Luigi Di Ruscio e il paradigma del dubbio
di Niccolò di Ruscio
[Pubblico qui un articolo di Niccolò Di Ruscio tratto dalla sua tesi di laurea dedicata all’ omonimo marchigiano. Luigi ne sarebbe stato felice… B.C.]
Al Nordre gravlund di Oslo, il cimitero della periferia settentrionale della capitale norvegese, c’è una lapide con incisa una spiga di grano. L’epitaffio recita: “Luigi Di Ruscio. Poeta italiano. f. Fermo. d. Oslo.” L’uomo sepolto in corrispondenza era nato nella cittadina marchigiana circondata dai campi di grano, aveva conosciuto la miseria e deciso di scappare in Scandinavia. Per 37 anni lavorò in una fabbrica metallurgica di Oslo, dove conobbe la moglie norvegese Mary con la quale ebbe quattro figli. Perché allora poeta italiano? Quella che sembra la biografia di un qualsiasi emigrante nel secondo dopoguerra è anche la biografia di uno scrittore che dall’esilio geografico e culturale in cui è costretto, scolpisce su carta le vicende di un’esistenza ai margini. Alla fine «il tutto risulterà una variante della stessa angoscia»[1] di chi è emarginato ed escluso, brutalizzato dal meccanismo sociale ma al contempo aggrappato a una gioia vitale e palpitante per resistere all’orrore. «Poeta non omologabile»,[2] Luigi Di Ruscio è un caso eccentrico nel panorama letterario italiano: le vicende editoriali raccontate nei suoi romanzi sono le tappe dell’epopea bislacca di un escluso dall’élite culturale. Tuttavia, per quanto Di Ruscio fosse emarginato anche geograficamente, la sua è «opera esterna, che volutamente assume la sua non partecipazione al sistema letterario come chiave di lettura critica, ma non ignara, non estranea».[3] Perciò la menzione di autori contemporanei, la citazione di brani poetici, talvolta persino la parodia di questi; ma anche i giudizi di valore, le simpatie verso gli autori di riferimento e il disprezzo per quelli più consolidati nel canone,[4] sono tutti procedimenti retorici utilizzati nella sua produzione come tentativo di rimanere a contatto con il dibattito culturale, per non scivolare definitivamente nell’oblio. Nonostante la lingua problematica e l’emigrazione, Di Ruscio è un poeta, egli stesso lo afferma e giustifica a più riprese negoziando il «ritratto apologetico di sé come poeta».[5]
La sua formazione gravita intorno a pochi testi fondamentali e ai classici del pensiero dialettico, che prende in prestito «nella biblioteca dove c’era un infinito tutto scritto».[6] È quindi innanzitutto un lettore vorace che spazia dalla poesia alla filosofia passando per Dante e i deliri eretici di Campanella e Bruno; tuttavia scrive sin da giovanissimo, subendo lo scherno dei compagni del partito per i grossolani errori ortografici che tradiscono la sua autodidassi imperfetta, di cui prova vergogna: infatti ero stato scoperto, ormai tutti sapevano che scrivevo poesie, il mistero era diventato pubblico, sta sempre nella biblioteca comunale a leggere libri che nessuno legge, spedisce plichi da tutte le parti. Non facevano che domandarmi: Poeta ora ti provo, dimmi chi è nata prima la gallina o l’uovo? Fa il poeta e scrive “l’aradio”. Avevo vergogna di tutti i miei sbagli ortografici, erano come peccati mortali e il sottoscritto veniva scrutato, speculato, squadrato e non ero neppure un Don Chisciotte, perché avevo su tutto molti dubbi e non sono neppure un poeta lirico perché i lirici non si interrogano, perché loro sono completamente nelle loro orribili e giulive certezze, non hanno scampo mentre io cercavo di scappare da tutte le parti e le pagine erano strapiene di correzioni e cancellature, chi ti credi di essere brutto stronzo? Come ti permetti d’iscrivere le poesie nostre?