L’Anno del Fuoco Segreto: Il Ciclo della Carne
La descrizione del progetto L’Anno del Fuoco Segreto, si può leggere QUI.
di Andrea Cassini
Il giorno prima di partire il ragazzo chiamato cerbiatto bevve il sangue dei padri, poiché lo avrebbe reso forte per il viaggio. I padri si strinsero il gomito con un laccio, si fecero un taglio sulla spalla con un coltello d’osso e lasciarono sgorgare il sangue in una ciotola d’argilla. Il ragazzo lo bevve una volta al mattino, una seconda volta al pomeriggio quand’era diventato come caglio di capra e una terza volta alla sera quand’era diventato come burro di capra. I padri staccarono il sangue dalla ciotola con il coltello e lui dovette masticarlo. Dopo che l’ebbe mandato giù i padri gli strinsero la gola, poiché se lo avesse vomitato non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Nella steppa faceva notte presto, il sole cadeva di colpo dietro le montagne in lontananza, e le montagne erano una corona chiusa sugli otto punti dell’orizzonte. Prima di rientrare nella tenda i padri si misero in fila davanti al ragazzo, si tolsero l’alto cappello e gli mostrarono i palchi di corna, affilati e muschiati. “Adesso, diventerai più che uomo” gli dissero. “E quando tornerai sarai più che uomo e più che donna. Avrai le tue corna, come noi, oppure sarai diventato parte del ciclo della carne e vivrai nella pancia dell’orso”. La madre era l’unica donna del villaggio. Parlò da una bocca senza denti che sembrava una delle tante rughe del suo viso asciutto, profonde come il letto di un ghiacciaio. “Vieni”, gli disse. I padri spogliarono il ragazzo, lo fecero sdraiare e gli afferrarono il pene per tenerlo dritto. In due lo tenevano per le spalle, in due lo tenevano per i piedi e uno gli offrì un panno da mordere, poiché se si fosse mosso durante il taglio non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Poi la madre prese un coltello di pietra, infilò la punta nell’occhio che è sulla testa del pene e allargò la fessura verso il basso. Dalla ferita sgorgò un liquido rosso, bianco, giallo e trasparente. I padri gli tolsero il panno dalla bocca e vi avvolsero il pene. La madre sotterrò il coltello tra la sabbia, raccolse un bastone più alto di lei e si strinse la testa nel velo. “Ora sei più che uomo” disse. “Io andrò a ovest della luna a cercare il pezzo che ancora manca alla tua anima. Tu andrai a est del sole a cercare il pezzo che ancora manca al tuo corpo”. E s’incamminò nella notte finché non scomparve a ovest sotto l’ombra gialla della luna piena, nella radura dove gli anziani andavano a morire per restituire il corpo a corvi e avvoltoi tornando nel ciclo della carne. Là c’erano anche le carcasse degli animali di ferro, ma nessuno tranne la madre osava toccarle perché il ciclo del ferro era diverso dal ciclo della carne. Il ragazzo chiamato cerbiatto entrò nella tenda. Quella notte non dormì e non sognò, ma bagnò di sudore e urina la lana di pecora e rivide i disegni quadrati sugli abiti dei padri che fiorivano e ruotavano come ottanta spirali di ottanta colori. Contò l’ululato di ogni lupo, il canto di ogni grillo, il fischio di ogni marmotta, il gemito di ogni padre che faceva l’amore. All’alba i padri gli rasarono la testa e con un pezzo di carbone ancora caldo gli disegnarono sulla nuca una seconda faccia, e poi una terza faccia dietro al ginocchio sinistro e una quarta faccia dietro al ginocchio destro. “Quando seguirai le tracce del lupo e dell’orso, il lupo e l’orso seguiranno le tue” gli dissero. “Adesso, sapranno che li stai guardando”. Poi gli legarono una cintura sul petto e in un occhiello al centro della cintura, all’altezza del cuore, sistemarono un pugnale che era prezioso e raro, poiché la madre l’aveva fatto con le carcasse degli animali di ferro sparse intorno al villaggio. “Quando incontrerai l’orso fra le montagne lo abbraccerai” gli dissero. “E così facendo lo ucciderai e lo porterai con te nel ciclo della carne”.
