Ringo
di Walter Nardon
«Che cosa vuoi che ti dica?» fece Erin, «è stato come trovarsi in un hangar, davanti a una tenda di velluto nero. Ho spostato appena la tenda con la mano ed è apparsa un’aula colossale, scura e vuota, dove mi sembrava di sentir risuonare il respiro di mio padre sempre più fioco. L’impressione è stata quella di restare chiusa per giorni e giorni in questa sala, anche quando il respiro di mio padre ormai non c’era più, senza la possibilità di potermi spostare o uscire per tornare all’aperto».
Erano sedute su una panchina del parco. Vicino a Sandra, la borsa di carta che conteneva gli stivali comprati da poco all’Outlet.
«Sono rimasta quasi due mesi in quelle condizioni, perciò so cosa sta passando per la testa di Rita». La madre di Rita era morta dieci giorni prima. Erin aveva potuto osservare l’amica nella fragile esibizione di una calma forzata, che certo non aveva mantenuto quando sua madre era viva, poiché le affinità caratteriali, espresse in punti di vista tanto divergenti, avevano fatto lievitare fra loro un’asprezza che aveva disseminato di imprevisti emotivi parecchi incontri familiari.
«Deve reagire,» proseguì Erin, «è inutile che si affanni intorno alla memoria di sua madre. Sta sempre in casa. Ne ha fatto un culto che tra poco troverà incomprensibile».
«Sì, avrebbe fatto meglio a venire con noi, tanto Enrico sa arrangiarsi da solo: si è arrangiato quando era piccolo, vuoi che non lo faccia adesso?»
Per Erin la concretezza era una delle doti migliori di Sandra. Negli anni relativamente recenti della loro conoscenza aveva acquistato un’affidabilità che non necessitava di troppi argomenti: possedeva una certa capacità intuitiva, che si accompagnava a un’inattesa predisposizione per la frivolezza, determinante per contrastare la regolarità del suo impiego amministrativo.
«Forse è il caso che insista anche Fabrizio», disse Erin.
«Sicuro, e Fabrizio sa benissimo di cosa si tratta»
«In che senso?»
«Intendo, per la sua storia»
Erin si girò.
«L’ho saputo per caso da una sua ex-compagna di classe», disse Sandra, «Fabrizio aveva finito da poco l’istituto per geometri quando è rimasto orfano di padre. Non ha potuto proseguire gli studi perché ha dovuto prendere in mano l’azienda di famiglia, forniture idrauliche. Te la faccio breve. Suo padre aveva due soci e tre dipendenti, tutti esperti di faccende pratiche. Così ci si è messo d’impegno e per due anni le cose sono andate avanti in modo accettabile. Poi uno dei soci ha litigato e ha sbattuto la porta, tirandosi dietro due dipendenti. Così Fabrizio ha dovuto cercare di affiancarsi agli altri, con scarsi risultati. Soldi per assumere almeno un altro dipendente non ne aveva e così si sono trovati in ritardo su tutto, cercando di subappaltare vari lavori, e naturalmente facendolo di nascosto, perché i committenti non venissero a saperlo (sperando poi di evitare i controlli). Insomma, per finirla, ha tirato avanti un altro anno e mezzo, poi ha dovuto chiudere. E si è trovato nei casini, con gli anni della sua vita in cui avrebbe potuto studiare spesi per una buona causa, aiutando la famiglia, ma spesi male, se dobbiamo guardare a come è andata a finire».
«Sapevo che aveva passato qualche difficoltà, ma non i dettagli».
«Beh, io ho saputo solo questo, non so se ci sia dell’altro».
«Certo ora alcune cose si fanno più chiare,» fece Erin, «però per lo studio mi sembra che abbia proseguito».
«Sì, con fatica,» riprese Sandra «ormai era un po’ fuori dal giro, i compagni lo avevano lasciato indietro. Si è iscritto a Economia e Commercio dove ha fatto, credo, tre anni da studente lavoratore. La laurea breve, insomma, quella che non serve a niente. Poi è arrivato in Coltelleria e si è fermato, nel senso che con Tebaldi si è trovato bene. Ha aspettato un altro anno e poi ha ripreso. Ora credo stia per finire».
