La felicità dei mobilifici
Assieme ad alcuni amici all’inizio del 1990 fondai un giornale che usciva settimanalmente, composizione a piombo, formato da vecchio foglio aziendale, 260 x 325 mm; erano molte, tutt’a un tratto, le potenzialità inutilizzate. Volevamo accompagnare e promuovere la democratizzazione del paese. A metà febbraio uscì il primo numero. Non avemmo bisogno di un capitale di partenza, poiché l’intera tiratura fu venduta molto prima della scadenza della fattura di stampa. Agli annunci inizialmente volemmo rinunciare, lo spazio ci occorreva per cose più importanti.
La sera del 18 marzo, il giorno delle elezioni della Camera del Popolo, ridemmo delle prime proiezioni. Gli occidentali non capivano proprio niente! A poco a poco tuttavia s’insinuò in noi la verità. Il 2,9 per cento al Neues Forum nel risultato definitivo fu uno shock. Adesso potevamo anche chiudere il giornale. Ma in qualche modo dovevamo pur guadagnare dei soldi e tutti ci eravamo già licenziati due mesi prima. L’aspetto più penoso era che adesso erano proprio i «flauti dolci» dei partiti di blocco a festeggiare la vittoria. Non erano forse stati i peggiori leccapiedi? Il nuovo segretario Lothar de Maiziere non aveva forse parlato, ancora in febbraio, di un «socialismo più caloroso»?
Presto non seppi più cosa scrivere. La maggioranza aveva deciso. La logica dei numeri era diversa da quella delle parole. E cosa potevano le parole contro i numeri? Sempre e ovunque era esclusivamente una questione di numeri! E dunque di soldi. Nella primavera 1990 riflettei per la prima volta sul denaro. Era divertente guadagnare soldi come imprenditore, e per i miei parametri era una quantità di denaro inverosimile. Per altro verso avevo paura di indebitarmi fino alla fine dei miei giorni e dover spedire venti dipendenti all’ufficio di collocamento.
Con l’unione monetaria del 1° luglio 1990 fondammo un giornale di annunci. Invece di battermi per la democrazia, presto ebbi a che fare soltanto con mobilifici di nuova apertura e concessionarie di automobili. Annunci a cadenza settimanale, venti per cento di sconto, per lei un altro dieci per cento, buona collocazione, anzi ottima. Dovevo cercare di soppiantare i cosiddetti concorrenti, che avevano assunto la nostra segretaria e possedevano la nostra banca dati clienti, della quale invece noi sentivamo la mancanza. Li odiavo, tutti quei «concorrenti», perché puntavano a minare la nostra esistenza professionale, anzi la nostra esistenza tout court – come noi la loro.
Fino a poco prima avevamo manifestato a voci spiegate: «Democrazia, ora o mai!», «Libere elezioni!», «Libertà di movimento!», «Stasi in miniera!», «SÌ all’educazione popolare, NO a educazione militare, alzabandiera e Margot Honecker!». Nell’autunno 1989 avevo fatto esperienza di come rivendicazione e prassi potessero combinarsi. Era in gioco il volto umano della società, quindi la dignità di noi tutti, un mondo migliore. Ma che aspetto aveva il mio volto, adesso? Deformato dalla rabbia? In preda al panico? Perplesso? Braccato? Quel che facevo giorno dopo giorno non era forse contrario a ciò che ritenevo buono e giusto? Mi ero mai contorto davanti a un funzionario come facevo adesso davanti al proprietario del più grande mobilificio della regione? Che all’improvviso era diventato il re della regione, nella quale, come praticamente ovunque nell’Est, le grandi aziende avevano dichiarato fallimento, perché come c’era da aspettarsi non erano in grado di pagare salari e stipendi in nuovi marchi.
La cosa più strana di tutta la faccenda, però, è che allora non avrei potuto dirlo come lo sto descrivendo adesso. La narrazione della «svolta» andò diversamente. Si parlò di auto-liberazione, di democrazia anziché dittatura, libertà anziché muro, economia di mercato anziché pianificata ecc. ecc. E non era forse vero? Chi sollevava un qualsiasi dubbio, o era un inguaribile passatista o/e era privo di senso della realtà. Uno sguardo verso est, nei paesi fratelli di un tempo, era pur sufficiente a vedere quanto indicibilmente bene ce la passassimo noi tedeschi orientali. E il mondo intero non voleva e vuole forse vivere come noi? C’era o c’è ancora una qualche alternativa apprezzabile alla nostra way of life? E non aveva forse ragione Francis Fukuyama con la sua ristampa de La fine della storia?
I rapporti di forza nel mondo sono mutati dal 1989/90. Le «normalità» di allora, tuttavia, si sono globalizzate e in tal modo consolidate. Esse condizionano e cambiano il mondo ininterrottamente, sono più efficaci della fine del conflitto fra i due blocchi.