Il ragazzo chiamato cerbiatto partì verso est. Si voltò una sola volta verso il villaggio, e vide che le tende erano ondulate proprio come le colline di sabbia azzurra retrostanti, e proprio come le dune di nuvole nel cielo bianco. Non si voltò una seconda volta, poiché altrimenti non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Camminò verso est cantando una canzone triste.
Il primo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto seguì la bussola del vento che piegava i fili d’erba per trovare la strada nella steppa. Dopo che ebbe molto camminato, le cime delle montagne apparvero sopra la foschia. Il cielo, che era il maggiore dei suoi padri, le faceva scintillare bianche di neve sotto il sole del pomeriggio. La terra, che era l’unica sua madre, lo accompagnava sistemando salite e discese sotto i suoi sandali. Quando il vento smise di soffiare il ragazzo smarrì la strada, poiché le montagne adesso erano una corona ininterrotta sugli otto punti dell’orizzonte e lui era al centro del circo. Un branco di cavalli giunse galoppando. I forti steli d’erba si piegavano sotto gli zoccoli e poi si rialzavano. Un maschio dal manto bruno e dai crini neri drizzò il collo e la coda, fermò i compagni e gli venne vicino. Studiò con occhi attenti le quattro facce del ragazzo, i germogli di corna sulla testa, il panno odoroso avvolto intorno ai fianchi, il pugnale appuntato sul petto. “Conosco i tuoi padri” disse il cavallo. “Vieni con noi, così ti mostrerò la strada per le montagne”.
Il branco ripartì al galoppo e il ragazzo gli andò dietro. Corse più forte che poteva, in fondo alla carovana insieme ai puledri nervosi e alle severe giumente. Poi giunsero a un punto in cui l’erba era gialla, e più avanti i prati erano nudi. C’era un’alta torre all’orizzonte, più vicina delle montagne. “Oltre, noi non ci spingiamo” gli disse il cavallo bruno. “Ma ti lascerò una parte di me, poiché tu possa trovare da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente. Con questa potrai fiutare l’odore del vento. Bada però di resistere alle tentazioni: qui, più avanti, c’è la piramide dei saggi”. Detto questo, il cavallo gli lasciò strappare un ciuffo di crini dalla coda nera. Il ragazzo si tolse il panno dai fianchi e intinse i crini nel taglio sul pene, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi una coda di cavallo in fondo alla schiena. Nell’aria spenta del pomeriggio, ora poteva divaricare le narici e fiutare l’odore del vento. Proseguì verso est tra l’erba secca finché non fu notte.
Il secondo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò fino a un campo dove la terra era rossa e le radici delle piante morte gettavano la testa fuori. Aveva dormito sotto le stelle e conversato con la luna. All’alba il vento aveva smesso di soffiare. C’era una lingua di pietra, levigata e bordata da linee bianche, che correva dritta verso la piramide dei saggi, e la piramide dei saggi era in realtà un palo alto ottanta volte ottanta uomini. Aveva uno scheletro di ferro e tavole di specchio che riflettevano la luce del sole, e alcune di quelle tavole erano rotte come si rompevano talvolta i piatti d’argilla. Ai piedi della piramide il ragazzo non vide i saggi, ma ottanta uomini vestiti con abiti neri e stretti. Vide anche che quegli uomini non erano come i suoi padri, poiché non avevano corna di cervo. Tra le mani tenevano bastoni di ferro dalla lunga canna. Il ragazzo chiamato cerbiatto non andò alla piramide dei saggi e quando si voltò a est il vento tornò a soffiare e gli disse che quella era la direzione giusta. Più avanti c’era una boscaglia polverosa dove la terra era gialla e odorosa delle spighe delle tamerici. Non c’era altro sentiero che