostenibile.

Hanno cominciato con un risciò spinto a mano, e poi hanno comprato un pick-up di seconda mano. Il padre di Gopal è un contadino senza terra tornato al suo villaggio. I figli della coppia, tre di loro, sono nati a Hyderabad. Nessuno di loro va a scuola. Non c’è un commento che non suoni retorico: povertà nera, nonostante le scuole pubbliche che offrono istruzione gratuita. Ci sono infatti altre spese, correlate al mandare i figli a scuola. E questo non riguarda i loro figli.

Questa coppia, come molte altre, non ha un conto in banca e, per qualche ragione, neanche una carta di razionamento (nella città…ce l’hanno invece nel loro villaggio). Così i dodici chili di riso forniti ai poveri dal governo dello Stato (del Telangana, poiché Hyderabad è la capitale del Telangana) non li ha raggiunti.

Vivono in una baraccopoli, in una località chiamata Moulali, dove la maggior parte della gente è impegnata nella stessa attività: pulire le strade e raccogliere l’immondizia o gli stracci. Per inciso, questo particolare posto è stato identificato come una zona rossa del Covid, ed è stato isolato. Una località con una popolazione per lo più musulmana, che era stata blindata dopo che, a quanto pare, pochi residenti del luogo, che avevano partecipato a un raduno di Musulmani a New Delhi a metà marzo (il Tablighi Jamaat) erano stati trovati positivi ai controlli. Questa località ha così idealmente seguito lo stesso destino di altre località ovunque in India, con relativa popolazione musulmana, nell’essere dichiarata zona rossa, man mano che i partecipanti al meeting di Delhi venivano testati e trovati positivi ai tamponi.

Una delle caratteristiche delle zone rosse è che il coprifuoco è totale. Alle persone non è consentito di uscire di casa per nessuna ragione al mondo. Ma questo non vale per Lakshmi e Gopal, perché senza di loro, dopotutto, la spazzatura della middle class si accumulerebbe in alte pile e causerebbe problemi igienici per gli abitanti della zona. Il fatto che Lakshmi e Gopal rischino di contrarre così il Coronavirus non disturba il governo o le persone di cui sono al servizio.

L’unica apparente precauzione è che seguono un percorso “alternativo” molto presto al mattino (partono circa alle cinque per il loro giro). Raccolgono la spazzatura dalle case singole, la vuotano nel loro pick-up, a giorni alterni, e vengono pagati appena cento rupie al mese. Non molto tempo fa, la paga era addirittura ottanta rupie. E molte volte la gente non li paga neanche regolarmente. Lakshmi mi dice che in questi giorni alcuni dei suoi clienti (gente della middle class che vive in case di proprietà) le dicono di non aver ricevuto il proprio salario, e perciò di non potersi permettere di pagarla. La coppia raccoglie spazzatura indifferenziata da circa duecento abitazioni al giorno in questa località e la scarica nella località pattuita. In un’altra località operava Rajesh, insieme a sua madre e a un fratello maggiore immancabilmente ubriaco, che faceva lo stesso lavoro, anche per meno: cinquanta reali al mese che, anche qui, molti rifiutavano di pagare se loro saltavano un giorno.

Rajesh amava Malli, che lui per qualche ragione chiamava Bunny, e allo stesso modo lei amava lui e aspettava una veloce carezza di Rajesh sulla testa, dato che la nostra passeggiata coincideva di solito con i suoi turni di lavoro.

Ispirato da Malli, anche Rajesh si era preso un cagnolino, se ne curava teneramente e lo amava senza confini. Molte volte, Rajesh mi raccontava che cosa significava per lui arrivare alla discarica e tirare fuori la spazzatura da pile maleodoranti (in un posto chiamato Keesara, che ha due poggi o alture: uno di spazzatura, e un altro che è un antico tempio per Siva). Rajesh e sua madre dopo un po’ avevano preso in affitto un pick-up da un contractor. Metà dei soldi che guadagnavano servivano a pagare il noleggio mensile.