«Sì, del resto Tebaldi è uno che di fatto non dirige neanche più il negozio, ma si dedica ai suoi investimenti».
«Credo che sia per questo che è rimasto. Tutta quella cortesia eccessiva che ti squaderna quando fa il commesso, in fondo è solo un mezzo per coprire altri interessi. Sta prendendo lezioni da Tebaldi, è chiaro. D’altra parte, vuoi dargli torto? Nella vita ne ha già passate tante. Comunque, dicevo, questo potrebbe anche essere un vantaggio per Rita».
«Sì, se si dà da fare. Ovviamente non è che non capisca quello che sta passando, ma questo è una cosa, un’altra è invece il modo in cui decide di reagire. E dipende da lei».
«Completamente d’accordo, te l’ho già detto. Ma dobbiamo sbrigarci», disse Sandra, «sono quasi le quattro. Non vorrei arrivare tardi all’appuntamento».
Si alzarono e presero la via più breve per gli Uffici comunali.
Sandra doveva risolvere una seccatura. Doveva andare a registrare il cane di sua madre in Municipio, un volpino che, anche in un confronto fra i pari della sua specie, a Erin era sempre sembrato un idiota: Ringo, infatti, dallo sguardo esultante, abbaiava con la stessa partecipazione emotiva davanti a una sorpresa, al passo incerto di Rosario – il pensionato vicino di casa di Sandra che lo avvicinava per accarezzarlo – oppure di fronte al più insidioso dei pericoli. Abbaiava infaticabilmente davanti alle varie manifestazioni del creato emettendo un suono secco, breve, nel quale non era dato farsi largo con un’interpretazione, come avviene invece nella maggior parte dei casi, con i cani. Così, nel suo modo di stare al mondo aveva preso forma un’espressione pigramente elementare del pensiero binario: o taceva, oppure abbaiava nell’unico modo che conosceva. E il fatto è che, come detto, taceva poco. La povera Carmen, la madre di Sandra, trascinata dall’entusiasmo canino per le vie del centro doveva ogni volta cercare di giustificarlo, in particolare di fronte alle sue amiche, di cui Ringo in ogni occasione trovava ingegnosamente modo di mettere alla prova la pazienza in circostanze delle quali, se non altro, si poteva apprezzare la varietà. C’è da dire che, osservandolo sfiancato al termine di queste imprese intorno alle caviglie delle amiche, Ringo sembrava sempre davvero orgoglioso.
Naturalmente i conflitti non gli mancavano. Fra i suoi tanti nemici giurati, il peggiore era un pupazzo di plastica con le sembianze di giovane cow-boy posto di fronte al Bar Avalle, che peraltro svolgeva con umile efficienza le sue funzioni di distributore a gettoni di caramelle per la gioia dei più piccoli e l’accondiscendenza un po’ affaticata delle madri. A Ringo però, chissà perché, tutta quella concordia dispiaceva. E così le sue migliaia di rauche proteste quotidiane sembravano incrinare perfino l’espressione perennemente serena del pupazzo il cui sguardo, secondo Erin, negli ultimi tempi si era rabbuiato.
Sandra non apprezzava poi troppo il cane, ma visto che sua madre era sola e che ormai gli si era affezionata, dopo un periodo di prova aveva deciso di farlo registrare all’anagrafe canina per ottenere la targhetta da attaccargli al collo.
«Sono contenta per tua madre,» disse Erin, mentre affrettavano il passo, «ma per me quel cane rimane un deficiente».
«Sì, il fatto è che non c’è niente da fare, né con lui – non a caso la padrona precedente lo aveva riportato al canile – né con mia madre, che dice che è solo e che tutto sommato al mondo ci vuole pure qualcuno che se ne occupi. Dico, adesso che poteva un po’ tirare il fiato si prende in casa uno scemo come questo? Ma te l’ho già detto, è inutile. Ho detto a mia madre che va bene, purché me lo tenga fuori dalle palle».
