L’INVOLUZIONE DIGITALE
di Giuseppe A. Samonà
Queste righe vogliono innanzitutto testimoniare la mia gratitudine per un agile ma denso libretto di Paolo Morelli, La postura del guerriero: Addestramento etico e altre modeste proposte (Sossella, 2020), che in poco più di cento pagine esprime, provando a dargli una prospettiva terapeutica, un disagio che è mio e di altri, sparsi e isolati per il mondo, e che tuttavia non arriviamo a tirar fuori chiaro e forte. Anche vorrei provare a spiegarmi – scrivere è pensare – e spiegare pubblicamente come mai questo libro singolare, prezioso, sia rimasto sostanzialmente invisibile. Con breve premessa (innanzitutto per Morelli): le riflessioni che questa lettura ha messo in moto, o piuttosto risvegliato, vanno al di là, o al di qua (forse), di quel che il suo libro vuole dimostrare – ma in fondo proprio questo è il bello degli itinerari di pensiero che s’incontrano e s’intrecciano.
Lo constatiamo ogni giorno con Facebook: fra gli intellettuali, gli scrittori, accanto a coloro che difendono entusiasticamente il mezzo e le sue presunte virtù – il dialogo, la spontaneità, la libertà che si esprime contro il potere, il famoso è stato prezioso nelle primavere arabe, etc. – un buon numero di coloro che lo utilizzano ne parla globalmente male: un po’ come ai tempi della Democrazia Cristiana, votata, magari di nascosto, dagli stessi che la criticavano, anche aspramente. Si va dai moderati che ricordano come nel suo ambito ci siano possibilità e veleno, o ancora che dipende da come lo usi, sino ai più marginali, coloro che pur non trovandoci nessuna parcella di luce vi restano comunque impigliati, sia pur appunto marginalmente, perché è un lusso poterne stare fuori. E Facebook, nonostante il suo immenso bacino di utenti, è una scheggia quasi ringarde dello smisurato universo virtuale, forse oramai lo sono persino i più moderni Instagram e Twitter, con i suoi cinguettii in cui tutto deve poter esser detto in 140 o 280 caratteri, nella versione più generosa. In generale, Google e le diverse vie della comunicazione digitale avvolgono, permeano il mondo, e l’esistenza di questo sistema, che piaccia o meno, è globalmente vissuto come un’ineludibile fatalità. Quasi nessuno sente l’urgenza di contestarlo.
Intendiamoci, le critiche vere, articolate non mancano e, al di là dei social, investono appunto tutto il sistema Internet: da quelle psicologiche, sulla dipendenza, i suoi possibili effetti negativi, etc., alla Patricia Wallace (che tuttavia analizza questi pericoli per salvare il sistema); a quelle diciamo ontologico-contenustitiche, ma anche in certo senso di superficie, alla Umberto Eco (Internet dà diritto di parola agli imbecilli…); o più radicali, politiche, alla Evgeny Morozov, che spiega ad esempio come lungi dal favorire le rivoluzioni arabe Facebook abbia permesso al potere di controllarle, mostrando in generale come questo Internet e questo capitalismo siano indissolubilmente legati, e dunque non mette sotto accusa in generale il progresso tecnologico della comunicazione, ma un certo tipo di progresso; passando per quelle socio-economico-filosofiche che in realtà continuano, attualizzano le riflessioni biopolitiche di Foucault e di Deleuze sulla società di sorveglianza, il controllo panottico, la servitù volontaria, cui la rivoluzione digitale ha dato un impulso impensabile anche solo venti, trent’anni fa: in questo senso Eric Sadin, Philippe Vion-Dury, o Shosana Zuboff (cito semplicemente quelli che han fatto parte delle mie disordinate letture) si sono recentemente occupati della Silicon Valley. Per altro, molte delle critiche radicali, che mettono in luce la natura spietatamente ultracapitalista di questa falsa rivoluzione, spesso vengono proprio (che sollievo) da giovani intellettuali-attivisti formatisi dentro la grande mutazione digitale (l’espressione è di Giuliano Santoro) e che si muovono agilmente attraverso il multiforme universo in cui si incontrano le avanguardie antagoniste e le controculture giovanili (punk, musica elettronica, galassia hacker, etc.): in Italia per esempio c’è il collettivo Ippolita, gruppo di ricerca interdisciplinare che svela gli aspetti più oscuri della Rete (e insegna a difendersene), o ancora – sempre le disordinate letture… – giornalisti, scrittori agguerriti come appunto G. Santoro, o Valerio Mattioli, che in poche pagine smonta il voluminoso Game del festante Baricco…
Basti pensare in tal senso – è sotto gli occhi di tutti – a cosa nasconda la gratuità di Google, Facebook e molti altri grandi servizi digitali: il lavoro non remunerato, e quindi di fatto schiavizzato, che noi utenti forniamo volontariamente a ogni passo che inoltriamo là dentro, in termini di informazioni poi sfruttate a fini pubblicitari, il che di fatto dà luogo a una forma inedita e spaventosa di alienazione collettiva: è quello che prendendo in prestito il titolo dell’ultimo lavoro di Shoshana Zuboff, 2019, potremmo appunto definire il capitalismo della sorveglianza. Questo nuovo capitalismo, in cui le grandi aziende digitali, quelle già nominate, o ancora Microsoft, Amazon, Apple, con tanto di iPhone, e altre, sono in testa in termini di fatturato, ma certo non di occupazione, governa ormai il nostro pianeta. (Ne L’impero virtuale, 2015, Renato Curcio ricapitola e spiega, in senso letterale, l’intelaiatura e la dinamica di questi dispositivi digitali, in termini appunto di profitto e di controllo sociale – ma di nuovo, il libro è stato sostanzialmente ignorato: forse a causa dell’inavvicinabile passato dell’autore e della sua odierna marginalità? O forse è proprio questa sua marginalità che l’ha spinto a riflettere su questo tema centrale?) Anche, è sotto gli occhi di tutti – tutti hanno almeno sentito parlare di Assange, o di Snowden – come il passaggio dall’ottica del profitto e del subliminale controllo sociale alla sorveglianza vera e propria, in ottica prettamente politica, sia informaticamente breve, e sia continuamente varcato, il che è del resto una sorta di continuo ritorno alla vocazione primitiva: com’è noto, Internet nasce negli USA, per scopi militari, cioè sostanzialmente per spiare e sorvegliare. Eppure anche le più convincenti di queste critiche, anche il più potente docu-film sulla cyber-sorveglianza, sui lati nascosti del Web (ne girano diversi), anche le più eclatanti rivelazioni sulle ultime fughe di dati da Facebook, non modificano l’attitudine globale della società, non la smuovono: è come se abitassimo, ci spostassimo dentro una palude da cui è impossibile venir fuori. A differenza degli anni Sessanta o Settanta questo capitalismo non sta, almeno idealmente, fuori, non possiamo posizionarcelo di fronte, per eventualmente combatterlo, in fabbrica, a scuola: è come una colla, una materia gassosa che infiltra la struttura stessa delle nostre vite, del nostro immaginario. Così, diversamente ad esempio da quel che avviene per l’ecologia, per cui molti settori sani, giovani della società si mobilitano per denunciare il disastro di questo modello di sviluppo, a parte alcune rare voci dissenzienti nessuno riesce a immaginare una contestazione, un’opposizione globale alla digitalizzazione della società. Che la si giudichi individualmente in modo più o meno positivo o del tutto negativo, questa rivoluzione digitale sembra costituire una tappa irreversibile della storia umana, il suo ineludibile contesto: è progresso, e il progresso non si può fermare, è sempre sostanzialmente unico, buono. O no?
