Un pensiero della luce
di David Watkins
Opera grafica di Andrea Balietti
Esistono luci pesanti. Luminosissime e pesanti. Tanto luminose da sbiadire. Di una pesantezza incorporea. Una curva della luce che avvolge strade mari e città entro un lenzuolo di fantasma. Domeniche spiovute in mezzo alla settimana. Di un’inconsistenza difficile da respirare. Come bagnate da un lamento, una nenia implicita, una lagnanza madornale. Luci pregne di tutto ciò che è quasi esistito. Luci possibili. Indifferenti alle stagioni, estranee all’alternativa del caldo e del freddo, senza una latitudine propria, sprovviste di un dove o di un quando che si addica al mix d’ovatta e sicumera in cui prende forma il loro immenso sbadiglio. Una biacca eterna e, dunque, fuori luogo.
Più che a una luce, assomigliano a un pensiero della luce. Eppure accadono. Entrano nelle case, mettono tutto tra parantesi, violano una a una le possibilità del buio, iniettano nei rifugi più angusti miriadi di lontananze, facendole passare ovunque, tapparelle aperte o semichiuse, poco importa.
Tutti i mondi che parevano non esistere, relegati nel non più, nel non ancora, inghiottiti in un’idea di distruzione, tutti i mondi scartati per un pelo trovano un asilo nel gravame di queste luci, un riverbero che li fa insistere nel mondo.
Esse si fanno carico di tutto quanto si credeva estinto.
È per scrollarsi di dosso questa luce di troppo che a volte le mani si agitano come senza motivo, si lascia cadere tutto, si esce finalmente a passeggiare.