[7] Per diventare poeta è necessaria la fuga, la clandestinità, sfuggire ai pregiudizi del proprio ambiente e alla menzogna della poesia rarefatta dei salotti letterari. Di Ruscio rifiuta qualsiasi convinzione e si aggrappa al dubbio come strumento di osservazione della realtà e del «caos di una identità che ha per centro queste continue scritture».[8] Si ritrova smarrito nei «labirinti delle identità sovrapposte» e trascinato da forze centrifughe e centripete alternate, tra un fuori e un dentro, così che alle istanze di riconoscimento in una classe sociale o in una molteplicità di categorie, segue ciclicamente il rifugio nell’individualismo: «mi permetto di essere estraneo e basta e con una identità non codificata dai signori critici nostri».[9] Si rivela in tutta la sua produzione un titanismo solitario contro il mondo, esercitato attraverso un processo di autoaffermazione come individuo prima ancora che come poeta, il quale contempla tutte le tappe di un apprendistato complicato: «Non ero proprio nato come scrittore di versi / ci sono diventato a forza di calci in culo»[10] e «sapendo approfittare delle smagliature della rete metallica».[11] Il conflitto con il potere manifesta quindi il portato politico della sua produzione, che per quanto inizi prima dell’emigrazione («è stato Fortini che mi ha battezzato poeta scrivendo una favolosa prefazione alla mia prima raccolta»),[12] tuttavia nella condizione di operaio emigrato ad Oslo, nel suo destierro[13] trova la dimensione ideale:
mi ritrovo in un casino di stradette e strade verso tutte le direzioni, presi una strada a caso sperando che non mi conducesse all’inferno, infatti alla fine sbuco nei pressi di casa, dove sei stato marito mio? All’inferno! Dopo allegrissime odissee vengo assunto in una fabbrica di chiodi come operaio manovratore di filatrici ed inizia una produzione sprocedata di versi.[14]
Surrealista e caustica allo stesso tempo, nella logica paradossale delle clausole diruscesche la poesia è diretta produzione delle macchine filatrici della Christiania Spigerverk di Oslo. Di Ruscio legge «l’inferno [di Dante] come fosse un reparto di fabbrica di Oslo nella seconda metà tutta intera del ventesimo secolo»[15] e ripete a se stesso con vocazione missionaria: «POESIA COME INFANZIA DEL COMUNISMO».[16] La divinità è scalzata da un’ideologia ancora acerba; spetta ai poeti fondare i caratteri della ‘nuova religione’. Una nuova religione che è di conseguenza nelle profezie dei «vati, indovini, auguri, profeti»,[17] i quali sostituiscono alla parola di Dio la poesia che annuncia l’inizio della «nostra nuova chiesa invisibile».[18] Infatti la fabbrica è al contempo luogo infernale e ultima cattedrale del secolo; di conseguenza l’operaio può diventare predicatore con la missione di «riuscire a santificarvi tutti»:[19] Le sue ovaie contenevano un unico Uovo Sacro, quello di Cristo che da una eternità aspettava l’incarnazione, l’immacolata quindi non ha mai avuto le mestruazioni, è stata sempre sacra e pura, un uovo che aspettava di diventare Cristo da una eternità. Dogma proclamato il 20 ottobre 1999 dal sottoscritto in preda ad acuta illuminazione mistica.[20] Esclusa ogni pretesa apostolica, l’elogio dell’individualità e il rifiuto di qualsiasi potere esterno sulla coscienza dell’individuo emergono dalle strampalate e visionarie riflessioni teologiche e filosofiche. Pertanto, anche la ricorrente menzione di Cristo riconduce al conflitto fra l’individuo e il mondo, interno ed esterno, e «assolve a una duplice funzione: è emblema di un corpo straziato ed è anche stralunata figura di una resurrezione metacronica»,[21] l’epifania del volo di un angelo ribelle dipinto dal conterraneo Osvaldo Licini. «Il miracolo è avvenuto e non sarà più ripetuto»[22] perché la poesia è l’immediata e fulminea rivelazione del proprio essere e quindi dichiarazione d’esistenza.