È in questo quadro che si inserice la voce radicalmente critica di Morelli, che non si confronta direttamente con i meccanismi della rivoluzione-palude velocemente schematizzata qui sopra, ma ne porta allo scoperto alcune conseguenze antropologiche fondamentali, in una prospettiva triplicemente originale, tanto più che il suo ragionamento si costruisce attingendo a una sorprendente bibliografia, apparentemente eterogenea, marginale (rispetto a quel che si vuole dimostrare), e che tuttavia acquista via via coerenza, ed efficacia. Per non citare che quelli che mi sono arrivati più vicini, ché ce ne sono anche diversi altri: Camillo Berneri, Simone Weil, Riccardo Piglia, Daniel Dennet, Mac Luhan, Cristina Campo, Pierre Hadot, Enzo Melandri, Jaime Semprun, Walter Benjamin, e più lontano nel tempo e nello spazio, dentro un universo biforme che per i più si rivela misterioso, Parmenide, Pitagora, Epitteto, Liu An, Wen Zi, Zhuang Zi, Zang Bo Duan, Huang Bo, Dōgen, Lao Zi…
Morelli, innanzitutto, osserva il mondo, questo mondo, con occhiali da scrittore, attento soprattutto alle parole, al loro uso, al loro valore. In secondo luogo, lo ispira il costante riferimento alla saggezza antica, anche se – terza originalità! – quest’antichità è letta essenzialmente, se non reiventata, alla luce del pensiero cinese, che l’autore studia da molti anni: e ne ha fecondamente il diritto – l’antichità è sempre stata interpretata attraverso una qualche prospettiva esterna. E attenzione: questo richiamo alla parola degli antichi non serve a metter su una nostalgica lamentela, vagheggiando un mitico tempo andato in cui gli umani sarebbero stati più felici, meno alienati. Al contrario: serve ad armare un canto di resistenza, di lotta, persino di speranza, comunque di necessaria dignità, che guarda al futuro. Perché questo è il proprio della letteratura e dell’arte in generale, come anche della filosofia: le grandi questioni che riguardano il come stare su questa Terra sono già mirabilmente enunciate all’inizio della nostra storia, da questo punto di vista non c’è progresso, ma solo inaccessibili picchi – e da lontano i picchi si vedono meglio e aiutano a capire, soprattutto l’epoca dentro la quale si vive. (E vorrei anticiparlo esplicitamente: si potrebbe discutere dei dettagli, magari contestarli, o irritarsi per questa o quella affermazione: che so, l’antipatia per Cartesio, l’uso molto largo del termine sciamanesimo etc. Ma che importa! tante sono le piste che il libro apre, e forte il suo messaggio globale, privo di qualunque mestiere, nel più volgare senso del termine.)
In questa prospettiva, la rivoluzione digitale ci appare piuttosto come una dirompente involuzione che, come l’acqua quando non contenuta, riempe con i suoi rivoli ogni angolo della nostra esistenza anche dove non immaginiamo di trovarla. La sua chiave fondamentale è l’esilio del corpo dall’attività della conoscenza, alla ricerca di una grottesca onnipotenza dentro un mondo dematerializzato; vi comanda un’immortalità artificiale e malata, schiava proprio nel momento in cui crede di affermare la propria libertà, ingabbiata com’è in una società che assomiglia sempre di più a una caserma: l’esilio del corpo si rivela essere un esilio dalla vita. Questo va insieme a una deriva dello scientismo, a una messa al bando dell’immaginazione in nome di un mal compreso primato assoluto della ragione, che si potrebbe definire come epistemologia della certezza: con una martellante opera di manipolazione collettiva, la società si purifica, elimina, vorrebbe eliminare le impurità, tutto quel che è sgradevole, financo nel linguaggio, e combatte i rischi, cioè non più la malattia, bensì la possibilità stessa di ammalarsi, di morire (ma poi, in realtà, si tratta solo di alcuni rischi, quelli che si vedono; le malattie, le morti che si possono nascondere non fanno nessun problema, e anzi si