Da Saffo a García Lorca: venti traduzioni per due poesie
[DieciXUno – Una poesia, dieci traduzioni è una collana dell’editore Mucchi, curata da Antonio Lavieri, che ho già presentato qui. Sono ora usciti due nuovi volumi, dedicati rispettivamente all’Ode all’amata di Saffo (a cura di Sotera Fornaro) e al Lamento per Ignacio S. Mejías di Federico García Lorca (a cura di Francesco Fava): ciascuno contiene una versione inedita del/la curatore/trice. Di entrambi pubblico uno stralcio dell’introduzione e due delle dieci traduzioni presentate e analizzate, ognuna delle quali rifrange, come sempre accade, una diversa luce del testo di partenza: per questo motivo ho scelto come immagine di apertura un fotogramma tratto da “Everyone’s Moon” di Penelope Umbrico, artista i cui lavori propongono spesso suggestioni interessanti per chi si interessa di traduzione. (ornellatajani)]
a cura di Sotera Fornaro
[…] Di recente, uno tra i più grandi studiosi di lirica greca e dei sui aspetti performativi, Claude Calame, ha paragonato il beatbox dell’artista rap Steff La Chef proprio a quest’ode di Saffo, a mio parere con tutti i buoni motivi. Il beatbox, come ha dichiarato la stessa artista, «c’est une percussion de la bouche. On fait des bruits, des mélodies et des rythmes avec la langue, les lèvres, le nez, le larynx, le palais, les cordes vocales et le diaphragme». Ed è così che dobbiamo immaginare performata questa ode di Saffo, tanto più che il rap in questione usa la variante di Berna dello svizzero tedesco, e dunque assomiglia alla lingua dialettale di Saffo. La comparazione, che Calame attua con solide basi teoriche, serve a comprendere in generale la poesia di Saffo, anche nel suo contenuto specificamente omoerotico. Ma di tali comparazioni non c’è (ancora) traccia nelle traduzioni disponibili, sia perché, ovviamente, una vera traduzione in tal senso sarebbe piuttosto un libretto di sala, sia perché l’idea che la lirica sia una soggettiva, personale espressione dell’io, una specie di sfogo interiore, se si tratta di lirica d’amore, perdura al punto da condizionare ancora le traduzioni della poesia lirica antica.
Un censimento completo di tutte le traduzioni nelle lingue moderne di quest’ode manca, e non sarebbe impresa facile; un libro francese ha proposto il repertorio di cento traduzioni in francese. Non saprei dire se possiamo contarne altrettante in italiano: la prima traduzione a noi nota data 1572, ed è una versione molto consapevole, perché seguita da un attento discorso del traduttore, Francesco Anguilla, letterato forse di Ferrara di cui però non sappiamo nulla, che tra l’altro si serviva dell’ampio commento per poter indirettamente esprimere il suo amore per una donna, che resta anonima. Ora: il soggetto che prova le emozioni connesse al sentimento d’amore, in Saffo, è una donna. Ma il lavoro di traduzione è diventato ri-traduzione del soggetto stesso, poiché la gran parte delle traduzioni sono di uomini. Come ha scritto Salvatore Puggioni, la ricezione dell’ode coincide in gran parte con la ricezione della figura stessa di Saffo, e «innerva zone importanti della letteratura italiana prenovecentesca fino a Parini, Foscolo, Leopardi e al Pascoli ‘conviviale’, e che già dalla prima età moderna riconosce in Tasso uno degli interpreti più autorevoli». Altri hanno studiato tale tradizione, e dunque la specificità di questo nostro piccolo libro non è raccogliere dieci traduzioni, più o meno celebri, di Saffo, ma proporre nove traduzioni redatte da donne, compresa la mia, più la prima conosciuta in lingua italiana […].
–
trad. di Iolanda Insana
Lo vedo felice come un dio
lui che ti sta di fronte
e attento segue il suono
della voce
la tua fresca risata.
È soprassalto, mi scuote tutta.
Appena il tempo di vederti
E non so più parlare.
La lingua si spezza
brivido di fuoco rapido corre
sulla pelle
l’occhio non vede ronzano le orecchie
Sudore freddo
e tremito mi prende
e più verde dell’erba
mi sembra di morire, Agallide.
–
trad. di Rosita Copioli
Proprio sorte pari agli dèi ha per me
quell’uomo, che ti specchia rapito,
vicino, e la voce soave
ti assorbe
e il riso amoroso: e questo
mi atterrisce dentro il petto il cuore:
Oh, mi basta vederti, e di colpo di voce
non mi resta più nulla,
anzi a me la lingua s’è franta, rapido
un fuoco sottile corre dentro la carne,
e con gli occhi non vedo più, e le orecchie
rombano,
e il sudore m’inonda, e mi cattura
tutta il tremore, e sono più verde
dell’erba, e mi sento di poco lontana
proprio dal morire.
