Prede

di Lisa Malagoli

Sono passati due giorni dalla morte di papà e tu stai già iniziando a cedere. Sei in ritardo, ti grido muoviti. Vorrei essere più gentile con te ma non riesco. Non mi escono le parole gentili, solo parole oneste.

«Eccomi, cazzo, eccomi» rispondi dal primo piano.

Scendi le scale con un pacchetto di sigarette in mano e i pantaloni scuri che avevi addosso quando si è sposato zio. Chiedi dov’è la stronza.

«Non lo so.»

Estrai una sigaretta dal pacchetto, te la metti in bocca. Non ti ho mai visto fumare.

«Oh, lo sai dov’è la camera ardente?»

«Ma sì che lo so. Dai, ci vediamo dopo.»

Ok. Ti dico lavati la faccia che così non ti posso vedere e tu mi guardi come un animale ferito. E anche se mi dispiace te le dico lo stesso le cose perché sono come mamma, sono onesto fino al vomito.

Io non sono papà.

*

Ci sono un sacco di persone al funerale, una quantità enorme. A huge amount of people; rende meglio il concetto, dà l’idea di massa. Da quando lavoro come interprete mi succede spesso di tradurre mentalmente stralci di discorsi che sento alla televisione o in strada, pezzi di frasi, espressioni curiose. La chiamano deformazione professionale ma nessuno dice mai quanto possa essere stancante; ti prosciuga le forze, dico davvero. Ma fare l’interprete mi piace. È la prima cosa che dico quando mi presento a qualcuno, subito dopo il nome. Mi chiamo Luca e sono un interprete – dico così. Bisogna essere svegli per fare questo mestiere – pensare velocemente, trovare l’espressione più accurata. Essere onesti. Mica tutti ne sono capaci. Lavoro in ospedale, faccio da ponte fra le persone. Secondo la Bibbia, in principio gli uomini parlavano una sola lingua e per questo si sentivano come Dio – peccavano di superbia, insomma. Un tempo gli uomini erano uniti mentre ora non lo sono più; sono solo piccole isolette, lontane fra loro. Ed è qui che arrivo io –, io sono il ponte. Sono molto fiero di ciò che faccio, sul serio. Mi piace pensare che permetto alle persone di comprendere.

Ti vedo spuntare fra donne che conosco appena, ti avvicini. Hai le guance chiazzate di rosso mentre mi allunghi un ritaglio di giornale che non prendo.

«Un tizio mi ha portato questo.»

«Che è?»

«Hanno scritto un articolo sulla Gazzetta, su papà. L’avevi visto?»

«No, che dice?»

Ritiri la mano, fai scorrere gli occhi sulle lettere d’inchiostro, da sinistra a destra.

«Parla del negozio di animali. E qualcosa sull’associazione ornitologica, sulle mostre – è un bell’articolo, dovresti leggerlo.»

Sorridi, senza alzare lo sguardo. Mi dici: «Te lo ricordi quando arrivavano i cuccioli di Golden? Papà diceva: “Giocaci un po’ e poi rimettili nella scatola”. Lo diceva o no?»

Sì lo diceva. Si sedeva di fianco a te sul pavimento. Io dalla scala vi guardavo.

«E i canarini, quelli strani, com’è che si chiamavano? – cazzo non ricordo – dico quelli storpi.»

«Gibber Italicus. Papà diceva che dovevano avere la forma di un sette perfetto – secondo gli standard.»

Disegno un sette per aria con l’indice. Un segmento orizzontale – la testa, il collo – e poi un altro obliquo, lungo – il busto.

«La forma di un sette.»

La tua voce si rompe e diventa acuta. Mi fa male vederti così, ma non posso dirtelo. Ti metto una mano su una spalla, sei caldo, come se avessi la febbre.

«Andiamo a salutare.»

La cappella famigliare è piccola, in marmo, e ha una porta di vetro lucido che mi ha sempre fatto cagare. Sulla porta è incisa una scritta: TONDELLI-BESUTTI. I nomi sono in maiuscolo, separati da un trattino. Sembra l’ingresso di uno studio notarile. Ci sono otto loculi, quasi tutti già impegnati; ci sono i bisnonni, gli zii, e un tizio che di cognome fa Gambuzzi e che non c’entra nulla con la nostra famiglia. L’avrò visto tre volte, credo sia stato il marito di zia Clara. Ora si è risposata e i genitori di quel Gambuzzi ci vengono a chiedere la chiave della cappella ogni volta che vogliono vedere il figlio. Sono sempre molto gentili e non sembrano poi dispiaciuti.