Anche in tempi normali, questi raccoglitori di spazzatura non ricevevano le protezioni pattuite: guanti, uniformi, un paio di stivali dignitosi e mascherine. Non avevano neanche posti per lavare le mani e i piedi dopo lo scarico della spazzatura in discarica. Pochi anni fa, la municipalità ha distribuito dei contenitori per l’immondizia grigi e blu ai proprietari per differenziare in casa i rifiuti biodegradabili, l’umido e quelli non biodegradabili prima di darli ai raccoglitori. Ma in verità pochissimi lo facevano. Così tutta la spazzatura finiva nello stesso contenitore. E così Rajesh e la gente come lui finivano per differenziarla di volta in volta all’arrivo in discarica. Interpellato, lo staff della municipalità se l’era presa con quelli come Rajesh o Gopal e gli altri, colpevoli di non usare le protezioni, anche se erano state loro distribuite.

Ma oggi, con il Covid 19 in corso, molti di questi raccoglitori di spazzatura non hanno ancora ricevuto le protezioni di cui necessitano non meno degli operatori sanitari. Lakshmi mi racconta che alcuni di loro avevano anche scioperato per ottenere protezioni, ma erano subito stati avvisati che, se non avessero raccolto la spazzatura (che è considerato uno dei Servizi Essenziali), i loro “lavori” sarebbero stati dati a qualcun altro. Potevano scegliere. Finalmente alcuni di loro si erano dovuti comprare maschere e guanti (equipaggiamento minimo, da prendere nei negozi vicino casa loro) dopo una lunga attesa, e avevano dovuto usare quelli.

Lakshmi mi racconta anche che alcune donne rifiutano di toccare i bidoni della spazzatura e aspettano che sia lei ad andare a prenderli dalle loro case, a vuotarli e a riportarli indietro. Mi chiede: “Qual è il senso di ‘tenere le distanze’? A casa non c’è spazio; e la gente di cui raccolgo la spazzatura non ci aiuta quando diciamo che abbiamo paura di entrare nelle loro case. Ma cosa possiamo fare? Questo è il nostro destino. A nessuno importa di noi. In alcune colonie ho visto gente che dava cibo e mance ai raccoglitori di spazzatura. Ma noi non siamo fortunati”.

Questi sono i più poveri dei poveri della città. E il loro lavoro durante la pandemia è esemplare e dovrebbe essere rispettato. Ma non sono neanche annoverati tra i “Guerrieri del Coronavirus”. Semplicemente non appartengono alla narrazione sul Covid, e il loro lavoro è un lavoro nascosto ai margini, e persino la loro salute sembra essere meno preoccupante per la locale municipalità. In netto contrasto col resto: ho notato ad esempio che il personale che si occupa della pulizia delle strade a Shimla lavora con guanti, stivali e mascherine, forniti loro dal dipartimento della municipalità per cui lavorano.

Per inciso, già da molti anni Shimla (e lo stato dell’Himachal) avevano bandito l’uso della plastica, ed erano stati previsti dei bidoni coperti per smaltire l’immondizia (progettati così anche per evitare che scimmie e cani frughino tra i rifiuti). Bidoni che sono svuotati regolarmente, quando addirittura non quotidianamente. Durante il lockdown, pochissimi di questi operatori ecologici sono stati lasciati al lavoro (con mascherine) e essi probabilmente lavorano a rotazione.

Jagganadham, un uomo di circa cinquant’anni, è venuto a Hyderabad come molti dal suo villaggio vicino Palasa, nella parte settentrionale della regione dell’Andhra Pradesh, a cercare lavoro, quando l’agricoltura di quella regione, molti anni fa, è stata messa in ginocchio da lunghi periodi di siccità. Lui fa lavori manuali, quelli che gli capitano di tanto in tanto, di solito nei cantieri, quando qualche contractor lo ingaggia. Talora c’è lavoro disponibile ogni giorno, come quando è stato assunto in un cantiere che rinnovava un tempio. Un lavoro di alcuni anni. Con l’edilizia ormai praticamente ferma, non può far altro che stare seduto ad un angolo di strada ad aspettare la chiamata di qualcuno.

