Se il plusmaterno ci rende cittadini-bambini: “Troppa famiglia fa male” di Laura Pigozzi
di Daniele Ruini
Ma proprio in quell’America tanto imitata e doppiata,
se un giovane continua a vivere nella cuccia familiare come gli italiani,
tutti i vicini lo considerano un povero minorato
(A. Arbasino, L’Anonimo lombardo)
Non è da tutti coniare neologismi in grado di imporsi per la loro forza concettuale: dobbiamo pertanto essere grati a Laura Pigozzi che, ideando la nozione di plusmaterno, ci ha aperto gli occhi su una dinamica che interessa sempre di più le nostre società.
Ma che cos’è il plusmaterno? Secondo Pigozzi –psicanalista lacaniana, insegnante di canto e penetrante indagatrice dei mondi della genitorialità e dell’adolescenza– sempre più famiglie sarebbero oggi contraddistinte da una pulsione claustrofilica: una tendenza alla chiusura e all’autoreferenzialità che porta molti genitori a concepire il nucleo famigliare come alternativo al sociale. Tuttavia, lo capiamo bene, una famiglia che si sostituisce completamente al collettivo rappresenta un modello tossico: quale educazione all’autonomia e all’apprezzamento della differenza potrà infatti mai prodursi nei figli di madri e padri iperprotettivi e spesso fin troppo presenti?
Si tratta di tematiche messe a fuoco in Mio figlio mi adora (nottetempo, 20192 [prima edizione del 2016]), un libro che ha fatto parlare molto di sé, attirandosi anche le critiche feroci di gruppi di mamme che si sono sentite punte nel vivo. Affrontando il tema dello straripamento del ruolo genitoriale, Laura Pigozzi ha infatti denunciato alcune derive che forse a molti sarà capitato di osservare: dall’esibizione spudorata della maternità (per esempio sui social), all’idea che il figlio sia una “proprietà” dei genitori; da figli usati quasi come antidepressivi da parte di madri e padri che sacrificano devotamente sé stessi (soddisfacendo così il proprio godimento narcisista e alimentando un pericoloso legame di dipendenza), al mancato riconoscimento –se non alla denigrazione vera e propria– del legittimo desiderio di non-maternità delle donne che decidono di non avere figli.
Quando insomma la Madre si sostituisce alla madre –posto che il plusmaterno può essere incarnato anche da un padre–, ecco allora che si produce un eccesso di cura che baratta il dovere educativo con l’ansia di controllo e con la paura di non essere amati: ma un affetto genitoriale prolungato ben oltre la fase infantile finirà inevitabilmente per impedire ai figli di staccarsi dai genitori ed iniziare il loro percorso di vita. La conseguenza sarà quella di (non) crescere persone bloccate in un’eterna adolescenza: come ha sintetizzato l’autrice, oggigiorno «molti figli si sentono insensibili e ingrati se tentano l’unico vero compito che ogni figlio deve assumere: separarsi e iniziare una nuova vita» (Mio figlio mi adora, p. 73).
Tali questioni sono al centro anche dell’ultimo saggio di Laura Pigozzi, Troppa famiglia fa male (Rizzoli, 2020). In questo libro viene in particolare esplicitata la dimensione politica della battaglia culturale contro la clausura famigliare (una battaglia ancora più stringente dopo l’ultimo anno pandemico); soffocare la prole di premure applicando una costante “pedagogia della stampella” ha infatti delle conseguenze nefaste per la collettività tutta: non solo perché produce una svalutazione delle occasioni educative esterne alla famiglia (dalla scuola alle relazioni autonomamente scelte dai bambini), ma anche perché crea individui inabili alla sfera sociale, non allenati all’esercizio del pensiero critico e più facilmente preda dell’obbedienza passiva e della fascinazione per il pensiero unico[1].
Pigozzi mostra chiaramente tutti i rischi anti-democratici di un amore genitoriale incapace di limiti: se quest’atteggiamento non fa che replicare l’esiziale tendenza del capitalismo ad offrire compulsivamente l’immediata soddisfazione di ogni bisogno saturando il desiderio, esso è anche l’anticamera del fanatismo. Il plusmaterno non produce infatti solo generazioni passive non in grado di «curarsi del proprio desiderio» (p. 150) e di impegnarsi per il collettivo, ma rappresenta anche la strada più facile verso l’assoggettamento conformistico all’Uno. Dunque, da «tradire sé stessi» (p. 150), venendo meno a quella che per Lacan è la prima responsabilità di ogni essere umano, a sottomettersi al fascino di chi vuole comandarci annullandoci nell’indifferenziazione della massa, il passo è breve.