«Rita ieri proponeva di fargli conoscere il cane di Frankie».
«Ah, ecco, questa sarebbe un’idea», disse Sandra aprendo la porta degli Uffici Comunali.
«È stato l’unico momento in cui si è un po’ ripresa» disse Erin, «che poi, se pensi ad Ada, non è che con Rita ci sia mai andata proprio leggera. Non aveva legato neanche con Enrico, tranne che negli ultimi tempi. I bambini in fondo non le piacevano. Non ha mai perdonato a Rita di averne avuto uno tanto presto».
Anche Ada aveva avuto il suo cane, Blacky, un barboncino più antracite che nero, perennemente allegro e sudicio, sereno come pochi. Era durato dodici anni. Enrico gli voleva bene. Rita raccontava che, quando lui da bambino andava timoroso dalla nonna, urlava il suo nome a gran voce perché lei lo richiamasse a sé – era sempre libero nel piccolo cortile interno – ma poi quando il cane gli correva incontro, esultava senza riguardo.
In ufficio c’era la coda, Sandra aveva due persone davanti, anche se la badante robusta appoggiata allo sportello sembrava aver quasi finito.
Erin non aveva mai visto un temperamento tanto refrattario alle abitudini come quello di Ringo; anche in questo, fra i cani, faceva eccezione: sovreccitato, con uno stupore che la scoperta non placava rinnovandolo invece in una nuova attesa, viveva per così dire di meraviglia, incantato davanti a quello che al suo sguardo umido doveva apparire uno spettacolo appassionante: e così, poiché per lui le cose erano sempre nuove, poco abituato a metterle da parte, non se ne curava e imparava poco. Ma se questa era la sua attitudine per l’istante, non sembrava dotato di un’espressione altrettanto efficace per comunicarla. La sua vita scorreva perciò in mezzo agli altri senza profondità, né durata: come se avesse inteso, a modo suo, che i più si concentrano solo sul presente.
«A cosa pensi?» chiese Sandra.
«Niente, sciocchezze».
Erin tornò a pensare a Rita. Non poteva andare avanti nel modo in cui era andata avanti la propria madre, che di fronte a ogni disgrazia di fatto si annullava pensando solo agli altri, senza farsi un’idea dell’accaduto, completamente stordita nell’azione come se la vita operosa fosse l’unico modo per essere all’altezza di ciò che era successo: in fin dei conti, per quanto comprensibile, questo non era reagire, era girare la testa da un’altra parte e infatti una settimana dopo, venute meno le più urgenti esigenze concrete, la madre restava inebetita davanti a qualcosa di enorme, che non riusciva a passare. No, Rita doveva fare qualcosa. Prese il telefono e le scrisse un messaggio: Tutto dipende da te. Devi deciderti. Fatti viva.
Nel frattempo, per fortuna, l’anziana col cappotto verde acido davanti a Sandra se ne era andata più in fretta del previsto, lasciando a lei lo spazio di imporsi, con tutti i moduli scaricati e precompilati per fare concedere a Ringo la cittadinanza.
L’impiegata comunale, una ragazza bruna dai grandi occhiali con la montatura rossa, si mostrava quasi euforica nel veder crescere l’anagrafe canina, come se in questa estensione si esprimesse l’inarrestabile progresso della civiltà a cui era finalmente un po’ più contenta di appartenere: era uno di quei rari casi in cui nei ruoli della Pubblica Amministrazione si erano incontrati un inquadramento funzionale e una più remota e insopprimibile vocazione per I nostri bebè a quattro zampe, come recitava in modo allarmante il titolo di un dépliant sparso in più copie a lato del bancone: un connubio fecondo, senza dubbio. Naturalmente, la cittadinanza di Ringo comportava anche i suoi bravi doveri di vaccinazione, a cui Carmen aveva già provveduto.