Il lockdown significa niente lavoro, ovviamente. Comunque, sua moglie lavora come guardiana in uno degli appartamenti di questo quartiere di Secunderabad, che è per lo più abitato da gente della middle class, o anche di classi inferiori. Hanno una minuscola stanza nel complesso. Lui vive con sua figlia e suo genero, che lavora come lavoratore giornaliero. Suo genero (Koti) lavora anche per suo fratello (Tirupati) che ha cominciato a fare il pittore, e a poco a poco negli anni è diventato un semi-contractor, e quindi ha cominciato a salire la scala sociale.

Jagannadham dice che il lockdown ha significato per lui zero entrate negli ultimi due mesi. Per quanto riguarda i dodici chili di riso che il governo del Telangana ha promesso per i poveri e i lavoratori giornalieri, questa famiglia, che viene dall’Andhra del nord, non ne ha diritto. E questo benché essi posseggano la cosiddetta Aadhar card, iniziativa del precedente governo del Congresso, volta a dare un numero unico ad ogni cittadino, apparentemente al fine di facilitare l’accesso alle iniziative governative, come anche di scoraggiare comportamenti scorretti. Un provvedimento sottilmente imposto alla gente durante il secondo governo dell’ UPA (United Progressive Alliance), poi consolidato dall’attuale governo.

Molti come Jagannadham erano felici di possedere la Aadhar card. Ma, quando era andato a procurarsi i dodici chili di riso dal negozio addetto alla distribuzione pubblica, era stato rimandato indietro a mani vuote, perché gli avevano chiesto di presentare la sua carta di razionamento PDS (un sistema di differenti colori per identificare la soglia di povertà e gli altri livelli, e offrire una porzione fissa di riso, olio, zucchero e lenticchie come sussidio); e la sua carta di razionamento era ancora nel suo villaggio nel nord Andhra, dove sua madre ne fa tuttora uso per il suo bisogno mensile.

Quando un bel giorno il Chief Minister dell’Andhra Pradesh, che vive a Hyderabad, ha annunciato che avrebbe fornito cinque chili di riso ai poveri dal suo Stato (Andhra), Jagannadham è rimasto per ore in fila nella sua località. Ma quando è venuto il suo turno, lo hanno rimandato indietro senza riso, poiché la sua Aadhar card aveva l’indirizzo locale di Hyderabad e poiché lui era uno di Telangana, e questo riso era destinato soltanto ai poveri dello Stato dell’Andhra, la sua richiesta era contraria allo spirito del provvedimento.

Bisogna ricordare che lo Stato del Telangana è stato creato nel 2013, dopo un lungo ed estenuante conflitto. Prima era uno Stato unito all’Andhra Pradesh[1]. Anche la povertà e la natura della distribuzione della carità, perciò, è politicamente motivata e governata, durante il Covid, o durante altre crisi come le calamità naturali, le inondazioni, etc.

 

Una diversa osservazione sui lavoratori migranti nell’Himachal.

 

Essendo una regione montagnosa, per lungo tempo questo Stato doveva importare il lavoro manuale da fuori. Già le storiche strutture coloniali di Shimla testimoniano l’uso del lavoro manuale importato. La città di Shimla, per inciso, ha un gran numero di persone provenienti dal Nepal e anche dal Kashmir, che lavorano come uomini di fatica. Molti lavorano in negozi dove i titolari forniscono loro un minimo di cibo e alloggio.

Qualche anno fa, nel 2015, ho incontrato lavoratori provenienti dal Jharkhand che costruivano un monastero buddista a Tabo in Spiti. I lavoratori dello Jharkhand lavorano anche per committenti privati che devono costruire case a Tabo e in altri villaggi dello Spiti. Nel villaggio di Kibber si trovano molti ragazzi dello Jharkhand che vivono con le famiglie, pascolando il loro bestiame o costruendo case, o aiutando nell’agricoltura.