La tumulazione è veloce, l’unico rumore che si sente è quello della cazzuola che spalma la calce – tanti colpetti rapidi e stonati, come se qualcuno stesse giocando a spadaccino col muro. Le persone iniziano ad andarsene, a gruppetti. Io e te restiamo soli, a fissare la cappella.

Ti dico che non ti lascio andare messo così e mi accendo una sigaretta.

«Andiamo a mangiare qualcosa, guarda quanto cazzo sei magro.»

«Non ho fame.»

«Accompagnami e basta. Andiamo in quel bar che fa gli estratti, vicino San Paolo.»

Parcheggiamo l’auto e ci sediamo a un tavolino esterno. Io prendo un panino e tu un caffè. Non faccio in tempo a sedermi che hai già una sigaretta in bocca e attacchi a parlare di lei.

«Hai visto mamma oggi? No, ma dico, l’hai guardata? Era lì con quel sorriso beota, come se dovesse venderti un’aspirapolvere.»

Prendi una boccata di fumo e rimani in silenzio, con il gomito appoggiato al tavolo e la sigaretta a mezz’aria. Mi dici che è una stronza – oggi l’hai già detto quattro volte – che non ti spieghi come faccio ad andarci d’accordo.

«Ma lascia perdere mamma. Ne ha passate tante. Ultimamente non si scannavano più, è già una vittoria, fidati.»

Mi chiedi perché cazzo mi affanno tanto a difenderla, che poi papà era diverso, che quando hai detto a tutti di Leo lui è stato il primo ad abbracciarti senza stare a misurare le espressioni degli altri nella stanza. Ti strofini via una lacrima dalla guancia con il polsino della camicia. Ti strofini così forte che la pelle diventa tutta rossa e chiazzata. Dici che hai diciotto anni, che hai ancora bisogno di lui.

Dico che papà è morto. Anche se hai bisogno di lui.

Finisci il caffè, raccogli l’ultima goccia sul fondo col cucchiaino.

Mi fai: «Mi dà fastidio quando dici quella cosa.»

«Che?»

«Che papà è morto.»

«Ma …»

«Non mi importa.»

Mi accendo anch’io una sigaretta, sbuffo fuori tutto.

«Cazzo, ha proprio ragione mamma. Abbiamo tutti paura di dire le cose come stanno. Oh, ma ci hai fatto caso che nessuno nomina più la parola morte alla tv? Dicono che questo ha perso la vita, che quell’altro se n’è andato. Che hanno trovato il corpo senza vita di non-so-chi. Ma vaffanculo. Sono morti, punto, stecchiti. Le parole ci sono, vanno usate, mi spiego? Se dico angelo, al posto di cadavere -be’, sono solo un povero stronzo illuso, lo capisci?»

Mi rivolgi uno sguardo freddo, osservi un punto oltre me. Non mi segui, sei inchiodato a un pensiero.

Poi mi dici: «Oggi ho guardato anche te.»

«E quindi?»

«E quindi non hai mai pianto.»

Rido ma è più uno sbuffo che una risata. Ti dico che non vuol dire un cazzo.

Restiamo una manciata di minuti in silenzio fino a che inizi a singhiozzare.

«Raccontami qualcosa di lui, ti prego. Tu lo conoscevi da più tempo.»

Guardo un momento fuori dalla finestra. In effetti c’è una cosa che ti potrei dire.

«Va bene, ti racconto una roba che è successa anni fa e tu mi dici cosa ne pensi.»

*

Era settembre 2012, e stavamo ancora nei moduli temporanei. Ti ricordi qualcosa di quell’estate? Cos’avevi, dieci anni? Forse meno. Eppure, non sembravi spaventato. Facevi un sacco di domande a tutti – al papà, ai nonni, ai vecchi per strada – volevi sapere se le cose che sentivi dire erano vere. Tutta quella roba sulle trivellazioni, sui risarcimenti statali, sulla magnitudo. Non facevi che chiedere, come se ci volessi dimostrare di essere un adulto razionale, di quelli che valutano i fatti e non si fanno prendere dal panico. Non ce la siamo bevuta. Sapevamo che avevi paura, come potevi non averne? In fondo eri un bambino. Quello che sbagliavamo con te erano i modi, ti trattavamo tutti da scemo. Tutti tranne papà.

Lui sapeva come fare.

