L’inutile sacrificio della purezza
di Eleonora Roaro
Uccidi l’unicorno. Epoca del lavoro culturale interiore, il brillante esordio narrativo di Gabriele Sassone (1983) per il Saggiatore, è nel contempo Bildungsroman, raccolta di memorie e saggio sull’industria culturale e sulla produzione di immagini. Protagonista del romanzo è un quarantenne che, all’interno di confini spaziali (il suo bilocale) e temporali (una notte) claustrofobici e ben definiti, si trova a dover improvvisare in poche ore la presentazione di un convegno nell’università in cui insegna sul tema – volutamente generalista – Art in the Age of Social Media. E nel tentativo di identificare il momento in cui «una persona comune diventa un artista» (p. 16) il protagonista analizza e mette in dubbio i meccanismi di sfruttamento su cui si basa il sistema culturale – spesso precario e intermittente –, i preconcetti sulla produzione di immagini, il funzionamento del mercato dell’arte e, non ultimo, il ruolo della formazione in ambito genitoriale e accademico.
I ricordi personali del protagonista legati ai suoi primi lavori come assistente di galleria e agli aspiranti artisti conosciuti nel corso degli anni mettono in luce le contraddizioni di un sistema in cui questi «lavorano di continuo ma sono pagati raramente» (p. 36). Scrive l’autore, riecheggiando Marcel Duchamp e il rifiuto del lavoro di Maurizio Lazzarato: «L’artista emergente non è subordinato a un padrone, ma è subordinato ai dispositivi di potere» (p. 37).
Lo sguardo situato del protagonista permette, da un lato, di seguire la produzione del lavoro culturale nel suo svolgersi, con i suoi dubbi e contraddizioni, nella volontà di demistificare una professione – quella del docente e del curatore – dove ben poco è lasciato all’ispirazione ma è invece frutto di ricerca meticolosa; dall’altro mette in scena un voyeurismo assimilabile a quello dei social media mostrando in maniera morbosa dettagli del tutto irrilevanti del suo modo di vivere, su tutti l’ossessione per il fitness. Il corpo del protagonista, inoltre, non solo viene evocato in relazione all’allenamento: la sua gestualità quotidiana, dal preparare una tisana allo sfogliare i libri utili alla creazione delle slide, è sempre descritta in maniera meticolosa, a ricordarci che il pensiero non è mai totalmente astratto.
Il titolo del libro è rappresentativo della volontà dell’autore di far coesistere tra loro più livelli, e quindi «high e low culture» (p. 113), dando la stessa importanza a ekphrasis di opere d’arte, prodotti della cultura pop ed elementi della vita quotidiana: è tratto infatti da un verso del brano Gutter Ballet (1989) dei Savatage, gruppo heavy metal statunitense, di cui il protagonista del romanzo guarda il video su YouTube di un vecchio live che, a sua volta, innesca una catena di ricordi e riflessioni legati alla giovinezza.
«Il verso completo di Gutter Ballet ordina di uccidere l’unicorno soltanto per possedere il suo avorio. È la metafora dello spreco tipico dei giovani. La distruzione dell’innocenza e della purezza; la distruzione di ciò che è sacro. La distruzione di ciò che è bello, semplicemente». (p. 71)
Il protagonista ripercorre il pensiero di teorici, artisti e scrittori importanti per la sua formazione (da Boris Groys a Paul Preciado, da Giuseppe Berto a Luigi di Ruscio) che hanno minato le sue certezze legate all’educazione familiare e scolastica, ma non riesce a superare questa contraddizione, esemplificata al meglio nel suo modo di guardare le donne o dal timore di sembrare un «minchiamoscia» (p. 14). Difatti, se la sua educazione sentimentale, nella volontà di ripensare una critica d’arte in cui la posizione del critico sia dialogica e non impositiva e giudicante, pone le proprie basi in Autoritratto di Carla Lonzi, la realtà dei fatti lo contraddice, e il suo altro non è che un tentativo fallito di essere diverso dal sistema patriarcale ed esclusivo in cui è cresciuto.
Questo conflitto tra quello che siamo, quello che vorremmo essere e quello che non saremo mai è ben esemplificato nel rapporto con il figlio piccolo:
«Io sento una responsabilità enorme verso mio figlio. Lo amo più di ogni altra cosa, eppure so che gli insegnerò a commettere i miei stessi errori. Per esempio a realizzarsi nella vita senza essere prepotente ma neanche troppo interessato al prossimo. A vestirsi con indumenti prodotti tramite lo sfruttamento di altri bambini. A essere gentile e educato, a tratti molto generoso, ma incapace di privarsi del suo benessere». (p. 121)
Nonostante il protagonista si metta costantemente in dubbio e sottoponga sempre la sua identità a una verifica (p. 203), il suo fallimento disvela l’immutabilità delle cose. La struttura circolare del romanzo – che si apre e si chiude con la stessa scena – è emblematica nel dimostrare che tutto resta irrisolto e che continua a riproporsi nello stesso modo: il passato si sovrappone al presente, e si ripete.