Anche nei villaggi più remoti, ai lavoratori edili è offerto cibo e alloggio dal contractor o dal padrone di casa che gli commissiona il lavoro. Molti di questi lavoratori tornano nei loro Stati di origine solo per pochi mesi, mentre rimangono in questo Stato per la maggior parte del loro tempo. In città come Shimla, alcuni vivono in affitto in piccoli appartamenti che condividono. Ma nei villaggi, essi vivono nelle famiglie o vengono loro fornite delle stanze nei dintorni. Un gran numero di lavoratori impegnati nei progetti stradali del governo vengono dallo Jharkhand e dal Rajasthan, e si possono vedere abitualmente baracche lungo le autostrade regionali e nazionali, dove i cantieri stradali sono aperti. Attualmente molti di questi lavori sono bloccati. Alcuni sono forse ripresi, ma la fornitura di cibo e di un riparo sembra essere ridotta al minimo per i lavoratori immigrati in questo Stato.

Ecco perché il livello di ansia e l’esodo di massa cui abbiamo assistito, di lavoratori migranti che lasciano le città di Delhi, Mumbai e Bengaluru, talvolta con viaggi di migliaia di chilometri, per raggiungere casa, da queste parti non si sono visti. Eppure, ci sono sicuramente casi di alcuni contractor che hanno lasciato che i loro lavoratori se la cavassero da soli, poco prima che il lockdown fosse annunciato.

E questo anche se è difficile trovare un lavoratore manuale senza riparo da queste parti, sia perché il lavoro è molto richiesto, sia perché trovare lavoratori per lavori estenuanti, che ti rompono la schiena, come costruire edifici in terreni collinari, richiede l’instaurazione di relazioni reciproche. Relazioni che talora sono a lungo termine, considerando che ci vuole molto tempo per completare progetti qui, piuttosto che nelle aree urbane pianeggianti, a causa delle condizioni atmosferiche ostili (neve, pioggia, frane, blocchi stradali, etc.).

Perdere un lavoratore non è un’opzione, come nelle grandi città, dove il lavoro è inflazionato a causa del largo numero di persone disponibili per prestazioni occasionali, e dove perdere una persona non ha particolare importanza. I contractor di Hyderabad o di Delhi, per esempio, solitamente non si prendono la responsabilità di alloggiare e nutrire i lavoratori manuali che essi ingaggiano per i loro progetti. E neanche pagano i loro affitti. Molti che lavorano come facchini nelle stazioni di Delhi vivono in condizioni davvero disagiate, e potremmo dire drammatiche. È stato sempre così, almeno finché il virus non ha costretto i media e i governi a prendere atto di questa situazione.

 

 

18 Aprile 2020. Morire di lavoro versus morire di virus versus morire di fame.

 

Ricardo Laussman scrive “Anche se le nazioni sviluppate vogliono appiattire la curva, non avranno la capacità di farlo. Se la gente deve scegliere fra un rischio di morte del dieci per cento, quando va a lavorare, ed una sicura morte di fame, se invece resta a casa, sarà costretta a scegliere il lavoro” [www.behaviouralscientist.org – ultimo accesso: April 18].

Quando la gente è partita per tornare a casa, camminando per migliaia di chilometri (specialmente uomini, o famiglie), forse pensava di avere più speranze di sopravvivenza nei propri villaggi piuttosto che nelle città dove era andata a lavorare fino ad allora. E non temeva di morire in viaggio; voleva semplicemente scappare dalle città dove forse pensava che sarebbe morta di fame.

In secondo luogo, come ho detto prima, questo particolare momento storico gira intorno al lavoro (soprattutto quello agricolo) che la gente pensava di trovare nei villaggi piuttosto che nelle città, colpite dal lockdown, in base al sistema nazionale dell’impiego rurale garantito, del Mahatma Gandhi. Un sistema che era stato messo in atto durante la precedente legislatura dall’United Progressive Alliance, e che prevedeva lavoro garantito per cento giorni a persone con una carta di lavoro nei villaggi. Così era forse pratico raggiungere a piedi non solo la casa base nel villaggio, ma anche trovare un possibile lavoro da fare, piuttosto che patire la fame, senza lavoro, in città.