«Senti,» disse Sandra rimettendo le carte nella borsa, «togliamoci in fretta da questo posto».
Il fatto è che Sandra doveva ancora presentare il tema principale della discussione pomeridiana, quello su cui aveva già cercato più volte esplicitamente di chiedere a Erin di pronunciarsi per ricevere un consiglio, senza tuttavia trovare un momento di calma per discuterne a dovere come l’evento, data la sua natura, avrebbe richiesto. Il fatto era tutto qui: doveva andare a cena dalla madre di Franco, il suo compagno. Progetto impegnativo pensando a Clelia, ma per numerosi aspetti affrontabile, anzi alla portata, con precedenti altalenanti ma sostanzialmente positivi; la questione però lievitava leggermente verso sviluppi inattesi considerando la già annunciata e quindi inevitabile presenza a cena del fratello di Franco, Giulio: “don Giulio”, perché il fratello lavorava in Curia e aveva vari incarichi in enti ecclesiastici. Recentemente aveva svolto un incarico importante in Messico per conto di una congregazione non chiaramente specificata, o forse non specificabile. Nessuno sapeva dire con precisione se per caso in segreto avesse in qualche modo preso i voti.
«Ma cosa te ne frega?» le aveva detto Erin «ci vai come amica di Franco, tanto la madre avrà già spifferato tutto al figlio; e lo stai ad ascoltare. Scusa, con tutto quello che può raccontarti del Messico stai a pensare che è un mezzo prete? Che poi, questi mezzi preti, non sai mica dove vadano a parare. Non sarebbe il primo, infatti, per non dire altro. E secondo te, visto che resterà da sua madre solo un paio di giorni, vorrebbe passare l’unica cena con suo fratello a cercare di catechizzarti?»
«No, ma mi squadrerà in un attimo e perderò il mio carico di punti».
«Beh, non vedo il problema. Sarebbe peggio se si mettesse a parlare di liturgia; ma credimi, sotto sotto – e proprio per il lavoro che fa – è stufo di parlare di queste cose».
«Non sopporto la supponenza che si nasconde dietro quelle vesti così umili, il fatto di sentirsi sempre dalla parte giusta. Per me poi è un assurdo. Com’è possibile fare un lavoro come il suo senza farsi prete? Cioè, stare con i preti, fare in fondo un lavoro da prete, ma senza diventarlo veramente. Tu mi dirai: perché così può trovarsi una donna, farsi una famiglia. Infatti. Ma è scapolo e secondo Franco non ci ha mai pensato, neanche lontanamente. Che abbia un compagno?»
«Se lo avesse, avresti ben pochi timori da mettere in campo».
«No, perché magari, visto il suo lavoro, ce l’ha modo clandestino, perciò in pubblico deve fingersi ancora più ligio al dovere».
Erin lo conosceva di vista. Come molti che svolgevano incarichi in un ente ecclesiastico si sentiva in dovere di assumere un’aria invariabilmente compassata, tesa a raggiungere il più silenzioso traguardo dell’anonimato, dove il grigio perla e i celeste dei pullover (i due colori potevano addirittura trovarsi combinati insieme nello stesso capo d’abbigliamento) sottraevano alla persona buona parte del suo peso corporeo, arrivando a fare del più rotondo collega di Giulio, molto più pesante di lui, un esilissimo emissario dello Spirito. «Si muove con l’agilità di un ballerino», era il commento dei dirigenti. Ma cosa passasse nella testa di Giulio era un mistero incomprensibile. «Che strano,» si disse Erin, «non solo Fabrizio, ma anche lui e Franco hanno perso il padre molto presto». Quanto al suo orientamento sessuale, come già in altre circostanze, Erin era convinta in pieno che fosse interessato alle donne e che, anzi, a modo suo, clandestinamente, si desse da fare «con nubili e forse perfino con meno nubili».
«Comunque,» riprese Erin, «mi sembra che tu sia già andata molto lontano nel ricamarci sopra».
«Sì, ma la rottura di coglioni resta».