Di Ruscio è in agonismo con qualsiasi figura di potere e nella religione («io sono un nemico d’Iddio e quindi sono da Dio molto amato e non ho bisogno di niente e di nessuno»),[23] soprattutto per quanto riguarda il culto ufficiale cattolico, non può che trovare terreno fertile per l’aggressione satirica. Attraverso il procedimento retorico della blasfemia banalizza il rapporto di subalternità con il divino; d’altronde l’etimologia di blasfemia deriva da bláptein ingiuriare, e phê¯mê, reputazione e «significa appunto diffamazione, contestazione dell’operato della Fama – cioè, più che della divinità in sé, della credenza in essa; del suo senso condiviso, sociale, identitario».[24] Quindi la bestemmia per il marchigiano è il terreno di conflitto con il nemico, per quanto tranquillizzi talvolta il “Palmiro”: «sta tranquillo caro sottoscritto, in queste lettere il nemico è solo una metafora».[25] La blasfemia infatti è il «luogo predestinato e liminale di nominazione dell’Ineffabile»,[26] e solo la poesia può riprodurlo con intento non prettamente mimetico, ma più marcatamente trasgressivo, irrompendo nella dimensione del divino e facendosi religione. Questo doppia relazione con la divinità gioiosa e terribile al contempo emerge dall’alternanza di invettive contro la gerarchia ecclesiastica e il «babbo celeste»,[27] irriverente nomignolo affibbiato al Creatore, e vertiginosi picchi lirici che tendono verso un vago panteismo:
basta con i dualismi
non esiste Iddio e le creature
ma iddio nelle creature
le creature in dio[28]
Un topos ricorrente della sua produzione è quello della processione religiosa alla quale lo accompagnava la nonna che «andava a fregare l’acqua santa immergendo la bottiglietta nella capace acquasantiera»[29]. Il corteo con in testa il corpo di Cristo era seguita dalla «madonna sette volte spadata»[30] di Fermo, ovvero la statua della Madonna del Pianto con le sette spade d’argento conficcate nel petto, e dagli «strafottenti portatori dei valori anche bancari».[31] Sfilavano per tutte le parrocchie cittadine e lungo le strade c’erano le «coperte più belle dei letti matrimoniali esposte sui davanzali»,[32] mentre «le forze dell’ordine cercavano di contenere la pressione della folla che sembrava volesse impadronirsi dell’Iddio dei ricchi».[33] La gerarchia politica ed ecclesiastica faceva bella mostra di sé, potendo vantare la vicinanza all’ostensorio sacro:
l’eja eja alalà, l’urlo d’esultanza fascista si sentiva anche nelle processioni al passaggio dell’arcivescovo oliato e mitratissimo il più ricco agrario del Piceno che portava il santissimo sacramento con un pesantissimo e preziosissimo ostensorio raggiante sole, era proprio il più ricco, il più unto, il più nobile a portare il corpo d’Iddio e vicinissimi al santissimo d’oro massiccio i nobili gli agrari più benestanti del paese. Gli unti, i toccati dalla divina provvidenza erano i portatori d’Iddio per le strade del paese delle tante faticose salite e delle tante precipitanti discese e la particola sacra sembrava una luna sacra, un Dio ricchissimo per i ricchi e c’era anche la madonna del pianto con le sette spade infilzate sulle mammelle sacre che paurosamente vibravano alle scosse dei portatori e nonna indicandomi il mostro sacro mi diceva guarda, cosa hai fatto alla madonna?[34]
