Discorso intorno a un sentimento
di Quelli della V E
Intendiamoci, non voglio stare qui a raccontarvi per filo e per segno tutto quello che accadde quel giorno, perché altrimenti non potrei smettere di pensare a quanto fossi stupido e a tutte le battute cretine che feci su di lui. Sono cose di cui oggi mi vergogno profondamente, ma che in quel tempo mi sembravano normali. Mi limiterò dunque alle cose essenziali.
Tanto per cominciare i miei genitori erano appena tornati a casa dall’ospedale con un fagotto stretto fra le braccia. Era nata mia sorella. La sua voce era un gorgoglio simile a una risatina, mi sembrava un miracolo, così restai sveglio tutta la notte a contemplarne il viso nella culla. La mattina dopo non mi reggevo in piedi. Mi trascinai in strada a fatica, arrivai a scuola in ritardo e una volta in classe fui costretto a occupare l’unico posto rimasto libero. Naturalmente nessuno aveva voluto sedersi accanto a Leonardo, di conseguenza mi ritrovai al suo fianco senza potermi opporre in alcun modo. Mamma mia, che spavento! Sembrava uno zombie. La sua faccia era un ammasso informe di carne bruciata. Gli occhi, mangiati dalle infezioni, vagavano timidi alla ricerca di uno sguardo amico che non c’era. Il naso era piatto come quello dei serpenti. In aggiunta a questo gli mancava la mano destra; al suo posto aveva una specie di palloncino rosso, di cuoio duro.
Il cuore mi si fermò in gola. Rimasi immobile, come imbalsamato, senza la forza di muovere un solo muscolo. Pensai: “È stato investito? È caduto dalla cima dell’Everest? È stato usato come cavia per esperimenti atomici?”
Il ragazzo che mi sedeva davanti sembrò leggermi nel pensiero. Si chiamava Alessio, ma questo l’avrei scoperto più tardi. Si girò lentamente verso di me, mi dedicò un sorriso da dentifricio e sussurrò:
«Gli è successo allo zoo. È caduto nella vasca dei piranha e quando l’hanno tirato su gli mancava mezza faccia.»
Cercate di capirmi, non potevo farcela. Per quanto i miei genitori mi avessero sempre raccomandato di rispettare gli altri, non riuscivo ad accettare che il caso mi avesse riservato un destino tanto crudele: passare tutto il giorno vicino a quella specie di mostro. Mi faceva star male solo a pensarci. Era una sensazione davvero sgradevole, simile a quando da bambino sognavo di camminare per una strada buia, rincorso da ombre scure e minacciose. Così cercai di distogliere lo sguardo da quella maschera, provando pian piano a staccare il mio banco dal suo. L’operazione durò una decina di minuti. Alla fine riuscii a guadagnare quel metro di distanza che mi diede l’opportunità d’immaginare un mondo nuovamente meraviglioso, in cui avrei potuto vivere per sempre libero, lontano dalla malattia più orribile di tutte: l’infelicità. Naturalmente stavo solo cercando una via d’uscita a una situazione che rischiava di farsi ogni giorno più disperata.
Sennonché il professore di matematica, un uomo dalla faccia quadrata, con folti baffi neri e un’espressione austera che lasciava trasparire un carattere di fuoco, alzò a un tratto lo sguardo su di me, interrompendo la lezione e fissandomi con una tale intensità che mi sentii mancare. Per un istante ebbi la sensazione che volesse trasmettermi la stessa impavida e ferrea determinazione con cui per una buona mezz’ora aveva cercato di instillare nei suoi nuovi alunni il senso di responsabilità.
«È il senso di responsabilità» aveva detto «che ci consente di comprendere e condividere i sentimenti altrui. Pensate alla sofferenza, pensate al dolore e alla tristezza.»
Beh, doveva essere pazzo. Io non volevo pensarci nemmeno per un momento, alla tristezza. Al contrario, la mia aspirazione era vivere spensierato e felice.