quello che il ragazzo disegnava con i sandali, e il sentiero saliva tra arbusti spinosi e unghie di roccia larghe come otto uomini. Il cielo era sceso sopra le montagne ed era diventato viola, e di tanto in tanto lampeggiava come se dietro al velo il sole e la luna stessero lottando. Quando caddero i fulmini il ragazzo capì che il padre cielo era furioso con lui perché si era attardato presso la piramide dei saggi, allora non si rannicchiò sotto gli arbusti della boscaglia per ripararsi dai fulmini e non si coprì le orecchie con le mani per non udire i tuoni. Quando venne la pioggia il ragazzo restò fermo e si lasciò bagnare, poi aprì la bocca poiché bevendo quell’acqua sarebbe stato perdonato. Quando finì la pioggia vide che il sentiero dei suoi sandali non c’era più, ma c’era tra la polvere una traccia d’acqua che come un piccolo fiume gli raccontava qual era la discesa e quale la salita. Lo seguì camminando a fianco di una colonna di formiche, finché le formiche non scesero da una porta nascosta sotto un sasso. In quel punto della boscaglia gli arbusti erano diventati più radi e le rocce più fitte. C’era un altro sentiero fatto da impronte di lupo e il ragazzo le seguì con passo di serpente fra i sassi e i cespugli, pensando che il lupo lo avrebbe sfamato condividendo con lui la preda come un fratello, poiché il lupo e l’uomo erano gli unici animali che pregavano il padre cielo. Drizzò la coda di cavallo, annusò l’odore della pioggia e delle bacche di caprifoglio e si strinse i sandali per non affondare nella terra bagnata. Quando il suolo si fece pietroso smarrì il sentiero delle impronte, allora cercò ramoscelli spezzati e ciuffi di pelo rubati dalle spine di rosa canina, e quando non vide più nemmeno quelli si chiese cosa avrebbe pensato il lupo a quel crocevia, quale fra le ottanta strade avrebbe scelto, e quando si fu risposto vide una coda sventolare come una bandiera e infilarsi sotto l’ombra di una macchia di pioppi, e la seguì. Aveva però smarrito l’est. Entrò nella macchia di pioppi che era giorno e vi uscì che era notte, toccò ogni tronco e scalzò ogni radice, ma non trovò il lupo. Girò tutto intorno al cerchio d’alberi ma nemmeno lì trovo il lupo. Quando il ragazzo alzò gli occhi a guardare la montagna che si sbriciolava a precipizio sulla boscaglia, il lupo uscì dalla macchia di pioppi con un fruscio. “Quando non riesci a trovare il lupo che stai cercando”, gli disse il lupo, “guardati alle spalle e lo troverai lì, poiché il cacciatore sa come nascondersi nella stessa pista di chi lo bracca. Ma tu, ragazzo cerbiatto, conosci uno strano sortilegio: credevo di averti sorpreso alle spalle, eppure ecco che mi guardi negli occhi con la tua seconda faccia sulla nuca, la terza faccia sul ginocchio destro e la quarta faccia sul ginocchio sinistro. Ti lascerò una parte di me, dunque, poiché ci siamo scoperti a vicenda. Con queste potrai udire il suono del vento e troverai da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente”. Detto questo il lupo gli donò le sue orecchie, lunghe e dritte. Il ragazzo si tolse il panno dai fianchi e vide che il taglio sul pene si era richiuso. Allora riaprì la crosta incidendola con il pugnale di ferro che portava sul petto, intinse le orecchie nella ferita, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi le orecchie di lupo ai lati della testa. Subito udì il respiro del sole che riposava sotto l’orizzonte, e le voci di ottanta e ancora ottanta uccelli che cantavano sulle colline, dietro il catino muto delle montagne di sabbia. Ora poteva udire il suono del vento. Quella notte il lupo e il ragazzo pregarono insieme il padre cielo, il lupo ululando e il ragazzo cantando una canzone triste.