Una di queste «normalità» è un economicismo onnipervasivo, il cui mezzo e il cui fine possono essere individuati nella privatizzazione e nel profitto privato. Da ciò dipende tutto il resto, che ne è guidato e subordinato. Pensare qualcosa che non «renda», che non serva alla crescita, che si sottragga al principio McKinsey e alle quote, è un’opzione risicata e marginale. E tutto ciò viene interpretato come fine delle ideologie, come avvento di una politica conforme al mercato e orientata ai vincoli esistenti. Le mire di profitto private sono considerate normali, si ritiene cioè che abbiano un fondamento nella natura umana.
Un’altra «normalità», connessa alla prima, è la coscienza di aver vinto. L’Occidente è il vincitore! Noi siamo i buoni!
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Ripensando a quanto io stesso mi sia lasciato abbindolare da questo economicismo, la cosa mi diverte o mi spaventa, a seconda; credevo di essere passato da un mondo costruito sulle parole a uno fatto ormai soltanto di numeri. E su questa base avevo tentato di descrivere l’impressione che ormai nulla mi avrebbe dovuto legare al mondo a parte il denaro. Tutto il resto era subordinato al denaro (o alla crescita o al Pil o al valore azionario), poiché sembrava che con il denaro si potesse fare tutto, nel bene e nel male.
Come giovane imprenditore nel 1990 ricevetti benevole pacche sulle spalle: anche tu ce la puoi fare se ti ci metti d’impegno e ti rimbocchi le maniche. Ma fare cosa? Arrivare in alto, ai soldi e al riconoscimento! Mi sentivo rigettato nella felicità privata, mentre si sarebbe dovuto trattare della felicità di tutti. L’idea, se non addirittura la pretesa che la mia felicità fosse legata alla felicità altrui, che non potessero darsi indipendentemente l’una dall’altra, era contraddetta dalla mia pratica quotidiana. La mia felicità era l’infelicità degli altri. E la felicità degli altri la nostra infelicità. Quella nostra lotta, tuttavia, che cos’era? La felicità dei mobilifici e delle concessionarie? E non approfittavamo forse noi stessi della concorrenza fra le tipografie? Non volevamo scegliere anche noi la migliore di tutte? Insomma, questo sistema non è forse il migliore per tutti?
Assolutamente no! Basta anche solo la constatazione per cui il 60% dei danni ambientali provocati dalla popolazione della Svizzera si trova al di fuori dei confini di quel paese. Per la Germania non sarà tanto diverso.
Se compriamo un computer o un cellulare, di solito conserviamo la confezione oppure smaltiamo il polistirolo nel bidone giallo e il cartone in quello blu, e prima o poi il computer finisce in quello arancione. Ma ciò che è stato necessario per ottenere le varie materie prime per questi oggetti, ciò che è occorso per raccoglierle, assemblarle eccetera, tutto questo si sottrae al nostro sguardo, come anche il percorso degli stessi oggetti una volta richiuso il coperchio del bidone.
Questo significa: sì, abbiamo paesaggi floridi perché abbiamo chiuso e rottamato o venduto i nostri vecchi impianti industriali più inquinanti. Non siamo più noi a dover inghiottire lo sporco, ce lo possiamo permettere, adesso lo inghiottono altri. Per questo la nostra aspettativa di vita è anche più elevata, se poi si è benestanti lo è ancora un po’ di più.
Nel racconto Vecchio scorticatoio di Wolfgang Hilbig si legge: «Era strano che si corresse il rischio di cadere fuori dal mondo se ci s’interessava delle cose più semplici… e magari persino il rischio di sparire dal mondo. Era come se anche gli oggetti più semplici, se solo vi si rifletteva abbastanza a lungo, si estendessero fino alle profondità sotterranee, come se fossero legati con una fibra della loro essenza al male nascosto».
Ciò che Wolfgang Hilbig coglie nel suo valore universale è un’esperienza che ognuna e ognuno di noi può fare ogni giorno, è il doppio fondo delle cose. A volte è sufficiente prendere coscienza delle condizioni in cui vengono prodotti i nostri alimenti. Da lì si può proseguire considerando le condizioni di produzione del cotone della mia camicia e quelle in cui viene cucito il tessuto – per non parlare delle materie prime e dei prodotti di cui necessita la nostra way of life giorno dopo giorno, ora dopo ora. Il bel mondo della nostra merce è sorretto nel profondo da un lavoro massacrante e non troppo diverso dal lavoro schiavile. Basta grattare un poco la superficie – a volte di più, a volte di meno – ed ecco che inizia il viaggio all’inferno.
Se oggi dovessi nominare una delle nuove contraddizioni fondamentali del capitalismo, senza considerare superate quelle esistite finora, forse la definirei il fenomeno dell’89: credersi i vincitori indiscussi della Storia, benché in tutto il pianeta si producano condizioni insostenibili.
NdR: È da poco uscito per Marietti 1820 La felicità dei mobilifici, una piccola raccolta di interventi di Ingo Schulze curata da Stefano Zangrando. Pubblichiamo qui un estratto dal primo testo del libro, ringraziando la casa editrice e Zangrando.
Bravo Schulze! Tutto questo è materia anche del suo (spassoso) romanzo “Peter Holtz” (Feltrinelli).