Radio days: Mirco Salvadori & Arlo Bigazzi

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Ding Dong You’re Dead

di musica, perduta indipendenza, tenebra e rivoluzione

Mirco Salvadori in conversazione con Arlo Bigazzi

 

Il battello sul quale stiamo viaggiando arranca a fatica affrontando le forti correnti avverse. Ci sta trascinando nei territori della penombra, lì dove le note suonano in modo diverso, capaci di trasformarsi in feroci sirene, abili nell’ammaliare e irrimediabilmente ingoiare chi si pone impreparato al loro ascolto. Siamo in due, sul ponte di questa piccola e malandata imbarcazione. A discutere, replicare e obiettare ciò che sostengo, un capitano di lungo corso che ha deciso di condividere la mia stessa sorte. Fossi cresciuto a manga e cartoni animati negli anni ’80 lo chiamerei Capitan Harlock ma la mia età mi obbliga a pensare ad altre assonanze come quelle legate al nome di Capitan Marlow. Forse è per questo che ci ritroviamo a galleggiare su queste scure e torbide acque alla ricerca di una risposta complicata da ottenere, cercando di capire cosa nasconde la fitta foresta che circonda la nostra barca. Ci confronteremo affrontando un invisibile Kurtz che su questa verde e umida penombra impera.

Il cappello da capitano di Marina a coprire il bianco dei capelli raccolti in un codino, la perenne sigaretta accesa e il marcato accento che contraddistingue la sua provenienza, Capitan Arlo Bigazzi se ne sta seduto sul ponte di questo trabiccolo a vapore sorseggiando il suo chinotto. Lo guardo e penso che ho di fronte a me una parte consistente del suono indipendente italiano, colui che assieme al fratello Giampiero ha fondato la Materiali Sonori, un’etichetta discografica nata nel 1977 e cresciuta nel credo dell’indipendenza artistica e nell’internazionalità dell’offerta culturale. È assieme a questo novello Capitan Marlow, musicista e produttore toscano, che attraverserò la tenebra, in uno scambio di idee e pareri rigardanti la feroce decadenza musicale in un paese che a sua volta si rintana sempre più nell’intrico della jungla profonda, lì dove si annida l’orrido.

 

Arlo Bigazzi e Chiara Cappelli – L’infanzia da “Majakovskij!”

 

Mirco Salvadori: Non è semplice affrontare una discussione del genere, vista l’ampiezza degli argomenti che si dovrebbero trattare. Non solo musica ma anche il contesto nel quale viene prodotta e diffusa e la sua qualità in funzione del destinatario finale. Come prima cosa però vorrei cercare di capire se il mio sentire è anche il tuo, se ti senti sempre più estraneo a un mondo che un tempo ti apparteneva e ti rappresentava. Una realtà che aveva dei principi di massima che man mano sono scomparsi nell’appiattimento generale di un’offerta che mira sempre più alla semplificazione basica inducendoti a rifugiarti nell’unico angolo di mondo dove ancora ti riconosci.

 

Arlo Bigazzi: Fisicamente, sì. Ma per il resto non mi rifugio molto. Mi sento parte del mondo, mi piace starci, anche se poi rimango abbastanza ai suoi margini. Non sono attratto dall’idea di vivere in isole protettive, di appartenenza. Riserve indiane dove ce le cantiamo e suoniamo persuadendoci di essere “i migliori”. Ma non mi piace neppure essere in mano alla “Grande Industria”. Allineato al Sistema. E poi non sono mai stato affascinato dai lustrini, sono d’indole francescana. Come diceva un mio amico, “noi abbiamo molte cose in comune con loro, sono loro che non hanno niente in comune con noi”.

 

Sinceramente ti invidio, ti invidio perché riesci a bere il chinotto che da sempre detesto ma ti invidio soprattutto per la tua capacità nel mediare.

 

Mediativo penso di esserlo poco, in verità. Mi guardo intorno, rifletto, a volte mi viene di farmi un’opinione. Non è detto che sia giusta ma prendo comunque la mia strada. In fin dei conti non credo di avere grandi convinzioni da far valere o da proteggere, però ho l’urgenza, la necessità quasi fisica di inseguire un’ Utopia, pertanto cerco di abbandonare cinismi e diffidenze e vado da quella parte. Magari non prendo neppure la strada giusta e provo a cambiarla se me ne rendo conto, ma vado comunque da quella parte.