Il terzo giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò fino a un cimitero di ferro. C’erano carcasse come quelle abbandonate a ovest del suo villaggio, ma molte di più e annerite dal fuoco, e dietro quelle carcasse c’era un recinto anch’esso di ferro ma arrugginito, e dietro quel recinto un cubo di pietra grigia, liscia come la strada che portava alla piramide. Tra il recinto e le carcasse di ferro c’erano barili a forma di cilindro. Avevano tutti un disegno giallo con tre triangoli. Alcuni erano pesanti e stavano fermi, sdraiati o ritti in piedi. Altri erano vuoti e rotolavano al vento. Lì la pianura era incassata, come se la terra stesse sprofondando, e la terra era bruciata come se vi fosse piovuto un masso dal cielo. Dentro una di quelle carcasse di ferro il ragazzo vide due cuccioli di lupo che giocavano rincorrendosi la coda e mordendosi la collottola. Scambiò uno sguardo con i loro occhi gialli e piegò le sue nuove orecchie di lupo. Poi andò avanti. Il suono del vento gli diceva che l’est era proprio là, oltre la pianura morta e silenziosa, verso le montagne dove avrebbe trovato l’orso e guadagnato le corna da adulto.
La strada saliva erta e a fare da guardiani alle montagne c’erano colline verdi di tanti alberi di cui non conosceva il nome. Ciascun albero gli parlava con una voce diversa, ma la loro lingua era lenta e il ragazzo chiamato cerbiatto aveva fretta di diventare uomo. Seguì allora la voce del corvo, che volava sopra gli alberi e gli diceva: “Vieni! È qui la strada”. Il ragazzo si aprì un sentiero tra i rami bassi, sempre salendo, e dopo il suo passaggio le felci piegavano la testa a coprire di nuovo la via. L’aria era bagnata e scura, le pigne scricchiolavano sotto i suoi piedi e profumavano come balsamo. Ogni volta che il ragazzo alzava gli occhi vedeva la sagoma nera del corvo sul cielo giallo del pomeriggio, che ancora diceva: “Vieni, vieni! È qui la strada”. Il ragazzo lo ringraziò e proseguì, finché non udì il fruscio del predatore fra gli alberi. “Eccolo, eccolo!” disse il corvo, e il ragazzo ringraziò di nuovo il gentile corvo che lo avvisava del pericolo. Si guardò intorno ma il predatore fu più veloce. Era una tigre bianca e nera, dalle zampe forti e i lunghi baffi. Il ragazzo si lasciò cadere sul tappeto di foglie e quando la tigre lo abbracciò per mangiarlo, il pugnale che portava sopra il cuore, stretto alla cintura, la punse sul petto. La tigre balzò indietro e si accucciò tra le foglie, bagnando la terra con una pozza di sangue viola. “Tu sei la preda che uccide il predatore” gli disse, e aveva una voce roca e bassa. “Tuttavia ti lascerò una parte di me, perché mi hai battuto con astuzia. Io volevo mangiare il tuo cuore, ma il tuo cuore era più affilato dei miei denti. A te lascerò la mia pelliccia, affinché tu possa sentire sulla pelle la forma del vento. E al nobile corvo, che mi ha guidato fino a te, permetterò volentieri di mangiarmi, quando sarò morta, affinché io possa tornare nel ciclo della carne”.