Il poeta ha una vera ossessione per questo episodio, e per sua stessa ammissione, egli fu «sempre affascinato dalle cerimonie religiose, dall’oscillazione dei merlettamenti delle confraternite dei mezzadri che a squarciagola urlavano i canti dei riti, i carabinieri con i cappelli piumati e statuari presidiare l’altare».[35] I procedimenti retorici che Di Ruscio utilizza di frequente contribuiscono a restituire l’icastica rappresentazione di una paradossale danza macabra, ma svolgono anche una funzione parodica del linguaggio solenne che si addice al culto, banalizzando la sacralità delle cerimonie quando non le irride apertamente. La bestemmia è connaturata alla dimensione orale della sua scrittura, non è mera mimesi del parlato, ma uno degli strumenti critici con la quale arma la sua poesia nel conflitto basso/alto, individuo/mondo, ma anche nella lotta di classe e nella battaglia poetica per l’autoaffermazione. «Martirizzato dai lapsus e dalle ripetizioni»,[36] Di Ruscio elabora la finzione di una lingua che sfugge al controllo dell’autore (o del “sottoscritto”) ed è responsabile della produzione “sprocedata”[37] di ingiurie, errori ortografici e persino bestemmie, come nei repertori di lapsus più o meno volontari in cui incappa il suo dettato:
non errore ma orrore, non io ma Iddio, non parodia ma poesia, non sbaglio ma bavaglia, non la fine del mimmennio ma del millennio, non cassate ma cazzate, non la processione del porco d’Iddio ma del corpo d’Iddio.[38]
Inoltre la religione professata dalla poesia di Di Ruscio non ammonisce alla caducità dei corpi ma invita a una febbrile vitalità, si contrappone quindi al feticismo cattolico che venera le reliquie «come se il culto vero sia quello della morte e non della resurrezione».[39] Il poeta folgorato dallo «spirito santo patrono dei verbi consacrati»,[40] all’interno della dialettica conflittuale tra individuo e mondo, confessa: «spesso ho creduto di essere iddio»,[41] «Dio dei poeti delle profezie e della morte».[42] Tuttavia è un’istanza rivelatrice della dimensione particolare della sua interiorità, la quale è difesa armandosi di tutti i dubbi. Non c’è verità e quindi nemmeno rivelazione all’infuori della poesia, che per quanto in Di Ruscio sia all’apparenza di impegno civile e militante, sprigiona anarchicamente non le istanze di una classe sociale, ma dell’individuo in quanto essere umano: «Luigi Di Ruscio, al di là delle ovvie etichette, non è stato né un poeta operaio né un operaio poeta ma, più semplicemente, qualcuno che ha saputo tradurre con i mezzi della poesia la condizione operaia nella condizione umana tout court».[43]
Per scorgere le ragioni del suo «iscrivere»,[44] la risposta va quindi ricercata nelle stralunate impennate liriche della sua prosa che con straordinario erotismo riconducono alle passioni umane:
Io mi misi stranamente a sognare che facevo l’amore con una bellissima, ed era proprio la Palmira con cui sognavo di fare l’amore e piano piano risvegliandomi o ridestandomi delicatamente da questo sogno, proprio mentre piano piano mi ridestavo mi accorsi che eravamo strettamente congiunti. Dormivo e sognavo di essere allacciato alla Palmira e nello stesso tempo ero realmente allacciato a lei.
