Dante in love
Se mi chiedessero di far tornare Dante da qualche parte su questa terra, mi piacerebbe fosse in Liguria, il luogo preciso non importa, ma basterebbe uno degli scorci nominati da lui.
“Tra Lerici e Turbia, la più diserta
la più romita via è una scala
verso di quella agevole ed aperta”.
È quando si ferma davanti alla montagna del Purgatorio, lo accompagna Virgilio. Farlo giungere in terra ligure a vedere le opere che ha ispirato, gli affreschi che rappresentano la bolgia infernale, con Ugolino che rode il cranio, nella chiesa di San Giorgio a Campochiesa di Albenga, o a Noli, dove Dante passò da esule. Insomma, un po’ immaginai questo, quando seppi che Giuseppe Conte, ligure come me, di Dante ne raccontava il ritorno. Ma non sarebbe andato bene per nulla, e non perché Conte non condivide la mia ossessione di ficcare la Liguria in ogni narrazione (ha decisamente un respiro ben più universale di quello dei miei microcosmi), ma perché far tornare Dante in un luogo che non sia Firenze sarebbe un nostos amputato.
Dante in love (Giunti, 2020) ha dunque la sua geografia perfetta e la sua avventura: chiedere al Sommo Poeta un percorso inverso, nessuna risalita dello scalone dalle fiamme alle azzurrità, ma la calata in una Firenze quando “Il sole è appena sceso dietro i tetti, le cupole, le torri della città. Come ogni volta. Il buio non è ancora fitto. Guarda, dilaga nell’aria tra le vie e le case come un’acqua cupa.”
Abituati così alla piena notte, o all’alba, al pieno giorno e al tramonto, non ci stupiamo mai abbastanza di un tempo poco frequentato dalle nostre narrazioni: oltre il tramonto, quando il buio non è ancora fitto, e c’è la pienezza della sera. Chissà perché piena sera non si dice mai. Forse è davvero il miglior tempo di Firenze quello che sceglie Conte, le immagini di una città trasformata nel tempo stesso, e l’esercizio, le capacità che ha l’ombra di assumere l’insolita luce lambita da nuovi ritagli, da nuovi segmenti, nella processione di improbabili andirivieni creati dal caso, e poi la mineralità del Battistero, i palazzi nobili, i semplici cornicioni, i tetti. Il passaggio davanti all’ombra di Dante di un’umanità, e tra essa quella della presenza che più lo emoziona, lo attrae, la donna.
Il romanzo racconta il motivo per cui ogni anno, da seicentonovantanove anni, a Dante è concessa la discesa, con le sue regole d’ingaggio, a Firenze. Dante è lui, l’esule e l’esiliato, ossia quel sentirsi qualcosa o il sentirselo addosso come una pelle. Libertà e costrizione. Anche se la più felice, quella che l’autore giustamente non scopre, come se toccasse al lettore la necessità di intuirla nelle ombre della notte, e prima ancora, in quella sera non ancora notte, è la figura del clandestino. Dante sa di esserlo e riesce a sopportarlo, è l’altro e nessuno lo saprà mai, anzi nessuno dovrà mai saperlo. Ma poi le regole d’ingaggio saltano, un amore, anche quello, sognato e immenso perché invisibile, lo mette in viaggio, attraverso il percorso orizzontale della città, e assieme a tutto questo torna prepotente il pensiero della sua donna amata, dell’amico caro, e la visione di questa città oscura, sicuramente non felice, in questi giorni…
Insomma, potrebbe essere una delle seicentonovantanove notti “guardate” quaggiù finora, destinata a finire all’alba. Ma stavolta Dante non ci sta, è come se stavolta glielo chiedesse il suo cuore clandestino, esule e trasparente, di trasgredire alla concessione del cielo. E allora, davanti alla possibilità, per concessione celeste, di esercitare la sua solita ginnastica dell’occhio, egli stavolta sceglie altro, il miracolo, si lascia trasportare dal desiderio, attraverso la città impaurita e mascherata. La meravigliosa trasgressione ha persino un nome, si chiama Grace. Non ci saranno colpe. Solo poesia. È il libro che condensa ed esalta le anime narrative di Giuseppe Conte, il romanzo storico, quello in qualche modo fantascientifico, e persino l’esistenziale, nutrendosi di mito.
Grazie, Marino. Una stupenda recensione e un omaggio a Padre Dante.