Articolo precedente
Articolo successivo

E allora le Foibe? ( conversazione con Eric Gobetti)

di Lorenzo Galbiati

Il libro “E allora le foibe?” di Eric Gobetti, pubblicato da Laterza poco prima del Giorno del Ricordo, è diventato un caso editoriale e politico. Sui social forum ha creato un acceso dibattito, ma anche giornalisti e politici, a partire da Giorgia Meloni, hanno preso posizione su come Gobetti ha interpretato i fenomeni delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata all’interno della sua narrazione.

Personalmente, sono contrario al Giorno del Ricordo poiché trasforma una tragedia regionale – per quanto grave – in una commemorazione nazionale ma soprattutto perché credo, solidalmente con Gobetti, che non abbia senso “conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati” (Legge 30 marzo 2004, n. 92) senza ricordare, contestualmente, la precedente occupazione fascista dei territori jugoslavi, che ha portato a crimini storici di entità simile, se non maggiore.

Inoltre, ritengo che ogni solennità istituzionale che pretende di fissare per legge la memoria di un preciso avvenimento storico finisca, di fatto, con l’ostacolare la libertà di ricerca storica e con il proporre un “dovere del ricordo” selettivo.

Pur avendo qualche riserva sulla sua narrazione, penso che Gobetti, con il suo “E allora le foibe?”, abbia meritoriamente posto al centro del dibattito storico-politico sulle foibe i crimini commessi dagli italiani nei territori del confine orientale, mettendo così in discussione le modalità retoriche che hanno assunto le celebrazioni pubbliche del Giorno del Ricordo.

Ho chiacchierato al telefono con Gobetti per un’ora e mezza, e quella che segue è una sintesi della nostra conversazione.

Lorenzo Galbiati

 

Il tuo libro “E allora le foibe?” ha destato molto scalpore. E sta tuttora avendo molto successo di vendite. Siete già alla quarta edizione. Te lo immaginavi? Come te lo spieghi?

In parte immaginavo sia che provocasse polemiche sia che avesse un discreto successo – peraltro, come sappiamo, i due aspetti sono spesso collegati.

Il libro comunque non è volutamente polemico, cerca di riportare la vicenda delle foibe alla sua realtà storica. Vorrei che si parlasse di questi temi basandosi sulla conoscenza dei fatti e non con slogan politici.

 

Quando ho letto il titolo del libro e dei suoi capitoli, per lo più iperboli che prendono spunto dalla propaganda di Destra, ho pensato che molte famiglie esodate o con parenti infoibati l’avrebbero percepito come irrispettoso, se non offensivo. Mi pare insomma che il tuo sia un pamphlet che, partendo dalla storia del confine orientale, voglia suscitare un dibattito nella società italiana.  Qual è il tuo pensiero in proposito?

Il mio libro è il secondo volume della collana “La Storia alla prova dei fatti” di Laterza, che vuole mettere in discussione certe retoriche, certi stereotipi che non hanno basi storiche. Il titolo del libro si rifà a un tormentone di Caterina Guzzanti, che ricalca una tipica espressione usata dall’estrema Destra per capovolgere il discorso pubblico; quando si parla di un dramma storico che li riguarda, i neofascisti chiedono: “E allora le foibe?”. Il titolo dunque intende stigmatizzare questo atteggiamento.

“E allora le foibe?” ha un doppio intento. Uno strettamente professionale: ribadire i risultati della ricerca storica, condivisi dalla maggior parte degli studiosi, in un libro sintetico, con un approccio divulgativo, in modo di arrivare a tutti. Ma c’è anche un aspetto pamphlettistico, nel senso che i risultati degli studiosi finiscono per mettere in discussione seriamente un discorso pubblico monopolizzato dalla propaganda della Destra neofascista e dalla memoria degli esuli. A questo proposito, io capisco chi ha visto con i suoi occhi il padre infoibato o le famiglie che hanno dovuto lasciare la loro terra e integrarsi con difficoltà in un’altra realtà: il loro dramma è legittimo, ma rappresenta un solo punto di vista. Le memorie condivise sono spesso inconciliabili (come, per esempio, quelle di un partigiano e di un repubblichino), ma sulla base di fonti e documenti si può e si deve scrivere una storia di tutti, anche se potrebbe urtare singole memorie personali.

