COPRIS UMBILICATUS
di Tommaso Lisa
“Merdre!”
Alfred Jarry, Ubu Re
Cosa ci faccio da fin troppo tempo chinato su un grande secchio di plastica rossa al centro di uno spiazzo assolato prossimo ad una fonte?
Avrò avuto poco meno di tredici anni; è tarda primavera e mi trovo in campagna, alle pendici del monte della Calvana, sopra la città di Prato, ma potrebbe benissimo essere il frammento di un sogno, un falso ricordo o un’allucinazione. Eppure sono proprio io che mi specchio ormai da molti minuti consecutivi in questa grottesca opera di basso materialismo: un secchio che si va riempiendo d’acqua e di sterco ovino. Resto quasi accecato da un’iniziale forma di miopia, effettivamente diagnosticatami dall’oculista, che induce però una distorsione semantica dell’oggetto in funzione di una visione puramente scatologica. Posto di fronte a tale scena primaria, a quest’autentica trasgressione, il linguaggio quasi non ha più potere. Ma non c’è dubbio che i molteplici riflessi cangianti e oleosi, variegati dal verde, al marrone fino al blu di tale melma, dovuti ai composti chimici dei liquami, valgono per me quanto quelli di un diamante.
Qualcuno, che calza dei grandi stivali impermeabili marroni, continua a riempire fino al colmo il contenitore di bitorzoluti escrementi raccolti nei pascoli limitrofi, diluendoli in quell’acqua via via sempre più scura. Io, chinato, non distinguo altro che le lunghe gambe e i pantaloni di velluto di questa che resta nel ricordo una statua acefala. Devo evidentemente subire una profonda fascinazione incantatoria da questi cretti affioranti in superficie, eruzioni vulcaniche a corda, deiezioni di pecora che galleggiano sulla superficie divenuta nel frattempo perturbante come una combustione di Burri. Lo sterco ricopre tutto lo spazio navigabile tranne alcuni buchi, isolette di vuoto che rimandano ad un oltre, a un sotto ancor più scuro. Eppure da questo magma indifferenziato emergono dei segni brulicanti di vita, creature lucide, dotate di dure e zigrinate zampe fossorie. Immagini di fenditure geologiche ctonie profonde che preannunciano il senso della catastrofe, testimonianza di un’inesorabile assenza.
Mi sono formato così. Ho forgiato il mio carattere individuale e la mia estetica nella materia, su queste emozioni primigenie. Altro che calchi di Bruce Nauman, altro che le spirali di Robert Smithson o alle architetture dissezionate di Gordon Matta-Clark! In tale celebrazione dell’inarticolato, naturale e impossibile da regimentare nella vetrina di una galleria d’arte, ricordo per certo di aver avuto una lucida epifania del mondo, sostituendo al linguaggio una silenziosa contemplazione. Sono stato lì, muto, per diversi minuti, la bocca spalancata e gli occhi sgranati, a contemplare – in estasi, quasi in preghiera – la melma limacciosa di quel secchio divenuto sacro, in cerca di scarabei. Le opache venature cangianti del limo e i riflessi del cielo azzurro elettrico del maggio inoltrato facevano da specchio agli affioramenti di Aphodius ed Ontophagus di taglie infime, minuscole, sempre inferiori al mezzo centimetro. E più il tempo trascorreva e più nel secchio era un ribollire di vita, di escrescenze, poiché l’acqua scioglieva quelle feci di capre e pecore, schiudendo alla vista la miriade di Scarabeidi appartenenti ai più svariati generi, oltra a numerosi e variopinti Isteridi, a lunghi e serpentiformi Stafilini.