moltiplicano: i profughi che affogano in mare, i milioni di bambini dei paesi lontani travolti dalla fame…) È ineluttabile, si dice, è il progresso del mondo, ma questo progresso, questo ineluttabile, ha una forte somiglianza di famiglia con il fascismo, che sempre si nutre della miseria senza riscatto. Ma poi, perché ineluttabile? Il progresso è veramente unico e sempre socialmente utile? (La bomba atomica, ad esempio, è un progresso?) È ineluttabile? Non è piuttosto il frutto di scelte e dunque uno dei tanti possibili? Ed ecco – ed è dal mio punto di vista, per la mia storia, una delle cose più importanti e dolorose del libro: notabile… la passività, l’acquiescenza, l’entusiasmo addirittura con cui l’impianto mentale illuminista e poi marxista ha accolto ed accoglie, del tutto acriticamente, ogni innovazione o novità tecnologica, anzi è fiero di mettersi in paro, al passo dei tempi… (Breve, doverosa precisazione: questo benessere da schiavi dentro il quale prosperiamo nelle nostre società, ipnotizzati innanzitutto dalle presunte comodità e praticità che ci fornisce – e che sono oggi, più del pugno di ferro, le vere armi di governo, del potere! –, si fonda sullo schiavismo miserabile ed esplicito dentro il quale vive l’umanità al di là della nostra vista, o quasi, fatto di miniere, sfruttamento concreto, anche di minorenni, migrazioni, fuga dalla fame e dalle guerre… Questa è forse, da un certo punto di vista, l’epoca più schiava della storia umana!)
Tale fenomeno ha tendenza globale: la democrazia non sembra di fatto sempre più fragile? sempre più difficilmente conciliabile con il progetto di dominio totale del capitalismo nella sua ultima versione? E forse ancor più che di fascismo si dovrebbe parlare di totalitarismo, sottolineando tuttavia che si tratta d’un totalitarismo affatto nuovo: per la prima volta nella storia dell’umanità, i controllati, gli oppressi offrono volontariamente a invisibili controllori e oppressori le chiavi della loro cella, e per di più pensando di affermare la propria libertà. Tanti sono i modi per raccontarlo. In un articolo di pochi mesi fa sulla Germania di ieri e di oggi (Corriere della Sera, 04/08/2020), Claudio Magris – che certo non è uso ai toni apocalittici alla Giorgio Agamben – rileva che al posto del Grande Fratello del famoso romanzo di Orwell, 1984, sembra esserci, anche e soprattutto nelle mentalità, un impersonale termitaio, in cui la singola termite non obbedisce a un Capo supremo, ma fa quello che deve né può né sa fare altro. Obbedire senza sapere di obbedire né a chi obbedire… Morelli si riferisce alla competenza senza comprensione della psicologia cognitiva, e aggiunge: come nei formicai …, in cui tutti agiscono ma senza sapere bene perché! Chi difende le meraviglie del mondo virtuale sottolinea sempre come i dati raccolti da Google, Facebook e compagnia, lo siano unicamente in modo anonimo e a fini pubblicitari: ma tutti sappiamo che non è vero e che, come si è già detto, ci sono continue sbandate, falle, che fanno pensare con terrore a cosa succederebbe se un potere completamente totalitario si affermasse. E soprattutto, come si anticipava sopra, il vero problema è altrove, è radicale, in sé, sta nel fatto che la stessa pubblicità e il sistema di commercio e consumo che implica sono già una sofisticata forma di controllo, sono lo strumento che ha permesso l’affermazione del capitalismo totale, la colla, che è già, pienamente, totalitarismo. E anche, si diceva, alienazione: che diventa ancora più radicale, totale, se si considera l’assoluta mancanza di nesso tra l’attività virtuale, quel che inconsapevolmente produciamo, e la nostra, sempre più impalpabile, implicazione reale… Galleggiamo, scivoliamo: da quando? Un po’ come si scivola dentro le droghe apparentemente lente e in realtà potenti, come l’oppio, che uno si chiede: ma quando arriva? ma quando arriva? perché tutto sembra sostanzialmente uguale, e a un certo punto, per via di un qualunque toc toc della realtà esterna, ci si rende conto di esserci dentro fino al collo già da un pezzo, aspettiamo cambiamenti sconvolgenti, dentro i quali in realtà già viviamo – più o meno inconsapevoli, sino a quando, inatteso, si produce un evento rivelatore, per esempio una pandemia…