Restava infatti la dignità religiosa che Clelia in silenzio avrebbe dato mostra di lodare, ponendosi subito a fianco il figlio giusto per schierare a tavola la sua squadra al completo (col marito che li guardava dalla foto incorniciata sulla parete), una squadra a cui Sandra, almeno nelle intenzioni di Clelia, avrebbe dovuto guardare dal basso in alto come un’anima penitente invoca i santi, mentre invece agli occhi di Sandra questa pretesa rimaneva ridicola nelle sue esigenze di un decoro rovinosamente impresentabile. «Ma dove crede di vivere?» Solo il breve cerchio che Clelia aveva aperto alle sue poche conoscenze (parenti e amici del gruppo parrocchiale) pareva ancora in grado di sostenere il suo quadro di devozione e di giustizia – di giustizia, si intende, a suo favore – che Clelia considerava il minimo risarcimento che tanti anni di vita difficile avrebbero dovuto riconoscerle. Suo figlio, invece, l’altro, aveva lasciato da troppo tempo le mura domestiche e ora frequentava una donna che non aveva nulla da promettere in quel senso. Una donna troppo lontana a cui lei – ecco il vero tormento – aveva poco o nulla da insegnare.
«Sarà anche vero che la vita è fatta di stagioni diverse,» riprese Sandra, «ma di questa io ne ho davvero già piene le palle. Di queste che a settant’anni continuano a raccontarti la storia della loro vita, come se solo loro ne avessero avuta una. E non c’entrano niente l’istruzione, il successo, il cazzo di stipendio che ti porti a casa a fine mese. Loro ne sanno sempre di più».
Erin sorrise davanti al lamento dell’amica:
«Non ti farai mica mettere in crisi da una cosa del genere? Ma cosa stai a sentirla. Tu ci vai solo per fare un favore a Franco. Per tutta la cena pensa a lui e alla prossima camera dove fuggirete nel fine settimana».
Erano intanto arrivate più o meno all’altezza del parco Giulio Cesare Croce da cui erano partite poco prima.
«Scusa, ma ora dove stiamo andando?» chiese Erin.
«Niente, io farei un salto a casa per lasciare le tre cose che ho preso. Poi possiamo provare a tirar fuori Rita. Che dici?».
«D’accordo».
Così presero l’Opel Corsa di Sandra per passare a casa. Sandra aveva la fissa per la black music: Stevie Wonder, Prince, Alicia Keys, Bruno Mars: sempre gli stessi pezzi, fra l’altro. Ma a Erin non dispiaceva, era parte dell’atmosfera confortante del mondo di Sandra: «Mi hanno passato molta musica americana, mi sono messa ad ascoltare anche Kendrick Lamar: non ne capisco niente, devo dirti, ma è un po’ una sfida. Chissà cosa ne potrebbe pensare uno come Giulio».
Mentre prendevano la via per la casa di Sandra in mezzo al traffico, Erin pensava alla Route 66 o a viaggi più lontani; pensava allo stato d’animo con cui il cliente prenota un viaggio in un altro continente. Nei suoi gesti sembra un investimento preparato con cura, sostenuto dall’amor proprio che lo spinge a dire – e di norma nell’agenzia di Rita lo diceva chiaramente – che lo doveva a sé stesso, che in fondo se lo meritava. «Chi non se lo meriterebbe?» pensò Erin; ma la questione era un’altra. Il cliente travestiva di giustificazioni qualcosa che, a ben vedere, avrebbe dovuto formulare in maniera più semplice: «me lo posso permettere». E fra le sue amiche non erano più molte a potersi illudere in questo modo. Quel pomeriggio alternativo la stava spingendo impercettibilmente verso il fatalismo, da cui in genere riusciva a guardarsi come pochi.
«Cristo, hai visto quanto traffico?»
«Beh, siamo verso l’ora di punta».
«Sì, pensavo di evitarla di un soffio, invece ci siamo finite dentro in pieno».
«Ma si tratta di un semaforo».
«Sì, sì, il fatto è che sono proprio stufa».