Il 29 settembre la Protezione Civile ci chiamò per comunicarci che avrebbero demolito casa nostra. È inagibile, ci dissero, Il danno è serio, non si recupera. Dissero che con tutte quelle scosse di assestamento una volta o l’altra sarebbe caduta sulla testa di qualche ciclista. Ci dissero che c’era la possibilità di entrare a recuperare le nostre cose, che ci mandavano due vigili del fuoco.

La mattina dopo ci svegliammo alle sette in punto.

Papà propose di andare a fare colazione al bar, prima. Te lo ricordi quel bar che faceva i pancake? Io sì. Era il nostro preferito. Mamma si incazzò come una furia. Disse che non stavamo andando in gita e che non c’era bisogno di indorare la pillola – usò queste esatte parole. Che ci demolivano casa e che non c’era un cazzo da festeggiare. Iniziarono a litigare, come sempre.

Lui disse: «I ragazzi hanno bisogno di un po’ di serenità.»

Lei rispose: «Certo, sei così tu, eh? Come l’estate scorsa.»

Poi papà disse: «Taci.»

Solo questo, taci. Faceva così lui, tagliava corto. Non ho mai capito a cosa si riferisse mamma con quella storia dell’estate scorsa, ma il suo tono mi fece salire una rabbia tale che avrei voluto picchiarlo. Non so perché. Forse perché, a volte, sai le cose ancora prima ancora che si materializzino sotto forma di parole.

Il paese aveva completamente cambiato aspetto e non era solo per i palazzi crollati. Certo, quelli facevano impressione, ma c’era dell’altro. C’era elettricità nell’aria, come un fremito che ti solleticava sotto le ascelle. Ascoltavamo il telegiornale o la radio, tutti smaniosi, e ci brillavano gli occhi quando qualcuno nominava il nostro paese. La gente diceva: «Zitti, zitti, che stanno parlando di noi.» Dovevano mordersi le labbra per non sorridere. I bambini impallidivano a ogni nuova scossa, ma gli anziani no. Avevano ripreso a raccontarci della guerra, ridevano e non avevano paura, loro. Scherzavano, dicevano che non avrebbero mai più dormito con un quadro sopra la testa.

Raggiungemmo il bar e ordinammo la colazione.

Il barista servì piatti e tazzine, e chiese come stavamo noi ragazzi. Il papà rispose che stavamo benissimo. Il barista chiese se avevamo saputo di quei tizi col megafono, che andavano in giro per il paese sulla Mercedes nera. Papà scosse la testa.

Il barista disse che quella gente voleva farci uscire di casa con la scusa di una nuova scossa.

Disse: «Sciacalli di merda.»

Si asciugò le mani nel grembiule nero. Disse che non l’avrebbe mai creduto che un terremoto potesse capitare proprio qui, in questo posto in cui non capita mai nulla.

Mamma si toccò quel punto esatto fra le sopracciglia – c’hai presente? Lo fa tutte le volte che sente qualche frase che reputa cretina. Disse: «Cosa c’è di straordinario? Vede mai il tg, tutte le tragedie che capitano al mondo? Stavolta è toccato a noi, tutto qui.»

Mamma era così, già allora.

Quando il barista se ne andò, tu avevi un punto di domanda stampato in faccia. Chiedesti perché quell’uomo parlava di sciacalli visto che sono animali che non vivono qui.

Papà rispose che è solo un modo di dire. Che gli sciacalli sono persone che si comportano molto male in situazioni come la nostra, che ne approfittano per rubare e fare cattiverie. Che c’erano persone buone – come noi – e altre cattive. Ma che tu non dovevi avere paura finché c’era lui con te. Che eri fortunato perché i ragazzi che crescono con una famiglia attorno sono più forti degli altri. Che bisogna essere forti a questo mondo.

Mamma pagò e camminammo fino alla nostra casa.

Passammo davanti al negozio di animali di papà che era buio e delimitato da transenne di ferro e nastri rossi e bianchi. Ad un certo punto ti girasti verso di lui con un’espressione così allarmata in viso che mi spaventò.

«Papà, ma tutti gli animali del negozio? Non sono mica morti, vero?»

Papà disse di no, che ci aveva pensato lui. Io gli feci notare che l’edificio era inagibile e transennato, e che non facevano entrare nessuno. Era una giornata di vento caldo e i nastri rossi e bianchi sbattevano ovunque. Quel rumore mi faceva sentire inquieto.

Mamma guardò un palazzo crollato in lontananza. Disse: «Sì, raccontaci come hai fatto.» Lì per lì non ci feci troppo caso. Da allora penso spesso a quella frase.