Ma tutto si può sopportare, giacché…
anche un poveruomo…
____
a cura di Francesco Fava
1. Il Llanto por Ignacio Sánchez Mejías non è forse il più bello ma è, senza alcun dubbio, il più celebre tra i componimenti poetici di Federico García Lorca. Oltre alla sua rilevanza nella storia letteraria spagnola, si tratta di un testo che attraverso le sue numerose e qualificate versioni italiane costituisce anche un tassello estremamente significativo per la storia della traduzione e della ricezione delle letterature straniere nel nostro paese nel corso del XX secolo. Intorno all’elegia per l’amico torero morto nell’arena, composta da Lorca nel 1935, si condensano infatti le attenzioni di traduttori più che illustri, a partire – come rievoca Oreste Macrì – dagli «ardenti e mitici anni fiorentini (1936-1942) della mia generazione, quando Carlo Bo ci leggeva alle Giubbe Rosse le strofe del Llanto por Ignacio». Nel breve volgere di poco più di una ventina d’anni, tra 1938 e 1961, a cimentarsi in una traduzione italiana del testo sono, oltre a Bo e allo stesso Macrì, scrittori capitali del nostro Novecento quali Elio Vittorini, Giorgio Caproni e Leonardo Sciascia. La versione di Sciascia generò persino un’agguerrita polemica letteraria che mise a confronto poetiche traduttive e interpretazioni testuali contrapposte. E, caso unico più che raro nel panorama editoriale dell’epoca, nel 1978 il Llanto venne offerto al lettore in un’edizione che presentava insieme, l’una dopo l’altra, tutte e cinque le traduzioni appena citate. Illustre era anche il curatore del volume, Giovanni Raboni, che nell’introduzione osservava come «una lettura ravvicinata e strettamente cronologica di queste cinque letture può fornire più di un’indicazione suggestiva sulle persistenze e le metamorfosi che hanno interessato, negli ultimi quattro decenni, l’evoluzione del gusto poetico e letterario in Italia». A 40 anni dalla sua prima pubblicazione italiana, il Llanto diventava così anche occasione per riflettere su come le traduzioni giochino un ruolo non ancillare nel polisistema letterario nazionale e su quanto siano profonde le relazioni osmotiche tra poetiche del tradurre e poetiche ‘autoctone’.
Accanto alle cinque versioni storiche, tra le altre traduzioni italiane pubblicate nell’ultimo trentennio si è scelto di includere in questo volume quelle realizzate all’interno delle due importanti edizioni integrali della poesia lorchiana curate rispettivamente dagli ispanisti Norbert Von Prellwitz (la traduzione del Llanto è lì affidata a Lorenzo Blini) e Giovanni Caravaggi. Tra le versioni in altre lingue europee si propongono invece la traduzione d’autore, in portoghese, di Jorge de Sena, voce insigne della lirica lusofona del XX secolo, e quella francese realizzata per la Bibliothèque de la Pléiade da André Belamich, autorevole specialista dell’opera di Lorca.
Se questo libro fosse un’edizione multimediale, lo si potrebbe completare con due file audio: le letture del testo realizzate da Arnoldo Foà (1955) e Carmelo Bene (1965). Pur fondate entrambe sulla traduzione di Carlo Bo, in virtù della forte personalità artistica dei due attori si configurano come altrettante originali reinterpretazioni dell’opera. Il disco che riproduceva la lettura di Foà conobbe peraltro un inaudito successo di pubblico, superando il milione di esemplari venduti e rendendo il Llanto un fenomeno unico nella storia della cultura italiana: i suoi versi si incisero nell’immaginario nazionale arrivando a essere citati quasi proverbialmente, ripetuti, declamati, persino parodiati […].
–
[Accolgo l’intenzione di F. Fava e propongo, prima dei due estratti di traduzione, i file seguenti:
qui Arnoldo Foà legge la traduzione di Carlo Bo
qui invece è Carmelo Bene a leggerla (parte I, segue al termine la parte II)]
–
trad. di Elio Vittorini
I. La cornata e la morte
Fu alle cinque, la sera.
Erano in punto le cinque della sera.
Recò un ragazzo il bianco lenzuolo
alle cinque di sera.
E una sporta di calce era già pronta
alle cinque, la sera.
Ed era morte il resto, morte era
alle cinque della sera.
Sollevò il vento fiocchi di cotone.
E cristallo e nichelio
alle cinque della sera
fu seminato intorno.
Mentre l’un contro l’altro
già lottano il colombo ed il leopardo
alle cinque della sera;
il corno dentro il muscolo squarciato
alle cinque della sera.
Poi rintocchi, alle cinque della sera,
cominciarono, alle cinque di sera.
Le campane d’arsenico e il fumo.
Era a gruppi il silenzio negli angoli
alle cinque della sera.
Soltanto il toro aveva il cuore in alto
alle cinque della sera.
E col sudor di neve
alle cinque della sera
con l’jodio sparso sulla terra intera
venne la morte alle cinque di sera
e mise nella piaga le sue uova,
alle cinque di sera
in punto alle ore cinque
della sera.
[…]
–
trad. di Giorgio Caproni
I. La cornata e la morte
Alle cinque di sera.
Le cinque in punto di sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco.
Alle cinque di sera.
Una cesta di calce bell’e pronta.
Alle cinque di sera.
Tutto il resto era morte e solo morte
Alle cinque di sera.
Il vento portò via con sé il cotone
Alle cinque di sera.
E seminò cristallo e nichel l’ossido
Alle cinque di sera.
Già la colomba lotta col leopardo
Alle cinque di sera.
E la coscia col corno desolato
Alle cinque di sera.
Cominciarono i tocchi di bordone
Alle cinque di sera.
Le campane d’arsenico e di fumo
Alle cinque di sera.
Sui canti capannelli di silenzio
Alle cinque di sera.
E solo il toro aveva il cuore in alto!
Alle cinque di sera.
Quando il sudor di neve sopraggiunse
Alle cinque di sera,
Quando l’arena si coprì di jodio
Alle cinque di sera.
La morte pose l’uovo nella piaga
Alle cinque di sera.
Alle cinque di sera
Esattamente alle cinque di sera.
[…]