Sandra riuscì a passare d’un soffio col giallo. In due minuti furono a casa.
Abitava al piano terra di un condominio giallo di cinque piani: a dire il vero il suo era leggermente rialzato, giusto quei tre gradini che il progettista aveva pensato bastassero per conferire all’edificio un tocco di nobiltà, gradini che poi scendevano uscendo nel piccolo giardino tenuto discretamente e soprattutto circondato da una siepe alta due metri, «per la privacy» come diceva sempre Sandra.
Davanti all’ingresso, compunti come se stessero aspettando l’arrivo di una delegazione diplomatica sostavano Carmen con al guinzaglio il fido Ringo. Immobili e silenziosi, si fa per dire. In effetti, bastò che Sandra ed Erin parcheggiassero lungo la strada di fronte alla casa perché Ringo manifestasse il suo affetto o semplicemente la voglia di celebrare l’istante irripetibile. Carmen lo redarguì con veemenza, al che il cane, quasi accovacciandosi, si fece più docile, con lo sguardo dispiaciuto per quell’esibizione troncata a metà a cui, in apparenza, sembrava tenere molto.
Erin salutò con la mano.
«Come mai sei venuta così presto?», chiese Sandra.
«Ero in giro col cane, pensavo di portarti il vestito che ti ho raccomodato: a dir la verità neanch’io pensavo di trovarti» così dicendo allungò a Sandra una borsa di plastica bianca.
«Vuoi entrare? Ci fermiamo poco, perché dobbiamo andare da Rita, ma se ti fermi almeno un caffè lo prendiamo».
«Oh, no», rispose Carmen, «sono qui davvero di passaggio perché volevo finire di preparare il coniglio, che ho già messo sul fuoco. Sono uscita perché questo qui è sempre contento di andare a spasso».
Ringo non aveva ancora recuperato in pieno il suo ardire, perciò guardando verso Erin e Sandra il suo visibile entusiasmo sembrava smorzato dalla prudenza che, evidentemente, alla fine doveva aver appreso anche lui, sia pure solo in parte.
«Anzi, già che ci sei», disse Sandra, «ti do subito la targhetta che mi hanno dato poco fa in Comune». Aprì la borsetta e ne tolse la piccola busta trasparente che conteneva la medaglia col numero di riconoscimento del cane.
Certo che si parlasse di lui, Ringo aveva già la lingua di fuori in attesa di ciò che il suo desiderio forse si figurava come un riconoscimento materiale, auspicabilmente commestibile; vide invece Carmen prendere in mano la targhetta e accovacciarsi davanti a lui per appenderla all’anello del collare, un ornamento di promozione simbolica verso il quale non mostrava alcun apprezzamento. Anzi, guardando verso Erin, subito dopo essere stato decorato, cominciò a stendere le zampe anteriori abbaiando tre o quattro volte come se il tutto, più che un premio, non si rivelasse altro che una mancanza di rispetto nei confronti della sua autonomia che per quanto parziale e barcollante sopravviveva ai margini del consorzio umano. Poi, d’improvviso tacque – evento inatteso –, forse umiliato da quella distinzione. A Erin sembrò che la guardasse con un’espressione in cui la rivendicazione per il suo contegno animale alludeva al tempo che gli era rimasto da vivere, non diversamente da quello che era rimasto a loro. Così lei si ricordò d’un tratto che ogni istante, più che un’occasione per riflettere sui contenuti della coscienza, le era sempre parso il frutto di un’intuizione su ciò che il presente aveva da offrire e sulle possibilità da scegliere e da seguire. Un presente disteso, un orizzonte di risorse. Insomma, si rese conto che il povero Ringo, con i suoi limiti, l’aveva riportata al suo umore abituale e pur senza cambiare del tutto il giudizio su di lui gliene fu grata.
«Signora Carmen,» disse, «è ora che tentiamo di tirare Rita fuori di casa, visto che da una settimana si rifiuta di uscire».
«Capisco, capisco» rispose Carmen, «è tutta carità».