Il mio sogno più bello era nello stesso istante anche la mia realtà più bella e Palmira, forse anch’essa dentro un proprio sogno, assecondava il mio con estrema morbidezza e che il sogno fosse anche la realtà e la realtà fosse anche il sogno mi procurò una folgorazione enorme e anche se il mistero mi capitò una sola volta in tutta la vita fu come se improvvisamente fosse entrato Iddio tutto intero dentro di me e fu proprio questo che mi rese poeta per sempre.[45]
L’ossessiva pratica metapoetica da un lato quindi «pone l’accento su se stesso scrivente come certificazione di esistenza e bisogno corporeo di identità per autolegittimare il proprio dire e il proprio ruolo»,[46] e dall’altro cerca di giustificare il conflitto connaturato nella violenza della sua espressione. Tuttavia, più che nelle risposte, la scrittura si risolve in un continuo interrogarsi sulle ragioni della scrittura, sul portato politico e sociale della poesia e sul compito che questa può ancora assolvere. «È già tanto potersi porre domande»[47] per Di Ruscio, poiché l’imperscrutabile verità è sempre oltre la possibilità della poesia di scandagliare il caos, di decifrarne i simboli. Per quanto il compito del poeta resti quello di «raggiungere la verità estrema, guardare l’orrore e non indietreggiare»,[48] tuttavia può limitarsi soltanto a combattere la menzogna:
è da anni cinquanta che cerco di dipanare la matassa, anni cinquanta di poesia imperterrita per rafforzare tutti i vostri dubbi e combattere contro tutte le vostre certezze perché quando i dubbi sono pochi e tante le certezze la gente si ammazza come le bestie.[49]
Il dubbio è l’unica arma a disposizione per resistere alla brutalizzazione, è il viatico per la salvezza che dispensa il poeta, ma «il rito è eseguito a chiesa vuota davanti al niente e all’ignoto».[50] La funzione maieutica della poesia è messa in scacco non solo dal caos imperscrutabile, ma anche dalla condizione di emarginazione che vive il poeta: «scrivere poesie senza speranza di pubblicazione è uno scrivere quello che non potrò dirvi»,[51] «è il tracciare le carte di un continente inutile».[52] Ma la necessità di scrivere, di mettere «carta davanti alla belva»,[53] si sovrappone a quella fisiologica della sopravvivenza, senza l’una, la poesia, non c’è l’altra, la vita:
Sino a che io posso scrivere io vivrò. Scriverei anche se fossi capitato in un pianeta completamente abbandonato senza nessuna possibilità di far giungere a qualcuno la scrittura, e bisognerebbe scrivere come se uno si trovasse in una solitudine assoluta. Bisogna scrivere di tutto quello che vedo come se lo vedessi per l’ultima volta.[54]
«Al marchigiano non importa niente che lo si legga o no»,[55] scrive Quasimodo nella prefazione a Le streghe s’arrotano le dentiere, in virtù del fatto che «la scrittura è anche una terapia, a forza di scrivere uno riesce a provocare la catarsi, la liberazione dal male».[56] Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che non sia affatto contemplato un destinatario ideale poiché, sebbene non risieda nel lettore la ragione della scrittura, la «verbalizzazione stritolata, inceppata e caotica»[57] che vuole racchiudere in sé tutto l’universo, assume caratteri performativi: è scrittura che agisce sulla lettura, «non passa attraverso il comunicare, asse linguistico rigettato dall’Autore, ma attraverso il rappresentare e l’ostendere».[58] Laddove «la poesia è una maniera d’essere una maniera di vedere dove per solito la gente non vede niente»,[59] si assottiglia il confine fra la parola e la cosa, si sovrappongono i significanti ai significati: la poesia acquista l’aspetto della cosa assolutamente necessaria. Lo scrivere è come uno scavare, alla fine trovi l’incredibile, trovi quello che mai ti eri sognato di trovare, la cosa va cercata e scovata ad ogni costo, ogni poesia è come deve essere, prenderla come fosse un prodotto della natura, una foglia, un ruscello, una mela.[60] Poesia come rivelazione, come epifania, ma anche poesia che dando il nome alle cose, le genera, quindi «scrittura creaturale, che fa e definisce la norma stessa dell’esistenza del mondo».