 

Ti passo un altro chinotto che dici? Ok, siamo forse simili e giungiamo comunque dallo stesso passato ma ovviamente apparteniamo a due realtà diverse. Tu suoni e produci, sei un musicista ed io tento di de-scrivere ciò che tu e molti altri tuoi simili cercate di dire con il vostro lavoro. Al tuo pari lo faccio da una postazione che mi permette l’assoluta indipendenza espressiva, una riserva come tu la chiami, nata spontaneamente, per sottrazione.

 

Aspetta. Capiamoci: per “riserva” intendo quando evitiamo un confronto concreto con il mondo, quando ci rifugiamo tra animali della stessa specie. A me piace il confronto ma pure io, in fin dei conti, vado per sottrazione: raramente ascolto e guardo cose che so già che poco m’interesseranno. Mi sembra tempo sprecato.

 

Sai che penso? Penso che quella porzione di mondo sarà pure una riserva, ma è attiva. È poco conosciuta e zero valutata ma, diosanto, se è viva! Lo è perché chi vi suona lo fa usando ancora la curiosità della ricerca e i mezzi che essa ha avuto modo di mettere al nostro servizio, le macchine che possono interagire con il suono degli strumenti, dar loro una voce altra, innovativa. Lo è perché le musiciste e musicisti, le sound artist e i soundartist, video artist, sound designer, multimedia artist che tentano di descriverla lo fanno con la passione dimenticata dei vecchi barricaderi, protetti dallo sbarramento che solo la reale indipendenza può fornire. Guarda caso la maggioranza di loro agisce diffondendo il proprio lavoro su etichette discografiche estere perché da noi ben poche sono le label che si preoccupano di indagare e pubblicizzare realtà che non siano di facile fruizione, pronte per il possibile utilizzo per la massa.

 

 

                         Enrico Coniglio e Giulio Aldinucci – Stalkin the Elusive

 

Fermiamoci Arlo, proviamo ad analizzare questo termine: indipendenza e la valenza che ancora può avere nella realtà musicale italiana. Ovunque ti giri vedi gran sventolii libertari sempre abbinati a termini quali rock o indie. Da anni ripeto una frase che ormai si è trasformata in un mantra, sono le stesse parole usate da Simon Frith per il titolo del suo libro uscito, bada bene, nel 1988. Music for pleasure, tradotto in un definitivo Il Rock E’ Finito e con il rock anche il fenomeno indie, aggiungo.

 

Dipende da cosa vogliamo intendere per indie. Adesso sono tutti indie. L’industria discografica, le Major, che io sappia, hanno ormai pochissimi artisti direttamente sotto contratto. L’industria discografica fa parte del sistema consumistico ed ha la necessità di trarre profitto in breve tempo, quindi tende a esaurire velocemente la merce ed è per sua natura poco interessata a prodotti utili culturamente e socialmente e che necessitano d’investimenti diversi. In ogni modo, la crescita culturale del pubblico non è certo il suo obiettivo. Ha pure imparato a vendere l’ideologia, il costume. Il marketing, poi, uniforma il prodotto e il metodo di consumo. Anche se poi il rock – nato comunque come prodotto per i consumatori giovani – non è finito. Il rock è un’attitudine, ce ne vorrà di tempo perché si esaurisca…

 

La mia è ovviamente una provocazione, il rock fischia ancora ma bisogna saper cercare per trovare la vera bufera. Ciò che mi crea ansia è che in questo nostro piccolo angolo di mondo tutto italiano si insiste a voler vedere e vendere la musica per quello che non è. Ricordo bene i primissimi festival delle vere etichette indipendenti degli anni ’80. Il confronto con quelli organizzati per esempio dal MEI, che continua imperterrita a vivere fuori dal tempo pubblicizzando le sue manifestazioni come somma espressione dell’ormai defunto popolo indie-rock, è impietoso. I’acronimo stesso lo indica senza remora alcuna: MEI con la I di indipendenti.

 