La parola – e lo stesso vale per le immagini – in linea con questo mutamento diventa frenetica, perché la frenesia, cioè il tempo monetizzato, ridotto a profitto (chi prima arriva…) governa il mondo: dev’essere immediata e compulsiva. Il problema allora non è Facebook come settore del mondo, ma la facebookizzazione del mondo, l’affermarsi di una vera e propria nuova civiltà, in cui si rimane impigliati anche se, poniamo, scegliamo di restar fuori dai social. Questo nuovo mondo si fonda sulla velocità e sul reagire al posto del pensare (nel tempo informatico azione e reazione sono idealmente sovrapposte), cioè sulla pillola immediata, la parola proiettile, la parola che funziona, colpisce come un’immagine, sempre fondata sul meccanismo narcisista, di un narcisismo primario, del selfie, che sia del proprio volto, di una scena della propria vita (cioè direttamente immagine) o appunto del proprio pensiero-pillola, che semplicemente chiede la conferma-applauso, quando non si tratti all’opposto – ma il meccanismo è identico – dell’insulto in alternativa al like, o ancora delle improvvise focose e inutili polemiche in cui ognuno ascolta solo se stesso, per una comunicazione fintamente totale che, con l’illusione di rendere tutti facilmente partecipi del “sapere”, si rivela in realtà uno straordinario terreno per rendere indistinguibili il vero e il falso, oramai trattati alla stregua di opinioni: e nel fiume perenne di parole e immagini l’opinione, nel momento stesso in cui si manifesta, diventa di per sé vera. Il che significa, in termini filosofici, che è il falso a trionfare: concretamente, del resto, i social sono strutturalmente propizi al propagarsi delle idee più balorde, pericolose, fascisteggianti – la paura e l’odio, ridotti a slogan, ci viaggiano più agevolmente che la libertà e la complessità, che è sempre esclusa. Ma c’è di più: la dematerializzazione della parola-indelebile-sul-web ha confuso la distinzione fra orale e scritto, ha oralizzato, banalizzato lo scritto e anche, reciprocamente, tolto forza all’orale, dissolvendo nell’uno e nell’altro le opposte ma complementari sacralità, che si confrontano e si completano sin dall’antichità greca ed ebraica. Lo scritto di Internet ha il ritmo continuo e facile della parola alata, ma senza averne la divina incontenibilità, la capacità di perdersi, di poter essere dimenticato per restare per sempre, perché pur volando si fa pietra e tutto, anche l’intima chiacchiera fra amici, la battuta estemporanea, lo sbuffo di un momento, lo sfogo, persino il discorsetto apparentemente articolato magari intelligente ma comunque sempre veloce e bello e fatto, è rivolto potenzialmente al mondo intero, in un flusso ininterrotto, compulsivamente conservato, in cui tutte le vacche diventano, di fatto, nere: in Rete, come in un incubo, siamo condannati alla traccia, a ricordare, a non poter dimenticare – Facebook addirittura ricorda per noi i nostri ricordi, anche pubblicizzando, cioè distruggendo, il nostro privato: le nostre trippe, i brandelli esposti della nostra anima stanno per sempre al balcone, mostruosamente eterni, in una condivisione di facciata che nasconde, subito dietro, la più devastante solitudine… Viceversa, a questo scritto volatile manca la possibilità di essere appallottolato, selezionato, filtrato, e soprattutto la profondità, la feconda lentezza della traccia su carta, che solo riesce a viaggiare attraverso il tempo, aspirando alla perennità composta dell’arte – che cosa resta, allora, del canone letterario?