[61] L’orrore del mondo deve essere rappresentato senza intermediazioni per poterne smascherare la menzogna oscurata dai linguaggi mediati e per moltiplicare il portato espressivo della comunicazione/ostensione. Di Ruscio accelera il ritmo della scrittura a velocità vertiginose che scalzano l’autore stesso dalla posizione di controllo sul caos della materia poetica; ricorre alle forme più elementari del verbo e a una sintassi costruita per sedimentazione sul già detto tramite uno schema giustappositivo che predilige predicati all’infinito e all’imperativo. Così le riflessioni prendono la forma di un libretto di istruzioni per il lettore, ma anche per se stesso scrivente e chiunque ritrovi nella poesia una palpitante carica vitale; il risultato è un vero e proprio manuale della resistenza:
Scandite ogni sillaba, mettere nella scansione tutta la vostra rabbia, dire con feroce calma ogni verso che sono riuscito a scrivere, mettere un baratro tra me e loro, oppure leggere come se quello che leggete non riguardi nessuno, come se l’utopia fosse rimasta solo nei miei versi, non dimenticare di fare atti sconci verso il pubblico tutto, a ogni modo divertitevi, la poesia è come il sangue universale, possiamo darlo a tutti, però ogni altro sangue ci mette in pericolo mortale.[62]
Ricorda Apuleio, che mette in guardia il lettore e poi raccomanda al divertimento: Lector, intende: laetaberis. D’altronde la vis ilare e gioiosa di molte pagine del poeta marchigiano è la diretta conseguenza del piacere che lo stesso ricava dalla scrittura, la quale al contempo però gli procura «travagli profondi»[63] e le frequenti delusioni che si alternano alle poche fortune editoriali. Sebbene assumendo una prospettiva macroscopica, risulti poco sorprendente constatare il fenomeno del proletario proveniente da una classe subalterna che comunque riesce a raggiungere un pubblico. Tuttavia considerando il caso particolare di poeta, emigrante ed emarginato, «ultimo nella sua terra a mille lire a giornata / ultimo in questa nuova terra per la sua voce italiana»,[64] la scrittura di Di Ruscio è il miracolo di un’ostinata fiducia nella poesia. Il portato politico della sua produzione non emerge infatti dal riconoscimento nella sua classe sociale, le cui rivendicazioni certo condivide, ma dall’appartenenza alla religione della poesia, dalla fede alle «carte disinteressatamente iscritte e per la sola gioia di comunicarvi tutto senza le reticenze del perbenismo dell’oggettività, una scrittura viva, palpitante al contrario delle scritture spente senza resurrezioni e orgasmi».[65] Allora la carica vitalistica, erotica e spirituale della poesia è per l’essere umano l’unica fuga, la speranza di una salvezza:
Non disperate, mettetevi a scrivere le poesie, ne ricaverete rilasciatezza, felicità gestuale, leggerezza nei contatti con il prossimo vostro, sentirete la presenza degli Dei in prossimità della tua ombra, gioia lavorativa, aumento vertiginoso della creatività in tutti i campi, sviluppo della personalità. Leggermente folle correrai verso tutte le sciagure, ti crederai inseguito da bande antiblasferiche armate di mazze ferrate, sfuggirai ai pericoli con rapidissime fughe, potrai metterti a volare come niente fosse, diminuzione vertiginosa della rigidità muscolare e anche mentale, diminuzione dei mali di testa, sarai in preda a dolcissimi spasimi sessuali. Iscrivere poesie a occhi chiusi, sgranare frasi una dietro l’altra con la massima velocità sino al punto che la battitura segue perfettamente il ritmo delle tue pensate anche quelle più stravaganti, velocità massima nel concatenare libere associazioni, scrivere con la schiena bene appoggiata alla spalliera della sedia, tenere la testa non troppo reclinata sulla tastiera, da oggi tutte le ore sono le nostre mi disse un poeta, fa’ rimbalzare tutto sulla tastiera. Piove, nevica, suona il telefono alla porta tu inchiodato davanti alla tastiera della macchina da scrivere.[66]
[1] Luigi Di Ruscio, Firmum, Ancona, Pequod, 1999, p. 146.
[2] Id., Neve nera, cit., p. 466.