Il ragazzo si rialzò e il corvo atterrò lì vicino. Attese che la tigre fosse morta, poi rannicchiò le ali e cominciò a beccarla sul cranio e dentro gli occhi finché non si fu scavato una via per il cervello. “Grazie, gentile corvo, per avermi guidato e avvertito del pericolo” disse il ragazzo, mentre il corvo pasteggiava. “Tu credevi che io ti guidassi e che ti abbia avvertito del pericolo” disse il corvo, “ma in verità indicavo alla tigre la strada migliore per raggiungerti e l’avvisavo che ti era giunta vicina, poiché io mangio ciò che avanza ai predatori. Questo è il mio posto nel ciclo della carne. Tu sei più che uomo ma non sei ancora più che donna, e ancora non hai un tuo posto nel ciclo della carne; lo vedo da quelle piccole corna da cerbiatto. Ti lascerò una parte di me, affinché tu possa trovare il tuo posto. Con queste potrai vedere il colore del vento e trovare da solo la strada attraverso le montagne, finché non sarai arrivato così lontano a est che vedrai il sole sorgere a occidente”. Detto questo, si strappò un mazzetto di penne nere dalla coda e le offrì al ragazzo tenendole nel becco. Il ragazzo chiamato cerbiatto le accettò, poi ringraziò la tigre e le tolse la pelliccia bianca e nera con il pugnale, che era macchiato del suo sangue e di quello della tigre. Infine si tolse il panno dai fianchi e intinse le penne e la pelliccia nel taglio sul pene, come gli avevano insegnato i padri, e il sangue rosso, bianco, giallo e trasparente gli servì da pece per attaccarsi il mazzetto di penne sulle braccia, come se fossero ali, e per tenersi la pelliccia stretta al corpo. Si arrampicò sull’albero più alto e quando fu in cima il giorno era già notte. Da lassù vide il colore del vento e sentì la sua forma. C’erano riccioli d’aria che si avvitavano e poi correvano a est, sembravano code di cometa nel cielo nero senza luna. Il ragazzo scese e proseguì il cammino in salita, fino al limite del bosco. Lì i riccioli di vento indicavano un sentiero a forma di serpente fra gradoni e torri di pietra, cascate di sassi franati, torrenti d’acqua tanto fredda da far male ai denti. Il ragazzo si strinse nella pelle di tigre perché l’aria era come ghiaccio. Poco più in alto, le cime delle montagne erano bianche di neve e luminose come una nuova luna.
Il quarto giorno il ragazzo chiamato cerbiatto camminò sulla neve fresca che cedeva sotto i piedi, camminò sulla neve bagnata che somigliava a fango, camminò sulla neve ghiacciata che lo faceva scivolare, e ognuna era di un bianco diverso mentre il cielo era di un unico azzurro, e il sole vi brillava piccolo come la punta di uno spillo. Quando incontrò un lago di ghiaccio, ne spaccò la crosta per berne l’acqua e lavarsi il corpo. Nel chinarsi, nudo, si specchiò e vide il pene e la ferita simile al sesso di una donna, la pelle di tigre che gli teneva caldo, le orecchie di lupo, le penne di corvo e la coda di cavallo. Le corna da cerbiatto che aveva sulla testa erano cresciute ma non aveva ancora il palco grande e forte dei suoi padri. Avrebbe camminato verso est fino al giorno in cui avesse visto il sole sorgere a occidente, e lì avrebbe abbracciato, ucciso e mangiato l’orso: così gli avevano detto i padri, poiché altrimenti non gli sarebbero mai spuntate le corna degli adulti. Sopra il lago di ghiaccio c’era un’altura, e sull’altura c’era silenzio poiché la vita era sepolta sotto la terra in attesa della primavera, oppure si nascondeva con pellicce dello stesso colore della neve, per non farsi vedere dalle aquile. C’era soltanto un boschetto di abeti, ma persino gli alberi risparmiavano la voce parlando con sussurri lenti. Il ragazzo chiamato cerbiatto strofinò le corna sui tronchi, lasciando a terra fiocchi di lanugine e scaglie di legno. Sotto la corteccia scoprì insetti che chiacchieravano fitto e si stringevano nei carapaci. Dall’altra parte dell’altura c’era il tetto delle montagne, l’estremo oriente della terra, e sulla strada per la vetta c’era una grotta. Fuori dalla grotta c’era un orso grande e scuro, seduto davanti all’entrata intorno al tappeto delle proprie impronte. L’orso osservava il cielo e il ragazzo osservò l’orso per molto tempo. Di tanto in tanto l’orso chiudeva gli occhi, si addormentava e sognava. Poi, appena sveglio, tornava ansioso a guardare il cielo. Il cielo diventò nero e poi azzurro e poi di nuovo nero per molti giorni e molte notti. “Perché non entra nella grotta?” si chiese il ragazzo. “Sono ben nascosto fra gli abeti” pensò. “Gli abeti mi sono amici, non svelerebbero mai all’orso che mi nascondo qui. Potrei fabbricare un arco e una freccia con il loro legno, e con arco e freccia colpire l’orso”. Ma poi si guardò alle spalle, vide il sentiero di orme che aveva lasciato per salire sull’altura e capì. L’orso attendeva che il cielo diventasse bianco come la terra e che la prima nevicata coprisse le sue impronte affinché nessun cacciatore fosse condotto alla grotta, e affinché in primavera, dopo che la neve avrebbe coperto il mondo con un nuovo strato di mondo, lui sarebbe potuto rinascere dalla grotta come dal ventre della sua madre orsa. Il ragazzo provò rispetto e attese. Non fabbricò né arco né freccia. Quando venne la neve l’orso entrò nella grotta e il ragazzo lo seguì. Era l’alba, e prima di scendere dall’altura guardò il sole, che aveva il colore della paglia dietro il telo di nuvole grigie. Ne guardò il riflesso sullo specchio del lago ghiacciato e pensò che lo specchio del lago ghiacciato fosse una linea lunga quanto gli otto punti dell’orizzonte, e nel riflesso il sole era sorto a ovest.