Sai, io ho fatto le prime esperienze in quel periodo dove “indipendenti” significava essere antagonisti al Sistema. Provare a cambiarlo se non abbatterlo. Per me indipendenti erano Ivan Della Mea e Giovanna Marini con I Dischi del Sole, oppure Rough Trade, la Factory e Recommended Records in Inghilterra. La Schneball degli Embryo in Germania e la Ralph Records negli Stati Uniti. Il contenuto musicale, quello estetico, erano anche contenuto politico. “Rock In Oppositions”, per capirsi. Quel movimento, avviato da Chris Cutler degli Henry Cow nel finire degli Anni Settanta, in opposizione, appunto, all’industria discografica che aveva come unico scopo il profitto. Di conseguenza anche il “contenuto economico” era politico: non venivano realizzati album avendo alle spalle i finanziamenti delle Major. Non distribuivamo volantini ma provavamo a distribuire musica. Era fare attività politica in modo diverso. Pensa anche al punk: stilisticamente mi ha poco attratto ma è stata una bella lezione d’indipendenza. Adesso si è persa quella connotazione ma “indipendente”, pur sapendo che società e costumi sono cambiati molto, dovrebbe mantenere quel significato. L’uso del termine indie, com’è usato oggi, non so cosa possa significare, se non “aziende che non fanno direttamente parte di una multinazionale”. De Gregori è indie? Ha una sua etichetta, la Caravan. Oltre ai suoi dischi ne ha prodotti anche per il fratello. Non vorrei sbagliare, ma credo che anche Gigi D’Alessio sia un indipendente. Ha la GGD, specializzata in musica napoletana. Però, come per la Caravan, è distribuito Sony Music. Sono quindi indipendenti? Per me, non molto. Come non lo è qualunque musicista che abbia avuto finanziamenti da una Major. Per il MEI si vede che lo sono. Che ti devo dire… Forse pensano più a far conoscere il mercato musicale in genere che a promuovere un prodotto che abbia una valenza culturale e una scelta di campo. In quella logica sono indipendenti anche il Clan Celentano e la Sugar di Caterina Caselli. Ma quasi tutte seguono una logica squisitamente commerciale. Non hanno come obiettivo un progetto politico culturale. E neppure hanno alle spalle un movimento culturale com’era invece negli Anni ’70 e ’80. Infatti l’Independent Music Meeting che si teneva a Firenze a metà degli anni ’80, tendeva a sostenere un movimento culturale. Cercava di creare un confronto tra le realtà culturali di quegli anni. Poi è andata com’è andata, ma adesso si punta quasi esclusivamente alla quantita, accantonando la qualità. Oggi, vedi, si cunsuma “cultura di sinistra” e non si prova a creare ed evolvere una cultura come invece cercavano di fare i citati Della Mea, Chris Cutler o le Liberation Music Orchestra di Charlie Haden. E questa nuova cultura di sinistra, edulcorata, appiattita, omologata, la consumiamo pressappoco con gli stessi riti e nello stesso modo piuttosto acritico con cui consumiamo la cultura dei talent o dei Sanremo, per capirsi. Che hanno pure una loro logica e se fosse costruita con intelligenza, buon gusto e cultura meriterebbero rispetto, ma sono proprio un’altra storia: sono dentro il Sistema. Lì non sei indipendente, per niente antagonista e penso che sei persino poco utile socialmente e culturalmente…     

                                                  

Luigi Grechi De Gregori e Francesco De Gregori – Senza Regole

 

Con un nodo alla gola ti quoto Arlo: dove stiamo andando, cosa è realmente rimasto della realtà indipendente un tempo sovrana e ora usata come desueto marchio di fabbrica. Cosa fare per distinguersi da questa bolgia di nomi e musica indefinita se non sparare a raffica dalla propria barricata quella che un tempo era definita controinformazione. A volte ho come l’impressione che la cultura underground si stia rivalutando e coloro che si muovono come noi, alla luce del sole, ne siano i sognanti e folli portatori.

 

Cosa è rimasto… Di realtà che fanno musica alternativa ci sono – o che parola bella sarà “alternativa”? Peccato non si usi più. Pensa alle label di musica tradizionale, elettronica, world, jazz. Sono ai margini, non riescono ad avere una loro visibilità. Neppure un riconoscimento culturale, se non di vendite, come potevano averlo la Cramps, L’ultima Spiaggia o L’Orchestra degli Stormy Six. Forse bisognerebbe tornare a parlare di “cultura underground”. Di controcultura. È un po’ difficle farlo, sembreremo dinosauri in estinzione, ma erano belle parole, bei concetti e belle intenzioni. Probabilmente dovremmo chiamarla in un altro modo, ma dovremmo trovare quell’orgoglio che avevamo quando pensavamo di essere utili: costruire cultura e non solo intrattenimento.

 

Il punto è questo! Se escludi il circuito musicale contemporaneo che vive in un suo mondo a parte per altro decisamente impenetrabile e permettimelo supponente, la stragrande maggioranza della massa musicale prodotta sembra seguire dei dettami inventati di sana pianta da chi si spaccia per navigato esperto e l’unica cosa che insegue è l’apparizione a qualche talent o festival sanremese.