 

Fino ai vent’anni mi era tutto chiaro: c’erano stati sei milioni di ebrei morti nei lager e chi lo metteva in discussione era un negazionista. Poi ho approfondito la questione e mi sono accorto che il negazionismo era una categoria di comodo, creata più dai politici che dagli storici.

Lo storico marxista Eric Hobsbawm, di padre ebreo, sosteneva che tra gli storici sono leciti il disaccordo e la discussione sul numero delle vittime della Shoah (la cifra di sei milioni la giudicava “rozza e quasi certamente esagerata”). Anche il mancato ritrovamento di un ordine scritto di Hitler sulla “soluzione finale” non avrebbe dovuto essere un argomento tabù, e non importava se ad avanzarlo fosse uno storico filonazista come David Irving.

Con l’istituzione mondiale della Giornata della Memoria (2005) mi sono chiesto se le affermazioni di Hobsbawn, oggi, non sarebbero considerate negazioniste o riduzioniste.

Lo stesso problema si pone in Italia con il Giorno del Ricordo, istituito nel 2004. Da allora, come spieghi nel capitolo introduttivo “Tutti negazionisti”, molti storici che studiano gli avvenimenti del confine orientale sono stati accusati di negazionismo.

Ci puoi spiegare perché la tua posizione non è né negazionista né riduzionista o giustificazionista?

L’uso del termine negazionista viene oggi usato per assimilare il fenomeno della Shoah con quello delle foibe. È un termine dispregiativo volto a screditare gli storici che se ne occupano in modo serio. Le accuse di negazionismo sono piovute addosso a tutti gli studiosi, compreso Raoul Pupo, che se ne occupa da trent’anni ed è ritenuto uno dei più precisi e moderati.

Per quanto riguarda me, io non sono né negazionista né riduzionista. Per le foibe mi attengo ai dati su cui concorda la maggior parte degli studiosi, ossia una cifra di 5mila morti, risultato di una sottrazione tra le persone tornate e quelle scomparse. Piuttosto, penso che si possano definire “gonfionisti” coloro che raddoppiano o triplicano la cifra delle vittime, arrivando a 10mila o 15mila morti.

Per quanto riguarda il “giustificazionismo”, io faccio il mio mestiere di studioso, ovvero cerco di comprendere un avvenimento nel suo contesto storico e geografico. Questo non significa giustificare; anzi, sto dimostrando rispetto per le vittime cercando di capire il motivo per cui sono state uccise. Raccontare i ventennali crimini fascisti non è un modo per giustificare le foibe, ma per comprendere il fenomeno: è un mio dovere professionale.

 

Nel primo capitolo, “Italiani”, discuti l’identità nazionale di chi viveva nella regione che va da Gorizia a Fiume, comprendente l’Istria. Alla fine, ti chiedi: “Ma queste persone, in definitiva, sono italiane o slave?” E poco dopo rispondi: “Queste regioni non sono italiane da sempre. Sono state invece italianizzate a forza dallo Stato italiano e fascista. Ma prima di allora, erano state, per molti secoli, multiculturali, multilinguistiche, multinazionali.”

La mia obiezione è questa. Scrivendo che sono state italianizzate a forza, sembra che siano regioni slave. Però, la zona costiera di metà della penisola d’Istria, da Trieste fino a Pola, e parte della zona interna nord-occidentale, erano a netta maggioranza italiana.

Questa è un’obiezione che mi fanno in molti.

La frase sull’italianizzazione forzata dev’essere letta insieme alla successiva.

Il ragionamento sulle molteplici identità di quell’area, che mi pare storicamente indiscutibile, mette in discussione la vulgata di chi dice: “Ci hanno strappato quelle terre con la forza.” Come a dire che erano state sempre italiane (si citano spesso l’Impero Romano e la Repubblica di Venezia). Ma, per esempio, Trieste e Fiume, le città più grandi, sono state fondate dagli austriaci in competizione con Venezia. Dicendo che sono terre “italiane da sempre”, e che gli esuli se ne sono fuggiti perché italiani, si afferma una verità parziale. Gli esuli italiani di quelle terre hanno quasi sempre un’identità mista, frutto di una convivenza durata per secoli.