 

 

19 aprile 2020. Osservazioni a casaccio.

 

In questo intero periodo di crisi, il settore pubblico e i servizi nazionali sono stati di grande aiuto in tutto. Non molto tempo fa, alla fine dell’anno scorso, il governo indiano aveva provato ad accelerare il processo di privatizzazione della compagnia di bandiera, Air India. Ma in questo intero periodo di pandemia, è stata proprio questa compagnia a trasportare medicine, dispositivi di protezione e beni essenziali, ed anche a riportare indietro gli Indiani dalle altre nazioni in cui erano rimasti bloccati.

Le ferrovie indiane[2] (che sembravano avviate allo stesso destino) sono state ugualmente di grande aiuto nell’assicurare servizi essenziali, tra cui la fornitura di dispositivi di protezione e di vagoni ferroviari, utilizzati come spazi per l’isolamento dei malati. Le ferrovie hanno persino assicurato il trasporto di un intero plotone di reclute dell’esercito nel bel mezzo del lockdown.

Ed è il servizio postale pubblico e i dipartimenti delle poste, che hanno pagato le pensioni agli anziani (nello stato dell’Himachal i postini portano le pensioni porta a porta nei villaggi) e fornito il servizio giornaliero di consegna per medicine, trasferimenti di denaro tra Stati e territori. In alcune aree rurali, gli uffici postali sono persino serviti da banche. Il sistema postale indiano (messo in piedi durante l’epoca coloniale britannica) continua a servire anche i più remoti villaggi sulle più alte montagne.

Ho assistito inorridita, su un canale televisivo di news, a gente (lavoratori migranti che entravano in città) che veniva irrorata, come misura di “sanificazione”. Fortunatamente, le news della radio riportano che il governo ha emesso un severo divieto di farlo, ed è stato interessante che questo divieto ufficiale aggiungeva che questa pratica di spruzzare i corpi era nocivo sia da un punto di vista fisico che psicologico. Notevole per un provvedimento governativo! In ogni caso, le raccomandazioni sono realmente seguite sul campo? Forse dipende da chi è al timone in ogni Stato e consiglio locale.

 

Il virus ha una religione, una razza, una casta, un genere, una classe?

 

Osservo il tenore dei discorsi sui canali televisivi, dopo un raduno di uomini musulmani (il Tablighi Jamaat) tenuto a Dehli, nel quartiere di Nizamuddin, nel mese di marzo. Secondo le fonti governative, circa 8000 stranieri sono intervenuti all’evento, e ci si chiede come il Governo abbia permesso loro di assistervi, benché provenissero da Stati in cui il Covid era già molto diffuso, come Malaysia e Indonesia.

È stata anche sollevata la questione degli screening aeroportuali, in questo caso come in altri. Si è detto infatti che il Covid si è esteso ad altre parti del Paese, non appena le persone hanno cominciato a tornare nei loro Stati di provenienza. Mentre il governo ha iniziato a tracciare la gente che ha partecipato all’evento, e a mettere alcuni di loro in quarantena nei loro rispettivi Stati, alcune persone, sui social network, hanno cominciato a gridare alla corona jihad e ad insinuare che alcuni musulmani volessero diffondere il virus di proposito. E per finire, sono stati supposti collegamenti bizzarri tra l’intero episodio e la Cina o il Pakistan.

Nello stato dell’Himachal Pradesh, inoltre, dove la popolazione musulmana è davvero minima, se paragonata al resto degli Stati dell’India, i villaggi che ospitano qualche famiglia musulmana sono stati costantemente sul chi vive, per scoprire chi avesse partecipato all’evento religioso e per metterlo in relazione con i casi di Covid. Ma le news regionali sulla radio sono state abbastanza accurate nel dare i numeri delle persone risultate positive o negative al test.

Nello stesso periodo, per i distretti dai quali la gente era partita per assistere all’evento è stato proclamato l’ “allarme rosso”, e alcuni dei villaggi sono stati blindati, in base all’emergere di alcuni casi di coronavirus. Per inciso, molti dei distretti dichiarati “zona rossa” (Covid hotspot) hanno poche famiglie musulmane che vi risiedono.