 

Sì, penso che una colpa del circuito contemporaneo e anche di quello classico, sia di essere poco inclusivi. O hai gli strumenti per comprendere – almeno atteggiarsi – o ne sei escluso. Io sono un “naturale”, ho una cultura disordinata e provo ammirazione e invidia per chi ha una cultura approfondita e organizzata, però non apprezzo molto quel modo di sentirsi un territorio a sé, esclusivo. Di non volersi sporcare le mani per divulgare le loro conoscenze. Di non usare linguaggi comunicativi utili a raggiungere e condividerle con più persone possibili. Il risultato, se la cultura non è diffusa, è che ne faranno da padrone i talent e la melma sanremese, più attenta ai dress code che alle note e alle parole usate. Se consideri che oggi non abbiamo molti luoghi dove potersi provare, sperimentare, fare gavetta, la scelta non rimane che i talent, i rock contest. Le gare, insomma. La musica colta ha il suo circuito esclusivo, mentre per la musica extra-colta o di confine, com’era chiamata una volta mantenendo una sua dignità, non ci sono gli spazi per crescere e farsi conoscere, come accadeva invece in passato.

 

È un comportamento che si è diffuso in modo malsano, coinvolgendo non solo la realtà canzonettistica italiana, come è giusto e logico, ma anche e purtroppo quel mondo impegnato nel produrre reali contenuti culturali su disco. Tutto questo sostenuto da frotte di giornalisti anch’essi un tempo schierati su barricate dedite alla controinformazione. Senza nascondere una punta di voluta durezza mi chiedo perché affermati cronisti che nei ’70 lavoravano nelle redazioni di giornali da trincea come Muzak, ora gridano al miracolo del ritrovato rock che nuovamente rivoluziona la scena musicale e lo fanno riferendosi a una boyband che è l’esatta risultanza di una coltivazione in vitro, o personaggi che saccheggiano la stanca iconografia rock sapendo che nessuno metterà mai in dubbio la loro baracconata in stile Goldifinger o se preferisci Sette Uomini d’Oro, che lì almeno c’era una immensamente bella Rossana Podestà che si specchiava nuda nella musica di Armando Trovajoli.

 

È curioso, in effetti. Mi è capitato di pensarci. È vero che invecchiando diventiamo più reazionari – diciamo più riflessivi… – ma ancora non capisco come sia possibile dimenticare completamente quello cui avevamo creduto e sperato negli anni dell’incoscienza e dell’entusiasmo. Posso capire che uno stipendio sicuro – magari neppure tanto basso – una posizione sociale di buon livello, ti facciano rielaborare certe convinzioni, ma come si possa aver scritto «Il pop, inteso come fenomeno totalizzante e complessivo, dopo la “grande illusione” degli anni ’60, stenta a farsi voce portante dei nuovi bisogni culturali» per poi arrivare a tessere anni dopo, su uno dei maggiori quotidiani italiani, un elogio all’ultimo album di Paola & Chiara non riesco a capirlo molto. Va bene, erano epoche diverse, il mondo cambia, ma è proprio come l’inutile discernere oggi sul ritrovato rock in contesti dove il rock ha poco a che vedere e per forza di cose. A volte mi chiedo come sia possibile. A proposito, per caso sai che fine hanno fatto Paola & Chiara? Le ho viste una volta per uno showcase al defunto Salone della Musica di Torino, e devo ammettere che la biondina, con quell’aria da diva imbronciata, era proprio caruccia. In ogni modo, tornando a quella generazione in cerca di nuove speranze e nuovi confini, è come se a un certo momento si fosse accorta che non sarebbe riuscita a cambiare il mondo e allora, forse per rabbia o per vendetta, abbiano deciso di peggiorarlo. Comunque, su Muzak, divoravo gli articoli di Giame Pintor e Sandro Portelli.

 

Appunto, perché lo fanno, visto che senz’altro non possono essere convinti di ciò che scrivono. Come dicevo la regressione e il decadimento che sta coinvolgendo la società italiana non risparmia neanche il mondo della musica e a farne le spese sono coloro che ancora credono nella capacità del suono di produrre arte, arte vera. Da poco la norvegese Rune Grammofon ha rilasciato il nuovo disco della chitarrista, cantante e compositrice Hedvig Mollestad con il suo trio, un vinile contenente vere esplosioni elettriche che bada bene, non sono semplicemente jazz virato rock ma rappresentano una vera ricerca sul campo. Dovessi tornare sulle barricate della controinformazione militante, credo sventolerei una bandiera con su scritto il titolo di questo lavoro: Din Don You’re Dead.

 

Hedvig Mollestad Trio – Live at Jazzahead! (2019)

 

Sì, ok, you’re dead… però ti voglio svelare un mio piccolo segreto per non morire troppo. Sul Note del cellulare, perché non ho una gran memoria e non me la voglio scordare, mi sono scritto una frase di Bruno Misefari, misconosciuto poeta e attivista anarchico vissuto tanti anni fa. L’ho scoperto per caso: è nato il mio stesso giorno. Dal poco che sono riuscito a leggere delle sue poesie, a dire il vero, non mi è sembrato un gran poeta ma una bella cosa l’ha scritta di certo. Te la leggo: «Un poeta o uno scrittore – ed io direi che in questo caso ci possiamo prendere la licenza di aggiungiungerci anche “un attore e un musicista” – che non abbia per scopo la ribellione, che lavori per conservare lo status quo della società, non è un artista: è un morto che parla in poesia o in prosa. L’arte deve rinnovare la vita e i popoli, perciò deve essere eminentemente rivoluzionaria». Bello eminentemente, non trovi? Senti che bel suono che ha. Senza parlare poi di quanto sia bella ri-vo-lu-zio-na-ria.

 

Caro il mio Capitano, per onorare il ricordo non posso non quotare il tuo apprezzamento per il leggero duo femminile, Amoremidai è stata una traccia che ho profondamente accarezzato nelle mie notti da scapestrato fuori tempo massimo. Vedi però, in questo caso siamo in pieno – e piacevole – mainstream canzonettistico che non si nasconde dietro falsi costumi di indipendenza come succede ed è successo anche a grosse formazioni della nuova onda nostrana che la sventolavano dipendendo comunque da major con i loro dirigenti in capo.

Tu parli di rivoluzione, certo che ci vorrebbe una rivoluzione ma la dovrebbero iniziare coloro che ora sono portatori di restaurazione come i vari festival dei tanti Primo Maggio, le molte etichette discografiche che rincorrono l’incubo sanremese scambiandolo per un sogno, i meeting delle etichette ancora indipendenti, i giovani stessi in quanto consumatori finali ormai avvolti nei fumi dei mille talent che hanno loro tolto il desiderio di bellezza. A tal proposito mi torna in mente una poesia di Hezy Leskly, si chiama La Ventiquattresima Danza:

 

La farfalla ingoia le lacrime della tartaruga

e mangia la carcassa della scimmia

caduta dall’albero.

Il lettore frettoloso potrebbe

concludere da quanto è qui riportato

che

in Patagonia

la bellezza

si nutre di disperazione e di nulla.

Errore. In Patagonia come a Tel-Aviv

la bellezza

si nutre del dibattito sulla bellezza.

 

Ciò che manca in questo mondo nel quale ci sentiamo per certi versi estranei, mio amato amico e Capitano, non è la bellezza ma il dibattito di cui si nutre.

 

Sono d’accordo con te ma hai usato un termine che personalmente non trovo esatto. Non penso debba essere chi gestisce certi spazi a dover “iniziare” una nuova rivoluzione – forse sarebbe pretendere troppo – semmai dovrebbero “sostenerla” creandone le basi, le strutture che magari già gestiscono, perché ciò possa accadere. Questo compito appartiene più alle giovani generazioni. A noi dovrebbe stare il compito di affiancarli, memori di quanto si è fatto e prodotto in epoche che ora sembrano remote. E magari anche memori dei nostri errori. Vedi, invece di puntare come dicevamo, alla quantità, dovremmo avere la fortuna di ritrovare quell’incoscienza che ci permeava mille anni fa. Quando ci inventavamo performance assurde con la speranza di far pensare. Come quella volta, agli albori di Materiali Sonori, che invademmo un paesello vestiti praticamente da marziani e diffondendo con degli orrendi altoparlanti una musica che all’epoca era sicuramente assurda: tentavamo, con tanta inesperienza e ingenuità, di far riflettere sul disastro di Seveso. Non vendevamo intrattenimento.

 

Gli albori della Materiali Sonori – performance “Ossido” a Incisa Valdarno (1977)

 

La ruota del nostro malridotto battello a vapore ci sta spingendo lontano dalla tenebra. Sullo scrostato tavolino, testimone di ben altri incontri, una selva di bottigliette di chinotto e vuoti calici di Hirundo. Dalla radio di bordo esce una canzone che giunge a infrangere il silenzio creatosi lungo la parte finale di questa lunga attraversata. Al pari di due vecchi compagni di antiche e inutili battaglie ci guardiamo sorridendo, forse iniziare a cantare quella canzone servirà come base per la costruzione di una nuova e solida barricata risplendente bellezza.

 

Out of the dark into the light

Looking for a way around it

When it calls we wan’t hear

We will shout and we’ll drown it out

(Comsat Angels – 1981)

 

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