Nosferatu non esiste
di Andrea Accardi
Io che m’illudevo di tenere tutto insieme
che le mie braccia arrivassero oltre questo
fuggi fuggi e chiudessero in tempo
ogni tipo di porta
ecco che invece mi ritrovo in mezzo
alle cose che finiscono
a questo continuo perdere pezzi
e lasciare andare, recidere
decidere
svegliarsi in viaggio con la schiena a pezzi
vedere paesaggi sognati da altri
(Albumi d’alba, riflessi, screzi.
La trasparenza dei Carpazi)
***
Resto immerso nel rumore del sangue,
caldo crepitio di globuli, sibilo
che unisce, difendo la casa
con barricate d’ossa, mi aggrappo
a ogni cosa con i denti
ma lascio solo un’orma ridicola:
due fori ciechi. Da piccolo
guardavo la luce cambiare
tra le persiane, come uno strappo
di tempo che nessuno ricuce.
Nel buio ora sento i topi brulicare
sobbalzare, divorare tutto.
Bisogna dare ali
a questi topi.
***
Mi tormentano immagini, fanno
male dietro gli occhi i ricordi
come questo che si accanisce adesso
strisce di sole sul bucato steso
un balcone sopra l’altro, il solito
latrato lontano, ovunque lo stesso
le stanze dell’infanzia degli altri
la dolcezza di un garage, poi la salita
una mano che saluta, l’altra che parte
lo sventolio feroce di alberi e case
fino a quando un’intera città
scompare dalle carte.
***
Rivedo l’immagine del mio corpo
nei diversi punti della rete
– in cima a scalinate, dietro porte
a vetri, sul fondo di paesi
che diventano spiagge – ma sempre
come in movimento e in controluce
la vedo che fugge, scivola, affonda
nella sua stessa presenza, incavo
pulsante, vuota intermittenza,
macchia tremolante sullo sfondo.
E invece la cornice che da sempre
mi circonda e mi separa dal mondo
ecco che adesso prende il sopravvento,
si avventa sulla vita, e ogni esistenza
soltanto accennata ritorna
di colpo insopportabile e vivida,
fulminata da odori estivi,
fissata in colori di ceramica,
in una bugia di smalto.
Il tempo che prosegue senza di me
è tempo reciso in cui non invecchio.
Per questo sparisco allo specchio.
***
Costeggiavamo campetti accesi
nel lampo del vedere un tiro fuori,
poi la strada si alzava all’improvviso
e dava su antenne, bagliori, sui paesi
nascosti dal fumo. Ma le carte non dicono
i posti che lasciamo, e le cose
si vendicano del nostro oltrepassarle,
fanno fronte comune, tutto del quale
non possiamo essere parte, mondo ch’esiste
senza noi oscuramente, ci sono sale
d’aspetto senza riviste, luci
dietro finestre, mani che spostano
sedie e non possiamo farci niente.
Nelle città immense la gente vive
senza perdersi, guarda la pioggia
sui palazzi di fronte, apre negozi
di oggettistica, si affaccia lo stesso
fiduciosa dai balconi sui fiumi
di sapone che scorrono in basso.
Nei centri piccoli vicino
alle stazioni saluti, gesti
consueti, sapere cosa fare
il caffè da prendere.
E di queste abitudini non so
dire nulla, anzi è lì che sprofondo
ogni volta, nelle vite degli altri
trasandate e inspiegabili,
nel loro mattutino ripetere il caso,
sbattere in alto come un sogno appeso.
***
La notte porta draghi di fosfeni
e un buio senza fondo dietro
presagi di cime, potessi uscire
da questo buio, giocare al gioco
del tempo, scegliere e rinunciare
come fai tu vivendo. Ma queste
infinite voglie, nascoste teste
d’aglio, avvelenano la stanza
e tutto il resto, il mio amore non sceglie
manca il bersaglio, nulla gli sembra
abbastanza.
***
Da qui non ti vedo e non vedo
la tua casa
e intorno a me continua ad accadere
questa selezione idiota
e silenziosa.
Penso a te come a un rimedio
come a una via d’uscita.
Il tuo nome sa di cose
che a forza di non crederci
vengono esaudite.
La tua casa è sulla carta
in mezzo a linee che si addensano
vortice minerale, gorgo
di antracite
(ti scrivo dal cerchio di un ostello
che è una pausa qualunque del mondo
scotta la ghisa ai bordi della stanza
e appanna i vetri e sfianca le voci
qualcuno che impreca, l’ostessa che prega)
***
Capitava di lasciare posti e persone
e guardare indietro fino a vederli
svanire, di pensare l’impossibile
di una casa in assenza di me
che l’abitavo, di vedere gli altri
già dissolti
nell’ultima parte di ogni cosa.
Anche adesso che avanzo verso di te
per ogni metro di spazio sperperato
registro il punto esatto della perdita
del mio non essere più lì
mentre l’aria si riempie di una musica
d’archi, suonata per cosa, da chi
(Sto arrivando.
Ecco il castello, il sortilegio.
La pietà del tuo contagio)