[3] Marco Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, in Geografie della modernità letteraria: atti del XVII Convegno Internazionale della MOD (Perugia, 10-13 giugno, 2005), a cura di Siriana Sgavicchia, Massimiliano Tortora, Pisa, ETS, 2007, p. 489.
[4] Cfr. L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, p. 212: «Mai ho avuto infatuazioni dannunziane, ero infatuato degli Ossi di seppia, e leggevo anche Lavorare stanca», dove a d’Annunzio contrappone il primo Montale e Pavese, e p. 21: «la mia formazione coincise con la prima edizione delle lettere dal carcere e io affabulavo sull’antologia di Anceschi chiamata lirici nuovi […] e vedevo i ladri di biciclette e Roma città aperta».
[5] M. Gezzi, Le strategie del “sottoscritto”: paragrafi per Di Ruscio narratore, https://puntocritico2.wordpress.com /2011/01/18/le-strategie-del-sottoscritto-paragrafi-per-di-ruscio-narratore/ (data di ultima consultazione 19/02/2021)
[6] L. Di Ruscio., Palmiro, cit., p. 23.
[7] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 209.
[8] Ivi, p. 143.
[9] Ivi, p. 351.
[10] Id., Firmum, cit., p. 128.
[11] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 179.
[12] Ivi, p. 219.
[13] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 494, dove il termine castigliano è utilizzato in opposizione al “dispatrio” meneghelliano: «si tratta infatti di una vera e propria eradicazione per cui mezzo la lingua viene privata del suo luogo per essere assegnata irrimediabilmente all’esterno, al “fuori”, in una condizione in cui esodo permanente, memoria, verità e, conseguentemente, possibilità scritturale, coincidono».
[14] L. Di Ruscio., Neve Nera, cit. p. 419.
[15] Ivi, p. 441.
[16] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 314.
[17] Ivi, p. 325.
[18] Id., Neve nera, cit., p. 494.
[19] Ivi, p. 486.
[20] Ivi, p. 459. Cfr per una variante ‘cosmologica’ ivi, p. 489: «Scrivere per la gioia di cancellare e venne il primo Aprile ed ebbi la rivelazione: Primo aprile anniversario dell’esplosione dell’uovo comico cosmico che sia, il giorno che inizia la creazione dell’universo, anniversario della frittata universale, non c’era niente, neppure il tempo e neppure lo spazio però un uovo comico doveva pur esserci, anniversario delle esplosioni dell’ovo, quando tutto il silenzio si mise ad urlare e tutto fugge da noi in una fuga infinita in un furore sempre crescente delle divergenti galassie che precipitano verso il niente», dove “comico” è lapsus per “cosmico”.
[21] E. Zinato, L’oralità di Luigi Di Ruscio, cit., p. 34.
[22] Id., Firmum, cit., p. 146.
[23] Id., L’allucinazione, cit. Cfr. con il componimento numero 89 in L. Di Ruscio, Iscrizioni, Edizioni Biagio Cepollaro, Poesia Italiana. Collana di inediti ebook, 2005, p. 17: «Cristo ha detto di amare i propri nemici / infatti essendo un nemico d’Iddio / io da Dio sono molto amato».
[24] Roberto Cuppone, Iaculatoria in Blasphemia. Il teatro e il sacro, a cura di Roberto Cuppone ed Ester Fuoco, Vicenza, Accademia Olimpica, 2019, p. 8.
[25] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, in Romanzi, cit., p. 271.
[26] R. Cuppone, Iaculatoria, cit., p. 7.
[27] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 223, dove rivolge persino una supplica, imitando gli stilemi della preghiera liturgica: «Babbo mio celeste, tu che non esisti, perdona questa gioia irresponsabile che mi cade addosso tutta intera, questa gioia irresponsabile mentre giro in tutte queste terre matte».
