Cenere
di Arianna Villani
Queste righe vogliono essere una testimonianza. Un’esperienza personale e come terapeuta.
Nei primi giorni di isolamento forzato ho ascoltato il silenzio, il buio, il cielo deserto dal traffico aereo, la natura che si prepara al risveglio primaverile.
Ho veicolato il setting terapeutico a una modalità nuova e che, fino ad adesso, avevo relegato all’ultimo posto delle possibilità, sia per inattitudine al metodo online sia per pregiudizi circa il mezzo.
Mi sono adattata, mi sono posizionata di fronte a uno schermo e ho provato a liberarmi dai tabù, dai preconcetti che fino a ora mi guidavano e ho cercato e sto cercando di imparare da me e dai miei pazienti.
Un momento di crisi. Di profondo cambiamento. Di ricerca di senso e di significati.
Mi vengono in mente le parole di Racamier “non c’è altro modo di uscire da un eccesso, qualunque esso sia, che attraversare una crisi”[1].
L’eccesso di tecnologia, l’eccesso del progresso, l’eccesso dei ritmi, l’eccesso di una società industrializzata e consumistica con lo scopo primario del produrre e del denaro, l’eccesso di tutto, che contemporaneamente mi richiama il suo opposto, eccesso di niente e che mi conducono alla dipendenza: tutto e niente, tutto e subito.
Credo che questa crisi sia un’occasione per rivalutare il senso del nostro vivere, per riflettere sui gesti distruttivi che solo l’uomo è capace di compiere con l’illusione di un fittizio benessere.
Ogni relazione terapeutica mira al cambiamento, quindi lavora nel quadro della possibilità del processo di crisi; inoltre, è probabile che tutte le crisi si risolvano partendo da un’accettazione di una certa ambiguità.
Bisogna accettare in certi momenti di non capire e credo che il terapeuta analitico dovrebbe subire l’indifferenziamento prima di capire e di differenziarsi.
Questa volta, però, l’ambiguità non è solo nel mondo del paziente ma abita anche dentro di me, “.. la capacità di tollerare e superare le crisi, di evolvere e anche di creare durante una crisi, mi sembra che consista nella capacità di tollerare l’ambiguità”[2].
Lo spazio del pensiero richiede confini, così è possibile percepire quell’immagine, quel segno che ne deriva.
Penso a una scultura, a un quadro; ogni forma che emerge ha linee chiare che ne esaltano l’interno, che lo rendono tangibile, visibile, vivo.
Sono quasi due mesi che i confini si sono spostati, ribaltati, confusi, imbrigliati in canoni inversi dove occorre ricostruire un tempo nuovo.
Confini ristretti, relegati in spazi ridotti, dove le pareti delle case hanno la funzione raccapricciante di delimitare una libertà di movimento che fino a ieri era scontata, saldamente appartenente a ognuno di noi nella gestione di scelte, di azioni, di incontri, di movimenti nel mondo.
La casa non ha più funzione di protezione ma innalza barriere che assomigliano a sbarre di prigioni invisibili.
Anche la condizione più favorevole in questo tempo senza spazio ha le sembianze di una gabbia dorata.
Mi trovo a vivere in uno spaesamento del pensiero. Smarrita in un qui e ora che non ha passato né futuro.
Vivo la vita e sono vissuta dalla vita.
Ci sono parole che riecheggiano nella mente, come nei racconti dei sogni di alcuni pazienti.
Assenza, solitudine, vuoto, mancanza, tristezza.
Nei loro sogni case in bilico, invasioni, rappresentano lo scenario di instabilità emotiva e bisogno di ricreare confini, protezioni.
Assaporo l’odore penetrante della morte nel languido dondolio di un tempo senza lancette orientative.
File di bare che avanzano in una marcia immobile in cui l’ultimo saluto, delegato al rito, è negato.
L’unica presenza e la consistenza dell’assenza.
Si riapre il varco indelebile di una ferita, del trauma della perdita improvvisa; che l’atto suicidario, con la sua lama mortifera, ha tagliato la possibilità del respiro ansante alla vita.
Il tradimento della fiducia, riposta nella possibilità di riscatto attraverso risorse personali, avanza
con il suo passo ritmato.
Ascolto la tristezza del buio profondo che mi avvinghia in un abbraccio senza corpo.
Navigare nel magna emotivo rischia di mutarsi in un labirinto senza via di uscita.
Cercare di dipanare la nebbia che avvolge la mente appare necessario.
In questo esistere mi aggancio al lavoro. Attraverso lo schermo del computer accedo alla presenza dell’Altro. Ma sono presenze che incarnano l’assenza del corpo e l’assenza diviene una presenza bianca totalizzante che mi invade incessantemente.
Sono alla ricerca di senso.
Lo trovo nel calpestare la terra a piedi nudi. Lo trovo nell’accarezzare i giovani fili d’erba, lo trovo nel canto dei pettirossi al sorgere del sole, lo trovo nella purezza dei fiori del ciliegio selvatico, nella possente presenza di un bosco di cerro e castagno.
Lo trovo nel recupero della mia mortalità, nell’accettare che ogni cosa muta, cambia, che la vita è una perpetua trasformazione e che l’effimera ricerca di sicurezze non esime dall’ ineluttabile fine della vita.
Mi sono assolta dall’aver mancato di presenza? Questa è la domanda che mi nasce dall’eco dell’assenza. Non è tanto la morte, che ha evidenziato la perdita, ma la mia dipartita in vita nel contatto stretto con chi ha scelto di andarsene per sempre.
Due passi sotto casa.
Aprendo la casetta dedicata allo scambio di libri trovo al suo interno tre post-it gialli che attraggono la mia attenzione. Non so chi l’ha lasciati come messaggio da condividere con altri, alla prima lettura mi appare quasi la descrizione di un sogno, poi rintraccio le parole di Primo Levi.
Niente accade per caso “…Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi… Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo ..”
Vita e Morte.
Si possono riaprire le porte all’ambivalenza.
Penso all’ineludibilità del cammino della vita.
È come se avessi attraversato un esilio da me stessa passando da uno stato di estraniamento alla possibilità di assaporare una nuova linfa vitale.
La cenere nutre, non è solo l’essenza di qualcosa che non c’è più.
Testimonianza di trasformazione.
E adesso, tornare ad affrontare il cammino della propria esistenza, sopportando il peso della responsabilità delle proprie azioni e, a volte, dovendo reggere anche l’angoscia che ne deriva, rappresenta ciò che dobbiamo a noi stessi.
[1]Racamier P. C. 1993, Il genio delle origini, Raffaello Cortina Editore pag.116
[2]Racamier P.C. E Taccani S. 1986, Il lavoro del negativo, Edizioni del Cerro pag. 161
Testo tratto da: Rivista di Psicologia Analitica Nuova Serie, Volume 101/2020, n. 49