Con delle pinze d’acciaio cromato smisuratamente lunghe, clownesche, ho iniziato ad estrarre, dalla superficie stagnante di quel secchio sporco i minuscoli corpi zampettanti. Ero entomologo e questo spettacolo toccava in sorte alla mia vocazione. Quale fascino esercitasse su di me la ripugnante materialità dell’essenza vitale è difficile dire adesso senza mentire. Era dal mio stesso corpo, dal profondo delle viscere di terra che stavo accortamente estraendo singoli esemplari in parte rappresi in frammenti filamentosi simili ad alghe, il senso. E scopro per la prima volta quanto sia faticoso la meticolosa e prolungata azione di cavare dalla materia il significato, dire il non detto. Onthophagus vacca, fracticornis, verticicornis. Ecco un Aphodius fossor, nero e grosso, e poi scrutator, erraticus… Tutto ciò perché sapevo già alcuni dei loro nomi: il linguaggio era tornato ad esercitare il proprio potere sulla realtà, informandola, setacciando, scindendo e posizionando ogni cosa su una corrispettiva scala di valori. Ogni tanto affiorava anche qualche grande Copris dal grande corno. Bisognava prenderli tutti e stare attenti nel distinguere poi, in studio, se si trattasse di lunaris o del ben più raro endemismo chiamato umbilicatus. Eppure tutta quella massa informe aveva anche un alto valore d’uso, essendo un ottimo concime. Non avrebbe torto il contadino a lamentarne la sottrazione dal prato dove aveva portato gli armenti a pascolare. Un alto valore d’uso agricolo ed un grande valore simbolico, nel momento in cui vidi affiorare, come fosse una pagliuzza d’oro, il raro esemplare tipico del luogo, il genius loci del Copris umbilicatus descritto per la prima volta da Abeille de Perrin nel 1901. La specie si distingue dalle altre, più comuni, per un piccolo ombelico al centro della spina sternale.
Come la volta che scalai la Calvana fuori da ogni sentiero, molti anni più tardi, perdendomi in un inestricabile macchione di rovi. Il sole stava tramontando in quella fine inverno che da purgatoriale stava diventando senz’ombra di dubbio un vero inferno tanto che dovetti strisciare sotto un cespuglio inestricabile di rami, nelle gallerie dei cinghiali, una muraglia insormontabile di cespugli spinosi da tutti i lati in tutte le direzioni. Sopraffatto, stavo per chiamare i Carabinieri per farmi venire a soccorrere quando per terra ho visto uno scarabeo trottare tra le erbe e lo sterco di cinghiale. Non ci crederete ma quello scarabeo mi guidò fuori dal macchione e mi fece ritrovare il sentiero. Rimesto nel ricordo, in questa melma psichica intorno a questo paesaggio carsico di meati e di doline, e più mescolo, più vado a fondo. Sprofondo alla scoperta dell’inconscio. In quel secchio melmoso della mia adolescenza, sulle pendici della Calvana, navigava una città altrimenti giacente sepolta sotto lo sterco, invisibile agli occhi. Quei pallidi coleotteri cheratinosi, splendide forme sclerotizzate in corni vertiginosi, spine, elitre solcate e sterni carenati. Reliquie. Tra tutte loro emergeva, indimenticabile e grosso come un bottone di un vecchio capotto, il Copris umbilicatus. Ombelico del mondo, omphalos, tra betili di sterco che si ergevano attorno a me.
Leggevo qualche tempo fa sul sito Le parole e le cose che un racconto pubblicato in rete generalmente non viene letto, mentre le poesie sì; alle poesie brevi e snelle il lettore navigante (che fa surf fra vari post) fra giornali on-line, blog letterari e social è disposto a dedicare qualche minuto d’attenzione. Qualcuno osservava che ciò è dovuto alla prevalenza sui social, e in generale in internet, dell’ostentazione di sé più che dell’ascolto, della lettura di altri. A un racconto occorre dedicare più tempo, un tempo dell’ascolto che è troppo, in media, per il tipo di comunicazione messo a disposizione da internet. I racconti e i romanzi in sostanza restano forme espressive che appartengono alla lettura tradizionale in maniera profonda e forse indissolubile, restano relegati a un tempo che non è quello della velocità (nemmeno la poesia sarebbe di per sé candidata a divenire facile oggetto di consumo, ma, ecco, restando catturata in mezzo a messaggi di tutti i tipi, si presta a veloci sbirciate, a guizzi empatici…). (Mi domando fra parentesi che ne sarà di quei lunghi articoli, spesso molto impegnativi, che fanno riferimento alla saggistica; probabilmente quei pezzi sono riservati ai cultori di una materia, a studiosi o studenti universitari che approfondiscono alcuni argomenti e ne escludono decisamente altri). Tornando a questo racconto così pieno di cose è un peccato che lo leggano pochi internauti. Resterà forse il nome nella memoria e l’autore sarà seguito su altre tracce, in altre sue scritture…