Papà rispose che una notte era entrato di nascosto e li aveva portati via. E che quando aveva aperto la porta dello scantinato i cagnolini avevano iniziato a guaire così forte che aveva avuto paura che lo sentissero da fuori.

Tu domandasti qualcosa a proposito di un certo Tom, e io chiesi chi fosse, sempre fissando i nastri. Non riuscivo a non guardarli. La sera prima del terremoto di maggio c’era stato lo stesso vento caldo. Un vento che fa maturare la frutta in un attimo.

«È il cane con quella grossa macchia bianca sul muso» dicesti, «ha la faccia da Tom, secondo me.» Eri offeso. Ti infastidiva sempre quando mi intromettevo nelle vostre conversazioni.

Una folata fece cadere a terra una transenna. Ti scappò un urletto e io ebbi la sensazione che sarebbe successo qualcosa di molto brutto, di lì a breve. Che sarebbe arrivata una scossa così forte da aprire il cemento, che saremmo precipitati tutti nel buio. Ero sicuro che sarebbe accaduto. Papà si inginocchiò e ti strinse. Disse che Tom gli aveva leccato tutte le mani e che si era guardato attorno per cercarti, perché eri il suo preferito. Ti promise che una volta sistemati con la casa lo sarebbe andato a riprendere e che sarebbe stato il tuo cane.

«Ma devi essere responsabile, capito?»

Tu ridesti forte e per un attimo il vento si calmò. I nastri si adagiarono molli e io pensai che in fondo le cose si potevano ancora sistemare.

La facciata della casa non sembrava poi tanto diversa da com’era sempre stata. Era tutto come al solito, tutto a parte una grossa crepa che nasceva sotto il tetto e correva lungo tutta la parete, come un serpente, sfiorando la finestra dello studio e gettandosi dritto contro la porta d’ingresso. L’interno della casa era molto diverso. Il vigile del fuoco ci disse di stare attenti a dove mettevamo i piedi – a vetri e calcinacci. I quadri e le fotografie erano caduti a terra, così come i soprammobili e i libri. Ce n’erano alcuni – di libri, intendo – ammucchiati in un angolo polveroso, che non vedevo da secoli. Ce li leggeva papà per farci mangiare. Pensavo di averli dimenticati, ma mi bastò leggere il titolo per ricordarmi del sapore di pasta all’uovo e del cavallino verde che tenevo fra le mani quando mamma e papà mi imboccavano. Mi piaceva affondarci le dita dentro, immaginare che avesse le viscere.

Mamma si guardo intorno, fece un giro su sé stessa. Disse: «Sembra una vita fa.»

Tu ti fermasti davanti alle scale, immobile. Ti tremavano le gambe, non riuscivi a salire.

Provai a tranquillizzarti, che con i vigili del fuoco lì vicino non ci sarebbe successo nulla.

Ti dissi: «Facciamo una gara, stammi dietro.»

Ma tu gridasti di piantarla, che ti trattavo come un cretino.

«Altro che gara, non riesco a fare un passo.» Ricordo che eri rosso in volto.

Papà si girò verso di te e appoggiò le foto che aveva raccolto da terra. Ti chiese di avvicinarti. Disse che aveva capito una cosa importante e te ne voleva parlare. Disse che aveva notato un fenomeno peculiare nel comportamento delle persone che vivevano nel cratere, e cioè che da quando c’era stato il terremoto, tutti avevano iniziato a vivere come prede. Come i cerbiatti, che se ne stanno con le orecchie tese tutto il giorno, annusando l’aria, sempre pronti a scattare avanti, col cuore a mille. Un regime di temporanea bestialità.

Tu sembravi triste.

«Allora è così che vivono i cerbiatti papà? Hanno sempre paura?»

«Non proprio. Le prede hanno trovato il loro modo per vivere una vita decente. Si difendono. Usano gli aculei, o i denti. Oppure sai che fanno? Senti questa, è la mia preferita. Ho visto un documentario sulle gazzelle, un paio di anni fa. Durante il pascolo, per difendersi dai ghepardi, le gazzelle eleggono una sentinella che tiene la testa alzata per tutto il tempo e avverte il branco in caso di pericolo. Questa gazzella digiuna pur di aiutare le altre. Adesso ti dico cosa facciamo oggi, oggi sarò io la sentinella, ci stai? Adesso vengo su con voi e non vi perdo un attimo di vista. Voi raccogliete tutto e io sto sull’attenti. Se qualcosa si muove ti porto giù. So come fare. Ti fidi?»