È difficile avere un quadro complessivo della realtà di questo discorso senza avere un’informazione “sul campo”, che sia a contatto diretto con il territorio. Comunque, per i media che hanno abbondanti risorse e reporter, potrebbe valere la pena fare un esame più approfondito sul perché sembrerebbe esserci una strana corrispondenza tra zone rosse e aree residenziali musulmane in città come Hyderabad o Delhi, o ancora in certe città del Tamil Nadu e altrove. Nell’Himachal Pradesh il discorso religioso si è comunque estinto relativamente prima che in altre parti del Paese, a causa della minore incidenza del Coronavirus.

È stato però intrigante sentire il Primo Ministro commentare, in uno dei suoi discorsi, che il Coronavirus non guarda religione o casta. Probabilmente, se questa dichiarazione fosse stata fatta prima, nei giorni in cui è uscita la notizia dell’evento di Delhi, forse sarebbe stato risparmiato ad un’intera comunità il sordido pregiudizio con cui ha dovuto confrontarsi, per un evento al quale molti di loro non erano neanche andati o per il quale avevano persino potuto provare fastidio.

Si sarebbe peraltro dovuto indagare su altri simili eventi organizzati da altri gruppi religiosi, quando fossero stati trovati in difetto rispetto alle regole. Come ad esempio un incontro religioso Sikh tenutosi in Punjab, e del quale la radio nazionale ha dato notizia, dove era stata trovata una persona che aveva contratto il virus. Anche in questo caso la località era stata messa in quarantena dal governo del Punjab. Ma il fatto non aveva avuto la stessa copertura mediatica costante e massiccia dell’evento di Delhi.

È una prova della possibilità di usare il Coronavirus come un pretesto per prendere di mira particolari gruppi di persone, o particolari comunità, in tutto il mondo. E per accrescere il pregiudizio razziale e gli attacchi alle persone.

È la logica del “colpevole fino a prova contraria”, e i numerosi meccanismi di intelligenza artificiale messi in opera al giorno d’oggi possono essere usati per colpire allo stesso modo qualunque stato nel mondo che venga scelto come bersaglio in quel particolare momento. E questo è un modo di colpire le persone non direttamente, in termini di disagio, ma anche indirettamente, in termini di lockdown o di zone rosse imposte a caso in giro per il mondo, in periodi successivi e per differenti ragioni.

[1] Lo stesso Andra Pradesh fu creato nel 1956, dopo una lotta che aveva come obiettivo la separazione da Madras. L’Andra Pradesh è governato dalla maggioranza di governo del partito denominato Y.S.R. Congress. Il suo primo ministro è Y.S. Jaganmohan Reddy. Il Telangana, invece, è governato dal leader del Telangana Rashtra Samiti, il cui nome è K. Chandrasekhara Rao.

[2] La parziale privatizzazione delle Ferrovie Indiane, a causa della nuova politica di aumento dei prezzi, ha reso progressivamente inaccessibile la rete ferroviaria alla gente comune, la maggior parte della quale usa le ferrovie indiane per viaggiare nel Paese, e anche per trasportare beni attraverso questa rete.

(traduzione di Rosario G. Scalia; foto di R. Umamaheshwari)

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jamila mascat
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Jamila M.H. Mascat vive a Parigi e insegna presso il dipartimento di Cultural Studies dell'Università di Utrecht, in Olanda. Si occupa di filosofia politica e teoretica, marxismo contemporaneo, critica postcoloniale e teorie femministe. Nel 2011 ha pubblicato Hegel a Jena. La critica dell'astrazione. Ha co-curato Femministe a parole (2012); G.W.F. Hegel, Il bisogno di filosofia. 1801-1804 (2014); M. Tronti, Il demone della politica (2017); Hegel & Sons. Filosofie del riconoscimento (2019); The Object of Comedy. Philosophies and Performances (2020); A. Kuliscioff, The Monopoly of Man (2021).
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