«Come ti chiami?» mi chiese.
«Emanuele Alfieri.»
«Le grandi utopie avanzano sempre a piccoli passi, non è così Emanuele? Dimmi, perché hai deciso di andartene a spasso per l’aula trascinandoti dietro il banco e la sedia? Non è faticoso?»
Sentivo gli occhi dei miei compagni addosso, stavano tutti aspettando una risposta che non avevo intenzione di dare. Dei sussurri e delle risatine soffocate rendevano l’atmosfera ancora più opprimente.
«Torna immediatamente al tuo posto» concluse il professore «e che io non debba più affrontare questo argomento, intesi?»
Avrei voluto piangere, tanta era la rabbia che mi consumava in quel momento, ma la paura mi paralizzò e non riuscii a fare altro che obbedire.
Durante l’intervallo Leonardo s’immerse nella lettura di un libro. Non so per quale motivo, immaginai che fosse uno di quei libri che quando li finisci è come se un amico ti salutasse per l’ultima volta, lasciandoti un senso di vuoto che non ti abbandonerà più. Noialtri ci radunammo in fondo all’aula per definire meglio la situazione. Alessio, con una voce rauca e spesso punteggiata da una tosse secca e stizzosa, cominciò a prenderlo in giro in maniera sempre più decisa e determinata. Sembrava non volesse finirla più fino al giorno del giudizio universale.
«Appena l’ho visto mi è passato il singhiozzo» disse. E poi ancora:
«Non ha un bell’aspetto, vero? Dovrebbe farsi visitare da un veterinario.»
«Sua madre deve averlo immerso nella varechina per provare a renderlo immortale, ma la sua pelle era così delicata che ne è uscito fuori un maialino arrosto.»
Insomma, avete capito, no? Tutta una serie di offese e prese in giro che avrebbero fatto impallidire un generale dell’esercito. Eppure Leonardo si limitò a dedicargli qualche occhiata indifferente, contornata a volte da un lieve sorriso. Era una situazione ai limiti del paradossale. Più trascorrevano i minuti più le offese di Alessio diventavano feroci. Cercai d’immaginare cosa avrei fatto io al posto di Leonardo; di sicuro sarei saltato su come un diavolo e gliel’avrei fatta vedere, a quello lì. Lo avrei riempito di pugni, ecco quello che avrei fatto. Lui invece non si lasciò andare a nessuna reazione; se ne restò in silenzio, impassibile, a leggere il suo libro fino alla ripresa delle lezioni. Sembrava indossasse una corazza, era insensibile a tutto.
All’uscita da scuola trovò sua madre ad aspettarlo. Era una bella signora bionda, dai modi gentili, vestita in maniera elegante. Mentre i miei compagni sciamavano tutt’intorno affrettando il passo per tornare a casa, io restai a osservarli mezzo imbambolato. Li vidi abbracciarsi in un modo molto tenero. Rimasero stretti l’uno all’altra per un tempo che mi sembrò interminabile, per poi avviarsi tranquilli lungo il viale di betulle che fiancheggiava l’ingresso della scuola. Per un po’ li seguii in silenzio, a una decina di metri di distanza. Ridevano, scherzavano, si raccontavano storie. A un tratto Leonardo accennò una canzoncina. Mi sembrò perfino di sentirlo fischiettare allegramente mentre svoltava l’angolo, giù in fondo alla via, cingendo con un braccio il fianco della madre. Ero sconvolto. Tornai a casa con l’angoscia dentro. Per lo sbigottimento non riuscivo quasi a respirare, mi sentivo morire, e forse per la nausea mi rifugiai in camera rifiutando il pranzo. Mia madre non faceva altro che chiedermi come fosse andata a scuola, come mi ero trovato con i compagni, che impressione mi avessero fatto i professori, ma io non riuscivo ad ascoltarla, né tanto meno a risponderle. Per tutto il giorno non riuscii nemmeno ad avvicinarmi alla culla di mia sorella, non avrei potuto guardarla negli occhi, non più, c’era qualcosa che mi faceva pensare di esserne indegno. Continuavo a ripetermi che ero stato un vigliacco e che avrei dovuto difendere Leonardo da tutte quelle cattiverie gratuite, invece non me l’ero sentita, perché avevo temuto di diventare un bersaglio, di essere evitato da tutti come la peste. In preda a una sorta di ossessione passai tutto il pomeriggio a fare una ricerca sui vampiri, sul tipo di sangue che preferivano, sui forti traumi infantili che potevano innescare il consumo di sangue umano, sui grossi sassi che venivano infilati in bocca ai vampiri prima di essere seppelliti nelle fosse comuni, cose così. La sera faticai ad addormentarmi, ma al di là dei miei tormenti, c’era una domanda che continuava a girarmi in testa come un criceto sulla ruota. Non facevo altro che chiedermi: “Cosa è davvero successo a Leonardo?”