Lo guardavi con la bocca socchiusa e un leggero sorriso. Dicesti che andava bene, che sarebbe stato lui la sentinella.

Nel giro di un’ora recuperammo tutti gli oggetti – i miei libri di inglese, un computer portatile, gioielli, vestiti – e ritornammo nei moduli.

Quella sera parlammo a lungo, giocammo a carte e ridemmo fino alle lacrime parlando di quello scemo del tuo amico che si era fatto beccare con i bigliettini durante la verifica della Giacci. Solo mamma era silenziosa. Andammo a dormire verso mezzanotte e io mi addormentai ascoltando il rumore della pioggia che batteva sul tetto in lamiera della nostra casupola. Feci un sogno strano in cui cercavo di liberarmi dalla morsa di un animale, forse un serpente. Mi mordeva un braccio. Aprii gli occhi di scatto ma ero frastornato, ci misi qualche secondo per mettere a fuoco. C’era mamma di fianco a me, col viso fermo e pallido, che mi scuoteva tenendomi per la manica del pigiama.

Disse: «Vieni con me, devi aiutarmi a recuperare una cosa.»

Guardai l’orologio, stropicciandomi gli occhi – era tardissimo. Chiesi se dovevo chiamare papà.

Disse: «No, non li svegliamo. Prendi solo l’ombrello.»

Mi misi a sedere lentamente e infilai gli stivaletti gialli e morbidi che odoravano di gomma, e mi veniva voglia di morderli. Tu dormivi profondamente, con la bocca semiaperta e le gambe nude. Durante il tragitto non dissi nulla alla mamma ma ero emozionato. Il paese era silenzioso, illuminato solo da qualche lampione, e pensai che noi due eravamo le uniche persone sveglie nel raggio di chilometri. Avremmo potuto fare qualsiasi cosa, anche cose proibite, e nessuno ci avrebbe scoperto. Avrei potuto rompere un vetro o scrivere qualcosa sul muro; il giorno dopo sarei tornato sul luogo del crimine a raccontare come gli sciacalli se ne approfittano per fare cose brutte, all’insaputa di tutti. La pioggia diventò più forte e io mi coprii la bocca con la sciarpa, e avvicinai l’ombrello per evitare che le gocce gelide mi bagnassero la tuta. Sentii un elicottero in lontananza e immaginai il pilota lottare contro le raffiche di vento per non precipitare. Mi sarebbe piaciuto essere quel pilota. Avrei scansato i fulmini, mi sarei alzato e abbassato velocemente, fino a sfiorare i tetti dei palazzi. A un tratto quasi inciampai nelle transenne di ferro. Alzai gli occhi, eravamo arrivati davanti al negozio di animali.

Mamma disse: «Entra, Luca. Devo trovare il mio vecchio orologio, ci metterò un po’.»

Ero un po’ deluso. Passai oltre le transenne ed entrai. Mamma aveva portato con sé una torcia e iniziò a ispezionare il bancone e i cassetti minuziosamente. I sacchi di mangime erano sporchi di polvere bianca e le gabbie erano vuote. Passai le dita su quei sacchi e le annusai, la polvere odorava di vernice e cemento. Arrivai davanti alla porta che conduceva allo scantinato e vidi che era socchiusa; potevo intravedere i gradini di legno nella penombra e mi ricordai di un libro letto anni prima che raccontava di un gioco da tavolo magico, nascosto in una soffitta buia.

Chiesi se potevo scendere. Dissi qualcosa a proposito di un paio di libri di scienze che forse avevo lasciato laggiù e che mi potevano servire.

Lei disse solo: «Ok, va bene.» Disse: «Prendi la pila.»

Ricordo che la indicò col dito, senza guardarmi in faccia.

Iniziai a scendere le scale lento, illuminando i gradini, e immaginando di cercare qualcosa di prezioso fra gli scatoloni accatastati e le buste di cibo. Poi un odore molto forte – di chiuso, pensai – mi investì. Ad ogni gradino il tanfo si faceva sempre più insopportabile, peggiore di quello degli escrementi che mi era capitato di sentire a volte in negozio. Alzai la torcia in direzione di uno degli scatoloni. Rallentai la discesa, mi fermai sull’ultimo scalino. C’era qualcosa di scuro all’interno, che non riuscivo a distinguere. Provai forte l’istinto di andarmene ma qualcosa mi trattenne. Scesi, mi avvicinai. Infilai il fascio di luce dentro la scatola di cartone. Vidi una massa di pelo da cui spuntavano code e zampe. Corpi, buttati l’uno sull’altro. Cani con la testa spaccata. Fra di loro ce n’era uno con una grossa macchia bianca che copriva l’orecchio destro. Era l’unico ad avere gli occhi chiusi e la sua lingua non pendeva da un lato, come quella di tutti gli altri cani. Sembrava solo addormentato. Abbassai la torcia e il fascio di luce schizzò in tutte le direzioni, e nella penombra i miei occhi intercettarono delle sagome dentro le gabbie di conigli e canarini. Alcuni tremavano ancora. La luce proiettava sui muri ombre orribili. Ti giuro, erano orribili.