[28] Id., Iscrizioni, Edizioni Biagio Cepollaro, Poesia Italiana. Collana di inediti ebook, 2005, p. 19. Cfr. Id., Poesie Scelte, cit., p. 286: «tutto ritornerà nel ventre d’Iddio / niente andrà perduto / tutto sarà gioiosamente salvato».
[29] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 199.
[30] Id., Neve nera, cit., p. 496.
[31] Ibidem.
[32] Ibidem, si noti che l’uso del congiunzione “anche”, come di frequente in Di Ruscio, non rafforza alcun rapporto copulativo, anzi prende valore limitativo, escludendo che siano portatori di valori, sottinteso, morali.
[33] Ibidem.
[34] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 198.
[35] Id., Neve nera, cit., p. 469.
[36] Id., Firmum, cit., p. 146.
[37] “Sprocedato” è un termine dell’italiano regionale di Lazio, Marche e Umbria, che Di Ruscio ritrova anche nei sonetti di Giuseppe Gioacchino Belli. Cfr. L. Di Ruscio, L’allucinazione, cit., dove la moglie Mary lo rimprovera perché Luigi bestemmia in italiano in presenza dei figli: «Devi smetterla con il tuo sprocedare italico. Scrivi in italiano quello che ti pare ma devi smettertela con il tuo sprocedatissimo parlare con la tua lingua». Si noti anche che le parole di Mary sono riportate in senso espressionista, nemmeno lontanamente con intento realistico.
[38]Id., Zibaldone norvegico, cit., p. 23.
[39] Id., Neve nera, cit., p. 403.
[40] L. Di Ruscio, Firmum, cit., p. 135.
[41] Ivi, p. 93.
[42] Ivi, p. 138.
[43] M. Raffaeli, Prefazione in L. Di Ruscio, Poesie scelte, cit., p. 10.
[44] Andrea Cortellessa, La vergogna delle lettere italiche, cit., p. 537: «se l’azione del Verbalizzatore – col più espressivo e insistito dei suoi lapsus – non è quella di scrivere bensì di iscrivere, è perché questo suo scrivere è in effetti un insistere, l’impuntarsi maniaco su un luogo e un tempo cui si è crocifissi psichicamente: tanto più quanto la pratica esistenziale della fuga, da quel luogo e da quel tempo, abbia in effetti allontanato il protagonista».
[45] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 278.
[46] S. Verdino, Luigi Di Ruscio, in «Istmi», n. 7-8, 2000, p. 96.
[47] L. Di Ruscio, Neve nera, cit., p. 473.
[48] Ivi, p. 426.
[49] Id., Neve nera, cit., 473.
[50] Id., Firmum, cit., p. 125.
[51] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 388.
[52] Id., Firmum, cit., p. 103.
[53] Ivi, p. 113.
[54] Id., Palmiro, cit., p. 131.
[55] S. Quasimodo, Introduzione a Le streghe s’arrotano le dentiere, cit., p. 152.
[56] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 287.
[57] Ivi, p. 173.
[58] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 492.
[59] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., pp. 213-214.
[60] Ivi, p. 287.
[61] M. Carmello, La vicenda di Luigi di Ruscio fra interiorità ed esterno, cit., p. 492.
[62] L. Di Ruscio, Cristi polverizzati, cit., p. 388.
[63] Ivi, p. 304.
[64] Id., Firmum, cit., p. 104.
[65] Id., Cristi polverizzati, cit., p. 362.
[66] Ivi, p. 363. Cfr. una variante in Neve nera, cit., p. 456: «Piove, nevica, buttano le bombe, avanzamento nelle fiamme dell’incendio, il Titanic che affonda e tu imperterrito a scrivere un verso dietro l’altro, smascherare anche l’Iddio immobile, tutti i maiali delle logge massoniche più coperte, tutte le carogne associate e perfino la Repubblica nostra ti sembrerà giovanissima come quando nelle tiepidi notti picene andavo ad attaccare i manifesti per la repubblica nostra».