I poeti appartati: Francesco Marotta
Dalla dimora del tempo sospeso 1
Lettera al figlio
di Francesco Marotta
Dalla dimora del tempo sospeso
all’estremità delle pupille
dove la stanza sfuma in una mobile nebbia senza fondo
un bambino scruta pensieroso il velo d’ombre
che ricompone il mio volto
in lineamenti febbrili di spina –
sento i suoi occhi ricucire squarci d’orizzonte
e la mia voce che sussurra flebili accenti di saluto
ritornare al suo stupore senza pianto
come una cadenza di gemiti, un groviglio di suoni
che impietosi si arenano nel guado
della sua età breve di giorni –
nell’assenza di luce, il tremolare della mia mano
che si trascina alle labbra il peso di astri pietrificati
è un veleno sotterraneo
che sfilaccia la trama dei suoi sogni,
scioglie l’incanto che alimentava di pollini e di vele
le distese inesplorate di un mondo a misura del respiro –
perso in un deserto incomprensibile
come un uccello caduto in volo
seguendo il lampo che annuncia le sorgenti,
guarda la mia barba tutta bianca
come una fiaccola fiorita
a disperazione del suo sguardo
nei silenzi di radure senza ali, nel vuoto
dove credeva di incontrare il cielo –
vorrei sapergli dire, con lingua lieve
di neve che acquieta gli specchi dell’anima
e lascia immacolato l’alfabeto del suo universo nascente,
che l’arco infinito delle stagioni
disegnato dal fuoco verde dell’infanzia
si muta lungo gli anni nel cammino inarrestabile
di un fiume che volge alla foce –
che proprio l’alba che disperde il buio
dischiudendo ai colori le forme della vita
immutabile sorge per consacrare alla polvere
il nostro destino di essere, passare,
e oggi si è levata a rischiarare senza mattino
questa dimora del tempo sospeso
dove anche l’acqua gravemente tace sulla soglia
e la corrente è un’onda senza eco nel mare della storia –
vorrei potergli dire, ma la parola si trattiene
come vento che ha smarrito le orme sul sentiero,
perché non c’è sapere, non c’è immagine
capace di confinare ai margini la sofferenza dell’incontro,
non c’è lacrima che non scavi un solco,
una traccia indelebile di solitudine,
quando il dolore irrompe con la forza di un grido
nella purezza di una pagina priva di memorie
e come un seme di rovo germoglia florescenze amare
nelle terre feconde, senza passato, della primavera –
così tengo per me, come una reliquia
la ferita di quella fonte ammutolita –
domani, forse, gli racconterò della stella del ritorno
della mappa del naufragio incisa sulla pelle
dell’isola riemersa per prodigio estivo
dopo l’uragano – domani, forse,
potrò insegnargli a navigare le sabbie
costeggiare la sete, correre sicuro verso l’oasi