Quando mamma urlò: «L’ho trovato» il mio cuore perse un battito. Risalii i gradini di corsa. Avevo i piedi così bagnati che scivolai e battei un ginocchio. Ce l’ho ancora quella cicatrice.

Durante il tragitto nessuno disse una parola ma vidi con la coda dell’occhio che mamma mi osservava. Quella sera non ne parlammo, e nemmeno il giorno dopo.

*

Aspiro una boccata di fumo, sento il sangue pulsare forte nelle vene. La tua terza sigaretta si sta consumando fino al filtro. Mi guardi già da un po’, hai smesso di fumare ma continui a tenere quella sigaretta fra le dita. Non dici nulla, ma mi inchiodi con gli occhi. Provo a sorridere.

«Sai che non l’ho mai raccontato a nessuno? E dire che del terremoto ne ho parlato spesso. Lo usavo come scusa, per evitare le interrogazioni. Oppure per mollare le ragazze che non volevo più. Dicevo che ero traumatizzato, perdonami ma non ce la faccio, o roba così. Ma questa storia mai, nemmeno a mia moglie.»

La cenere della sigaretta si sparge sul tavolo, ma tu non ci fai caso. Continui a guardarmi. «Perché cazzo me lo hai raccontato?»

«Ho sentito dire una frase al lavoro, qualche mese fa. C’era una ragazza somala, ricoverata all’ospedale con crampi forti all’addome. Voleva parlare con un interprete, e nessun altro. Aveva il petto che continuava ad alzarsi e abbassarsi – un seno bellissimo, non riuscivi a non guardarlo. Ripeteva una frase – behind closed doors – ma io non capivo. Non parlava bene inglese, non era la sua lingua. Quella frase doveva averla letta in un qualche libro di idiomi. Dagli esami del sangue risultò che aspettava un bambino. Quella è una frase a cui ho pensato spesso ultimamente. Dietro porte chiuse.Capisci cosa voglio dire?»

Scuoti appena la testa, espiri forte, solo dal naso. Ti vedo asciugare del bagnato dalla guancia.

Mi dici: «Addio, Luca.»

Mi alzo ma tu sei più veloce. Entri nel bar, la porta si chiude alle tue spalle. Lo facevi anche da piccolo, quando entravi nello scantinato, prima di scendere le scale. Mi volevi chiudere fuori, lo so. Allora io la riaprivo, correvo giù veloce e ti guardavo seduto vicino papà. Lui si alzava e ti faceva vedere quegli strani uccelli a forma di sette. Li metteva sul trespolo e quelli tremavano tutti e respiravano forte. Papà ci aveva spiegato che la testa e il collo lungo dovevano formare un angolo di quarantacinque gradi rispetto al busto, e che questo provocava loro problemi di respirazione. Diceva che era l’uomo che li aveva voluti così – una nuova razza, selezionata da noi. Tu alzavi la testa e chiedevi perché.

Lui rispondeva solo: «Lo possiamo fare.»

Erano prede. Tremavano – persi – senza alcuna strategia o arma che li potesse aiutare.

Contro di noi non potevano nulla. Perché noi abbiamo le parole, possiamo fare tutto con quelle. Loro non hanno nulla.

Tu lo abbracciavi forte, sorridevi e chiudevi gli occhi.

Solo ora capisco che dietro quelle porte chiuse, tu c’eri già stato.

*

Immagine di copertina
General Research Division, The New York Public Library. “White-headed Sea Eagle, or Bald Eagle” The New York Public Library Digital Collections. 1840. https://digitalcollections.nypl.org/items/510d47d9-722c-a3d9-e040-e00a18064a99

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3 Commenti

  1. Magnifico racconto, con una scansione perfetta, millimetrata a scatti come carta di un sismografo. Di tale perfezione che non ti viene nemmeno di fare la domanda idiota e di rito: ma questa cosa è davvero successa?
    effeffe

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