Quelle terre erano abitate anche da italiani, certo, ma sono entrate a far parte dello Stato italiano solo nel 1918, e poi le popolazioni non italiane sono state italianizzate con la forza.

La logica del nazionalismo, realizzata prima dagli italiani e poi dagli jugoslavi (che pure avevano un ideale sovra-nazionalista), crea un problema a quegli abitanti, li priva di una parte della loro identità mista, meticcia. La volontà di creare uno stato nazionale non dà alternative alle minoranze etniche: o le espelle, o le ammazza o le nazionalizza.

La logica nazionalista è, a mio avviso, l’errore d’origine.

 

Nel secondo capitolo, “Improvvisamente”, parli dell’occupazione fascista delle terre jugoslave di confine. Come si caratterizza questa occupazione? E cosa è successo sull’isola di Arbe?

L’occupazione fascista dura vent’anni ma nel 1941, con l’arrivo della guerra, il livello di violenza si inasprisce e comporta una guerra di resistenza, una contro-resistenza, una guerra civile e una guerra contro i civili. Almeno quattro guerre, insomma. L’esercito italiano commette numerosi crimini di guerra per reprimere la resistenza jugoslava. E questo contrasta con il discorso pubblico, che è all’insegna dello slogan “Italiani brava gente”.

Nell’immaginario collettivo, per esempio, è inimmaginabile che l’Italia abbia allestito dei campi di concentramento, noi pensiamo l’abbiano fatto solo i nazisti. Invece circa 100mila jugoslavi sono stati rinchiusi in campi di concentramento. Nel più importante, quello di Arbe, si calcola che siano morti 1500 civili, soprattutto donne e bambini.

Nel complesso, se consideriamo tutte le vittime jugoslave direttamente associabili all’occupazione fascista, siamo nell’ordine delle 10mila, ma in generale circa un milione di persone muoiono in Jugoslavia a causa della guerra portata in quel territorio dall’Italia e dalla Germania.

 

Secondo il mio percepito, nell’immaginario collettivo italiano si crede che i partigiani jugoslavi abbiano ucciso molte migliaia di italiani buttandoli nelle foibe, ossia nelle fosse carsiche. Un crimine con una modalità barbara. Da qui il Giorno del Ricordo.

Cosa è avvenuto realmente?

Il termine foibe viene usato in modo estensivo per descrivere due fenomeni.

Il primo è avvenuto dopo l’armistizio dell’otto settembre del ’43 e dura circa un mese. In questa fase 400-500 persone vengono uccise e gettate nelle foibe. Questi fatti riguardano solo l’Istria, dove avviene una rivolta popolare che probabilmente fa più vittime dei partigiani, che cercano di prendere il controllo del territorio.

Nel 1945, finita la guerra, lo stato jugoslavo opera con la sua polizia politica e compie essenzialmente una resa dei conti. È un fenomeno simile a quello che accade in tutta Europa: i partigiani italiani piemontesi, per esempio, uccidono circa lo stesso numero di presunti collaborazionisti. Sul confine orientale gli arrestati vengono trattenuti nei campi di prigionia (dove alcuni muoiono di stenti), processati sommariamente e infine giustiziati se ritenuti responsabili di collaborazionismo con i nazifascisti. In realtà la maggioranza viene liberata dopo qualche tempo.

Ciò che distingue questa vicenda dalle omologhe europee è la volontà di imporre un cambiamento di regime, un nuovo modello politico e un nuovo stato.

 

Quindi possiamo dire che sia un mito l’idea che gli italiani venissero gettati vivi nelle foibe…

Non possiamo escludere che ci siano stati dei casi del genere, ma far credere che quello fosse il modo prevalente con il quale venivano uccise le vittime è sbagliato. La maggior parte degli italiani è morta nei campi di prigionia.

 

Uno degli argomenti più spinosi è la natura dell’esodo giuliano-dalmata: si è trattato di una pulizia etnica?