Dentro la grotta le rocce parlavano una lingua che il ragazzo non conosceva, ma l’orso si alzò su due zampe per salutarlo ed era alto come otto uomini. “Ti ringrazio per avere atteso la nuova neve, cacciatore” disse l’orso. “Qui è dove io riposo e rinasco, ma so che tu sei venuto a combattere e guadagnare le corna dei tuoi padri. Al termine di questa grotta saremo oltre il tetto delle montagne, a est del sole. Vieni con me. Lì combatteremo per il nostro posto nel ciclo della carne”. Detto questo l’orso tornò a quattro zampe e cominciò a correre verso il fondo della grotta, e il suo galoppo risuonava forte tra le rocce, e il ragazzo lo seguì colmo di angoscia e ammirazione. La grotta si apriva su un crepaccio e in fondo al crepaccio c’era un torrente vorticoso. “Vedi che abbiamo entrambi due braccia e un petto”, disse l’orso rialzandosi in piedi. “Combattiamo e abbracciamoci, dunque, cacciatore”. Il ragazzo chiamato cerbiatto saltò più alto che poteva e abbracciò l’orso. Il pugnale che portava davanti al cuore, legato all’occhiello della cintura, punse l’orso tra le costole. L’orso strinse il ragazzo tra le zampe e lo morse sulla spalla. Insieme caddero nel torrente e nuotarono fino a valle, e mentre nuotavano l’acqua diventò ghiaccio e poi tornò acqua per otto volte, e l’acqua e il ghiaccio erano neri di sangue. Uscirono dal torrente e si sdraiarono su un letto di sassi.
“Hai guadagnato le corna dei tuoi padri, cacciatore” disse l’orso. “Hai combattuto bene e bene mi hai abbracciato, perciò ti lascerò una parte di me. Ma adesso sei adulto, sei più che uomo e più che donna, perciò è necessario che anche tu mi lasci una parte di te in cambio. Questo è il nostro posto nel ciclo della carne”. E l’orso ripulì il morso sulla spalla del ragazzo mangiandone un boccone di carne, e il ragazzo sanò la ferita del pugnale succhiando il sangue dal cuore dell’orso.
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Immagine di Francesco D’Isa.
Andrea Cassini, filologo medievale di formazione, è giornalista, consulente editoriale e traduttore; si occupa principalmente di cultura pop e letteratura fantastica. Scrive regolarmente per L’Indiscreto e ha pubblicato racconti su varie riviste e antologie, facendo inoltre parte del collettivo TINA (Storie della Grande Estinzione, 2020). Non tutto il male – Cronache della terra inabitabile (2021) è il suo primo romanzo.
Bellissimo racconto che mi ha portato in viaggio , un viaggio psichedelico e interiore ma anche nelle foreste e nei campi dei nostri padri . Grazie . Ho sempre saputo di essere stata lì ed ora ho visto .
Splendido racconto! Il legno di abete, però, non credo avrebbe dato la giusta elasticità ad arco e frecce :D.