NdR: questo è il secondo capitolo di un romanzo scritto dai bambini della scuola elementare Evaristo Dandini di Frascati, in collaborazione con i loro insegnanti, e che è diventato un libro. Ecco come Carlo Cannella, docente all’origine dell’iniziativa, mi ha presentato la cosa:
“Quest’anno abbiamo provato a dedicarci tutti insieme, docenti e alunni, a un progetto piuttosto complesso per bambini così piccoli, quello di scrivere un romanzo intorno ai temi della pace e della guerra. Ne è venuto fuori questo “Discorso intorno a un sentimento”, in cui immaginiamo un mondo finalmente pacificato, nel quale si affermano i principi del mutuo appoggio e della gentilezza disinteressata. Il risultato mi sembra buono. L’intera narrazione è il prodotto di innumerevoli spunti offerti da ogni singolo bambino, “ricuciti” dal team docente, soprattutto in ordine a uno “stile narrativo” che potesse dare omogeneità al lavoro.”
Ed ecco come Cannella, su mia richiesta, spiega più in dettaglio il lavoro che hanno fatto:
Due anni fa, i bambini della III E della scuola Evaristo Dandini di Frascati, scrissero un libro intitolato “C’era (quasi) una volta… e poi?”. Dopo aver letto delle fiabe provarono a immaginarne il seguito, divertendosi a volte a far vincere i cattivi, un modo come un altro per non nascondersi il mondo reale, che sempre porta con sé qualche ferita. Presi dall’entusiasmo decisero di dedicare i successivi due anni alla stesura di un romanzo. L’idea era quella di organizzarsi in gruppi di lavoro che a partire dall’ideazione di una storia (un bambino orribilmente sfigurato da una bomba inesplosa risalente all’ultimo conflitto mondiale che con il proprio esempio convince l’umanità a rinunciare per sempre alla guerra), riuscissero ad accompagnare il testo in tipografia. In quel tempo nessuno poteva però immaginare che i bambini avrebbero trascorso una buona parte di quei due anni in solitudine davanti a un computer, o che non sarebbero comunque riusciti a lavorare insieme nel rispetto delle norme sul distanziamento. Poco tempo, dunque, per fare un mucchio di cose. Sennonché quelli della V E sono bambini testardi, e aiutati dai loro docenti (che hanno confrontato i diversi testi, selezionandone via via gli spunti più interessanti e lavorando con loro alle riscritture) hanno infine dato vita a questo “Discorso intorno a un sentimento”. Buona lettura.