Il 10 febbraio, Giorno del Ricordo, ti sei confrontato online con Raoul Pupo. Parlando dell’esodo, Pupo ha detto:

“L’esodo italiano dall’Istria è un esodo di massa in apparenza scelto ma in realtà dovuto a una costrizione ambientale. Non c’è un piano del governo jugoslavo per espellere gli italiani, tuttavia l’esodo è la conseguenza diretta delle politiche attuate sul territorio dal regime jugoslavo. C’è un progetto jugoslavo di integrazione, la “fratellanza italo-slava”, che però esclude gli italiani non etnici (vanno ricondotti alla slavicità quelli che hanno antenati slavi), e parliamo di un 40%; i fascisti intesi in senso ampio; gli imperialisti che vogliono la sovranità italiana; i borghesi, compresi i bottegai. Insomma, tutti gli italiani sono fuori dalla fratellanza. È in atto una rivoluzione nazionale e sociale bolscevica, dove in larga misura il nemico di classe è costituito dagli italiani. Perciò se ne vanno via tutti, compresi gli operai e i contadini. Non rimane più nessuno. La fratellanza non viene applicata soprattutto perché i quadri locali del regime non ci credono, per cui opprimono gli italiani, che si percepiscono come vittime di un disegno di eliminazione nazionale. Noi storici ricostruiamo un processo diverso e più articolato di quello di una pulizia etnica ma questo termine corrisponde alla percezione degli abitanti italiani dell’Istria.”

Qual è la tua opinione in merito?

Io e Pupo concordiamo sul fatto che il termine pulizia etnica non sia adatto a descrivere l’esodo. La pulizia etnica è un fenomeno specifico, che si realizza nella guerra degli anni Novanta nella ex-Jugoslavia, e che si riferisce alla volontà esplicita di un esercito di espellere una intera popolazione attraverso pratiche violente. Questo di sicuro non accade nell’Istria né nel 1943, quando c’è una rivolta popolare, né nel 1945, quando l’esercito jugoslavo compie una repressione interpretabile come resa dei conti politico-militare. In nessuno dei due casi si può pensare che il governo jugoslavo avesse provocato l’esodo o volesse colpire gli italiani in quanto tali.

In maggioranza, gli italiani se ne vanno via quando si sposta il confine, ossia nel 1947, anno in cui si firma il trattato di pace, e nel 1954, quando viene fissato il confine definitivo. Le motivazioni sono quindi legate allo Stato in cui gli italiani si trovano a vivere.

Occorre chiedersi allora se lo Stato jugoslavo volesse mandarli via. Su questo ci sono tante interpretazioni differenti, poiché la vicenda è complessa, ed è una delle poche su cui non concordo totalmente con Pupo.

Innanzi tutto, non credo che lo stato jugoslavo volesse espellere la maggioranza degli italiani. La politica della fratellanza italo-slava era, in effetti, difficilmente accettabile da tutti, ma non era finta, il governo ci credeva. Erano le autorità locali ad essere particolarmente severe con gli italiani, poiché avevano vissuto l’oppressione fascista, quindi volevano vendicarsi, e avevano una logica nazionalista – che a Belgrado non c’era.

Inoltre, la mia interpretazione tiene conto del fatto che lo Stato jugoslavo ha espulso per legge i tedeschi ma non gli italiani. Se l’obiettivo fosse stato di espellere gli italiani, non vedo perché non prendere lo stesso provvedimento adottato verso i tedeschi.

In più, secondo le mie fonti, gli italiani rimasti sono il 20%, non meno del 10%, come sostiene Pupo.

 

Nel capitolo “Espulsione” scrivi che l’esodo “dei profughi istriano-dalmati […] è il risultato estremo di un circolo vizioso innescato dall’imperialismo italiano e poi dal fascismo. Gli esuli sono le vittime ultime della politica aggressiva del regime, dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e della sconfitta militare in una guerra che Mussolini aveva ottusamente contribuito a scatenare”.

Questa frase, messa a conclusione del capitolo, mi lascia perplesso, ed è l’unica vera riserva che ho nei confronti del libro. Mi sembra, cioè, che attribuisca al fascismo le politiche e i crimini commessi dagli jugoslavi che hanno indotto l’esodo. In questo senso, potrebbe risultare giustificazionista.

Capisco, cerco di spiegare il mio punto di vista.