Ora, in Italia non sono certo mancate interpretazioni psicanalitiche della seduzione che il Fascismo ha saputo esercitare su un popolo a cui veniva offerto un appagamento narcisistico di bisogni infantili: due capolavori come Eros e Priapo (1967; ma scritto negli anni ’44-’45) di Carlo Emilio Gadda e Amarcord (1973) di Federico Fellini condividono precisamente questa interpretazione del Ventennio. Come dichiarato dal Maestro di Rimini:
Ho l’impressione che fascismo e adolescenza continuino ad essere in una certa misura stagioni storiche permanenti della nostra vita. L’adolescenza, della nostra vita individuale; il fascismo, di quella nazionale. Questo restare, cioè, eternamente bambini, scaricare le responsabilità sugli altri, vivere con la confortante sensazione che c’è qualcuno che pensa per te[2].
Alla tradizionale lettura di questa regressione come sottomissione alla figura fallica del Padre-padrone Laura Pigozzi ne sostituisce un’altra: a suo avviso, «il leader che pretende fedeltà non sta affatto nella posizione del padre regolatore, ma nell’assolutezza senza freni della plusmadre» (Troppa famiglia fa male, p. 174). L’incantesimo che, cullandoci, rischia di trascinare il singolo verso la posizione passiva dell’assoggettato assomiglia dunque all’abbraccio mefitico di una Madre soffocante:
Il totalitarismo, allora, più che conforme al patriarcato come si è soliti pensare, si rivela essere, anche sul piano inconscio e non solo su quello della storia contemporanea, la ripresentazione terrificante e fantasmatica dell’onnipotenza della madre originaria e primitiva. […] Il dittatore, dunque, non è una reincarnazione del padre cattivo, ma la riproposizione della potenza della madre primitiva, che decide della vita e della morte e che viene amata in modo assoluto, indipendentemente dai suoi meriti, anzi, nonostante possa presentare gravi demeriti» (Troppa famiglia fa male, p. 215)[3]
Se dietro ogni dittatore s’intravede una madre che «chiede obbedienza assoluta e assoluto amore» (Troppa famiglia fa male, p. 213), non possiamo non allarmarci per la deriva plusmaterna che Laura Pigozzi vede in opera in molte famiglie (non solo italiane). Così come non possiamo che accogliere l’invito all’assunzione di responsabilità da parte di adulti che spesso si sottraggono a quel Vuoto con cui ogni vita deve confrontarsi.
Se «il modo in cui ci si prende cura di un bambino in famiglia è politico» (p. 131), è chiaro che da lì passa la tenuta della nostra democrazia (la quale –ci ricorda ancora Pigozzi– «è faticosissima da tenere, mentre scivolare nel totalitarismo, nel populismo, nella fiduciosa obbedienza dell’infante, sembra facile, senza sforzo»: p. 224): chissà che, assumendo questa consapevolezza, non riusciremo anche a fare finalmente i conti con la nostra storia.
_
[1] Sul legame tra una sempre più diffusa passività studentesca (purtroppo spesso favorita dalla scuola stessa) e il venir meno nelle generazioni più giovani di ogni forma di contestazione della famiglia di origine si vedano le interessanti riflessioni di Eleonora de Conciliis in Che cosa significa insegnare? (Cronopio, 2014). L’autrice sottolinea la difficoltà da parte dell’adolescente di oggi ad identificarsi «come soggetto autonomo al di là del nucleo familiare o in opposizione ai suoi valori», essendo incapace «di comprendere i limiti socioculturali di tale nucleo, vissuto anzi da molti come rifugio sociale» (p. 83).
[2] Il film «Amarcord» di Federico Fellini, a cura di G. Angelucci e L. Betti, Bologna, Cappelli, 1974., p. 102 (poi in F. Fellini, Fare un film, Torino, Einaudi, 1980, p. 155). Significativamente in Amarcord la sequenza della visita del federale fascista e della parata viene subito dopo una scena adolescenziale di masturbazione collettiva.
[3] Parole simili sono state usate recentemente da Pietro Del Soldà (in una riflessione intorno a Il gesto di Caino di Massimo Recalcati, Einaudi, 2020): «il rapporto possessivo tra la madre e il figlio è in fondo l’archetipo d’ogni tentativo di declinare il rapporto d’amore come la fusione del due in uno. E più in generale di reagire al mondo minaccioso, sempre più incontrollabile e incomprensibile, chiudendosi a riccio. Questo cerchiamo di fare, sul piano dell’esperienza individuale, immergendoci nel sentimento amoroso quasi a cancellare ogni traccia dell’esterno. Ma questo, in fondo, è anche l’obiettivo dei progetti politici identitari, fondati sulla promessa di esercitare la piena sovranità e un controllo totale del “nostro” territorio, resistendo alla minacciosa invasione di chi incarna la differenza» (Pietro Del Soldà, Quando la fratellanza finisce nel sangue, «Domenica, IlSole24ore», 22/11/2020, p. XI).