E qui di seguito l’introduzione che nel libro precede il testo del romanzo collettivo:
Lo stesso sbalordimento sembra tormentare i bambini di scuola primaria non appena prendono coscienza di cosa sia la Storia, non solo una trasmissione della memoria a livello collettivo, il fondamento e l’espressione dell’identità di un gruppo, ma anche un continuo conflitto fra gli uomini per brama di ricchezza e di potere, l’imprigionamento e la riduzione in schiavitù di interi popoli, sconfitti in guerra e perciò annullati nella loro umanità. Da qui la necessità di una ricerca che produca la possibilità di un mondo nuovo, fondato su principi altrettanto innovativi, quali ad esempio, per usare le parole espresse dai bambini nel loro libro, l’aiuto reciproco e la gentilezza disinteressata.
Proprio intorno alle riflessioni sulla guerra e sulla pace, che i bambini della V E hanno consolidato attraverso la conoscenza di testi quali il De monarchia di Dante Alighieri o il saggio di filosofia Per la pace perpetua di Immanuel Kant (che non a caso viene citato nel testo) nasce e si sviluppa questo breve romanzo, scritto durante un anno certamente particolare. Inutile dire che le condizioni dettate dall’emergenza sanitaria non hanno loro permesso di lavorare a stretto contatto, rendendo quindi la riuscita dell’operazione piuttosto difficile. Sono mancati il confronto, la condivisione degli intrecci narrativi, le fasi di riscrittura a piccoli gruppi per armonizzarne quanto più possibile lo stile. Ciononostante non sono mancati loro il coraggio e la perseveranza per portare a termine l’impresa. Al riguardo ci piace sottolineare come il lavoro sia stato sempre contraddistinto dall’impegno e dall’entusiasmo. Ogni venerdì pomeriggio, partendo da una discussione intesa a fissare via via i punti essenziali della trama, ognuno di essi ha praticamente scritto il proprio romanzo personale, affrontando la storia con una sensibilità, una modalità e uno stile narrativo propri. Si potrebbe dire che ogni autore si è rivelato con una sua voce personale e irripetibile. Compito degli insegnanti è stato quello di confrontare i diversi testi, cercare di selezionarne gli spunti più interessanti, farli convergere quanto più possibile verso una linea comune e soprattutto uniformarli nello stile affinché la lettura risultasse quanto più possibile fluida e omogenea. Laddove si è reso necessario, in particolar modo nei capitoli 10 e 11, si è lavorato in proprio su aspetti storici e geopolitici un po’ troppo impegnativi per bambini così piccoli. I possibili scenari di guerra da introdurre nel romanzo sono stati tuttavia presentati ai ragazzi in sessioni distinte (in particolare sono state affrontate le questioni relative all’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, al conflitto isreaelo-palestinese, a quello fra India e Pakistan per la rivendicazione del Kashmir). Un interesse particolare ha suscitato la possibilità di un futuro conflitto fra Stati Uniti e Cina, che più volte è comparso nei loro testi originali, ma che non è stato possibile introdurre in quello collettivo per problematiche strutturali e di coerenza narrativa.
Cos’altro dire? Al termine di questi cinque anni, vissuti in maniera certamente intensa, districandoci fra mille difficoltà e inquietudini, eppure in modo sempre gioioso, la nostra gratitudine va ai bambini per averci dato la possibilità di condividere il nostro tempo e il nostro impegno con le loro intelligenze. A ognuno di essi rivolgiamo oggi il nostro pensiero e la nostra preghiera. Non dimenticate: siate gentili, siate altruisti, siate solidali verso i discriminati e gli oppressi, vicini a chiunque abbia bisogno del vostro sostegno per affrontare un momento di difficoltà. Conservate con amore la possibilità di un grido, quell’indignazione nei confronti del sopruso e della prevaricazione che ci permette di restare ancorati al nostro essere persone. Quel grido che farà, di ognuno di voi, nel momento delle scelte, un sostenitore della giustizia e un costruttore di pace.
Che il canto dell’addio non sia altro da quel grido. In alto i cuori. Ora e per sempre, gridiamo insieme: “Nemecsek non deve morire”.
bellissimo, complimenti