In tutto il capitolo racconto le politiche del governo jugoslavo che contribuiscono all’esodo. Allo stesso tempo, però, sono convinto che quel fenomeno storico non sarebbe avvenuto se non ci fosse stato prima tutto quello che ha compiuto il fascismo. Mi si potrebbe obiettare che nessun fenomeno storico sarebbe avvenuto senza ciò che lo precede, però, in questo caso specifico, la logica nazionalista, la violenza, la guerra mondiale le hanno portate i fascisti in quel territorio.

Peraltro, è indiscutibile che se l’Italia non avesse perso la guerra, la storia sarebbe andata diversamente. Ma probabilmente in quel caso i territori del confine orientale ora sarebbero tedeschi, dato che erano stati annessi di fatto alla Germania nel 1943.

Il Giorno del Ricordo, il 10 febbraio, ricorda l’esodo degli italiani da Pola. Ma è anche la data del trattato di pace del 1947, che dovrebbe essere considerata una festa, come qualunque pace, non una tragedia. Sarà impopolare dirlo ma, nonostante le conseguenze, credo che dovremmo essere contenti di aver perso quella guerra, perché l’abbiamo combattuta dalla parte sbagliata, ovvero al fianco dei nazisti.

L’esodo degli italiani è legato alla perdita di quei territori, allo spostamento del confine, e quindi è il risultato dell’invasione della Jugoslavia e della sconfitta in guerra, senza questi avvenimenti probabilmente non ci sarebbero state le foibe e l’esodo.

Mi sembra evidente che la responsabilità all’origine di tutta questa vicenda sia del fascismo e dell’esercito italiano.

 

In conclusione…

Ancora negli anni Ottanta il presidente Cossiga dichiarava che i triestini dovevano ringraziare i partigiani jugoslavi di averli liberati dal terrore nazista. Cossiga, che era persona di provata fede democratica e anticomunista, riteneva giusto ribadire una netta differenza valoriale fra il fascismo e la Resistenza.

Negli ultimi venti anni la percezione pubblica è cambiata: i fascisti sono diventati le vittime e i partigiani di Tito invasori e criminali. Non credo di essere un pericoloso estremista se propongo di tornare a leggere gli avvenimenti nel loro corretto svolgimento storico, adottando un giudizio morale simile a quello del presidente Cossiga!

Print Friendly, PDF & Email

1 commento

  1. “E allora le foibe?” E’ un libro consigliato a tutti, specialmente a chi non ha mai approfondito la materia e vuole inquadrare gli avvenimenti del confine orientale. Per chi volesse approfondire la questione dell’esodo (che poi è il vero evento da studiare, essendo quello delle foibe da ridimensionare), consiglio “Il lungo esodo” di Raoul Pupo, Rizzoli Bur.

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Un inizio

di Edoardo d'Amore
È una storia piccola, troppo minuta e fragile perché se ne sia parlato. Si può non credere a queste parole e andarla a cercare tra mondi virtuali e mondi reali, ma si scoprirà solo quanto già detto

Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola

di Giovanni Carosotti
Hirsch jr. denuncia la «refrattarietà dei pedagogisti a sottoporre le loro teorie a una libera discussione pubblica», consapevoli che quanto sostengono non reggerebbe a un adeguato confronto intellettuale.

Il pop deve ancora venire

di Alessio Barettini
Un esordio convincente, Il pop deve ancora venire, dove la forza della scrittura e la precisione del lessico appaiono in primo piano, con la padronanza di Anna Chiara Bassan e l'abilità nell'uso delle parole «instabili, precarie e mutevoli anche da sole.»

Il mazzero

di Arjuna Cecchetti
Beh, il mazzero inizia sognando che è a caccia. Insegue un animale, un cinghiale o un cervo, e lo segue lungo un fiume poi spara all'animale e lo uccide e quando lo raggiunge e lo gira, scopre che il cinghiale ha il volto di una persona che conosce.

Le rovine di La Chiusa

di Giorgio Mascitelli
In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine: esse sono una forma di allegoria della condizione storica del presente

Buchi

di Serena Barsottelli
La sensazione che provava non era simile ai brividi. Eppure spesso tremava. Non si trattava neppure dell'umidità, quel freddo capace di filtrare sotto il primo strato di pelle e poi sciogliersi nei cunicoli tra nervi e vene.
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: