Libanais. Lignes de vie d’un peuple svela contraddizioni, impegno e fragilità di un popolo in continua crisi
di Giuseppe Acconcia
Libanais. Lignes de vie d’un peuple (Ateliers Henry Dougier, 2020, pp. 155) è il primo libro della giornalista francese che vive a Beirut, Laure Stephan, firma del quotidiano Le Monde. L’autrice era partita nel 2007 per una parentesi di viaggio in Libano che è poi diventata una scelta di vita. Molto suggestivo è il suo primo arrivo a Beirut mentre avvenivano gli attacchi al campo profughi palestinese del Nord del Libano di Nahr al-Bared. Abitare in Libano, per la giornalista cresciuta in Senegal, negli anni che hanno sconvolto il Nord Africa e il Medio Oriente ha significato principalmente vivere nel cuore della cronaca, in una terra complessa, in una società polarizzata e in un contesto politico disordinato. Il libro che raccoglie originali e approfondite interviste a testimoni privilegiati racconta storie umane di coraggio, impegno, passione, solidarietà e vulnerabilità, talvolta anche di disperazione tra i continui tagli all’acqua e all’elettricità di cui tutti i libanesi fanno quotidianamente esperienza. Stephan rimanda continuamente alla forza dell’umanità, dell’oralità, della discussione che rendono la società libanese di grande interesse tra cinismo e perseveranza. Il libro è quindi un’istantanea di un paese che ha attraversato la guerra civile (1975-1990) ed è di nuovo in crisi economica e finanziaria dopo l’esplosione al porto di Beirut dell’agosto 2020. Il racconto polifonico che si svolge a Beirut e nei suoi quartieri periferici parte da un quadro storico del Libano alla fine dell’impero Ottomano e fino alla guerra civile, per poi entrare nel vivo delle testimonianze. Carmen Hassoun Abou Jaoudé, da giovane reporter de l’Orient-Express, mensile arabo in francese, ora guida del Centro internazionale per la giustizia transnazionale (CIJT) parla, da militante per la verità, del rifiuto dei giovani libanesi di vivere nell’eredità della guerra civile. Secondo l’intervistata, dopo l’indipendenza non c’è stato un processo di deconfessionalizzazione politica, mentre una volta finiti i bombardamenti non è finito il conflitto civile, con l’occupazione siriana e fino all’assassinio dell’ex premier, Rafiq Hariri, nel 2005. Nel volume, non mancano neppure incontri con le nuove generazioni, come i tatuatori Elie Rahmé e Khalil Abdallah. Trentenni, hanno uno studio a Jounieh, quartiere cristiano del Nord di Beirut. Secondo gli intervistati, il tatuaggio non è più un’etichetta di “cattivi ragazzi” per i giovani libanesi. Alcuni vogliono invece esprimere la loro devozione chiedendo tatuaggi del volto della Vergine Maria o calligrafie di figure dell’Islam sciita, come Hussein e Zeinab. La guerra civile ha lasciato segni indelebili, c’è chi coltiva dentro di sé la sua cultura confessionale e chi preferisce la mixité in base alla propria storia familiare. Di rilievo anche la testimonianza di Robin Richa che, dopo aver lasciato il suo lavoro in banca, è diventato direttore di una tra le associazioni più vivaci della società civile libanese, Arcenciel. La storia personale di Robin è di ispirazione, ha preferito un’attività da quasi volontario per sentirsi realizzato pienamente. Arcenciel, nata nel 1985 per aiutare i feriti della guerra (circa 14mila), nel 2000 ha sostenuto una legge contro la discriminazione dei disabili. Oggi, si occupa anche di riciclaggio dei rifiuti e sostegno a giovani svantaggiati, ex tossicodipendenti e detenuti. Il libro si conclude con le interviste tra gli altri con Ziad Abdel Samad, direttore della Rete delle ong arabe per lo sviluppo (ANND), e Rana Idriss, direttrice della casa editrice, Dar al-Adab per estendere lo sguardo dal Libano al contesto regionale.