Intervista a Mario Calabresi
Mario Calabresi, noto giornalista e in diversi periodi direttore dei quotidiani La Stampa e Repubblica, è figlio del commissario di polizia Luigi Calabresi, ucciso nel 1972 – secondo quanto accertato dalle successive indagini – da un commando di persone che facevano riferimento alla sinistra estrema di quegli anni. L’uccisione doveva vendicare il suo presunto ruolo nella morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, illegalmente trattenuto in questura il 16 dicembre 1969, deceduto in seguito alla caduta da una finestra della questura milanese (“malore attivo” si disse!). Ora che vari componenti di questo commando sono stati arrestati in Francia come dai noti accordi intervenuti tra Draghi e Macron, Mario Calabresi (che aveva due anni quando il padre fu ucciso) è stato ovviamente intervistato in quanto figlio di una delle vittime; volentieri riporto qualche brano dell’intervista apparsa sul Corriere della Sera, perché mi sembra inaspettatamente interessante, pacata ed estranea alle polemiche varie tra giustizialisti e indulgenti.
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D.: Invece qual è il suo sentimento privato e personale?
R.: «Come mia madre e i miei fratelli, non riesco a provare alcuna soddisfazione. L’idea che un uomo anziano e molto malato [allude a Giorgio Pietrostefani, probabile mandante dell’uccisione] vada in galera non è di alcun risarcimento per noi».
D.: La fuga in Francia non è stata una scelta ben precisa?
R.: «Come no. Durante il processo di revisione a Mestre, un giorno mio fratello Paolo si rivolse a mia madre. Guardalo bene, le disse, che secondo me non lo rivedi più. Sapevamo che sarebbe successo».
D.: Perché due anni fa decise di incontrarlo?
R.: «Era giunto il tempo di guardarlo in faccia. Di fare una cosa per me stesso. Fu la prima cosa che gli dissi quando ci vedemmo in un hotel a Parigi. Sono qui non come giornalista, non come scrittore, ma come figlio del commissario Calabresi».
D.: Ha trovato le risposte che cercava?
R.: «Il nostro colloquio di quel giorno rimarrà sempre una questione privata, tra me e lui. Per me è stato un momento di pacificazione definitiva, che mi è servito molto. Credo che a livello emotivo non sia stato facile neppure per lui».
D.: Che impressione le fece?
R.: «Un uomo stanco e malato. Molto diverso dalla persona spavalda vista durante i processi. Oggi non provo livore o rancore nei suoi confronti».
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D.: Firmerebbe una eventuale domanda di grazia?
R.: «Non siamo nel Medioevo. Non sono le famiglie delle vittime a dover decidere, ma le istituzioni. Si tratta di un percorso e di decisioni da prendere nell’interesse generale. Al netto delle condizioni di salute di Pietrostefani, penso piuttosto a un provvedimento generale, che arrivi alla fine di un percorso collettivo. Qualcosa di simile alla Commissione per la verità e la riconciliazione presieduta da Desmond Tutu in Sudafrica. Clemenza, in cambio della verità su quegli anni».
D.: O dell’ammissione delle proprie colpe?
R.: «Non mi aspetto alcun autodafé. Ma credo che queste persone ci debbano qualcosa. Ci devono pezzi di verità. Sono uomini e donne che hanno partecipato a delitti che hanno segnato la storia di questo Paese. Ci mancano ancora dettagli, e soprattutto le loro voci per ricostruire quei fatti così tragici. Penso che dovrebbero assumersi le loro responsabilità».
D.: E se lo facessero?
R.: «Sarei il primo a chiedere un gesto di clemenza nei loro confronti. Credo che oggi raggiungere una verità definitiva abbia molto più valore che tenere quelle persone in galera per il resto della loro vita. All’improvviso abbiamo una occasione inattesa e irripetibile per fare un bilancio compiuto, con il contributo degli ultimi latitanti arrestati in Francia. Se si riuscisse a coglierla, sarebbe quasi doveroso un provvedimento che sancisca la fine di quella».