Per altro, il cambiamento è talmente largo, profondo, da avere oramai implicazioni persino biologiche, nel senso che ha modificato, soprattutto per le generazioni del terzo millennio, le nostre capacità cognitive. Certo – si obietterà giustamente – tutta la storia delle grandi invenzioni è caratterizzata da profondi mutamenti fisiologici, e dai connessi adattamenti, sempre successivi, dell’umanità: basti pensare, ad esempio, proprio al passaggio dall’oralità alla scrittura, con la conseguente modificazione delle nostre capacità mnemotecniche. D’altro canto, da sempre, importanti settori dell’umanità diffidano di quei cambiamenti, e si voltano indietro, opponendo all’orrido presente un luminoso passato: quest’avvitamento di cambiamento e resistenza nostalgica è in certo senso la caratteristica stessa della cultura. Solo che ora il mutamento è talmente compresso nel tempo da assomigliare più a un terremoto che a un cambiamento: è come se il tempo esteriore fosse diventato più veloce del tempo interiore, della coscienza, invertendo, per la prima volta nella storia, quel che contraddistingue il nostro esser umani; un nuovo mondo fittizio, in cui le distanze, di spazio come di tempo, sono state subdolamente annullate (tutto è sempre a portata di clic) e che – nel nostro quotidiano – si sovrappone, persino soppianta quello reale, manda in tilt la nostra capacità di elaborazione, con conseguenze imprevedibili. Già da diversi anni, del resto, constatiamo che questa nostra società, ossessionata dal controllo di tutto e di tutti, non controlla praticamente più nulla, tranne i desideri manipolati delle persone: cavalca una macchina che corre sempre più rapida, al di fuori di qualunque progetto che non sia quello immediato del profitto o, in questo contesto è lo stesso, della velocità. Orizzonte totalitario, in cui la letteratura – quel che più interessa lo scrittore Morelli – da disfunzione diventa una funzione, come appunto sempre avviene nelle dittature: è prodotto fra prodotti, secondo un’unica legge da supermercato. (Divagazione, o forse no: intrecciare la storia del “progresso” umano con la crescita demografica esponenziale. Qualche centinaia di migliaia di individui diecimila anni fa, all’inizio della rivoluzione neolitica. Oltre il miliardo e mezzo all’inizio del secolo scorso; oltre i due miliardi e mezzo all’inizio degli anni Cinquanta; vicino ai sette miliardi e mezzo oggi: possiamo adeguarci a una tale esplosione? Come?)
È la vita stessa, si dice tuttavia, sembrandoci sempre di più che non si possa vivere che così. E ci avvitiamo ancora un po’, magari cercando di salvare questo o quell’aspetto positivo del nuovo impero. Ma Morelli insiste: non è solo il rovescio, è la medaglia tutta che è falsa. A suo sostegno, occorre allora ricordare che questo non è il progresso, è un progresso possibile, la conseguenza – e il motore! – di un sistema socio-economico planetario volto allo sfruttamento senza limiti (dell’uomo come della natura), e fondato sull’alienazione, e che come tutti i sistemi è destinato a finire. Insomma, resistere e cambiare è possibile, immaginando, progettando altri usi della tecnologia.
In questa direzione, in questo contesto, prendono forma gli esercizi di addestramento etico proposti dal libro, tutti espressione di un’originale decrescita, non politica, collettiva, ma personale, mentale, quasi meditante: imparare a fermarsi, a uscire dalla frenesia mortale, a potenziare la nostra capacità di attenzione, a promuovere attività che non abbiano nessun secondo fine, che siano cioè fine a se stesse, integralmente, veramente gratuite (eccolo, appunto, il centro di ogni vera etica), perché finalmente l’intelligenza torni a essere una qualità morale. Questo è del resto il cuore della nostra civiltà, sin dalla prima (non escatologica) prospettiva biblica: perseguire il bene perché è bene, non aspettando una qualche ricompensa futura, perché la ricompensa sta nello stesso farlo, interamente nel nostro presente terrestre (anche gli antichi Greci, sia pur con un diverso itinerario, si sono affermati al di fuori di un orizzonte escatologico).
Pieno di merito, tuttavia poeticamente, abita l’uomo su questa Terra, dice un famoso verso di Hölderlin: questo doch dichterisch (il tuttavia poetico, appunto) potremmo anche declinarlo come un’arte del fallimento. È significativamente il titolo della seconda parte del libro che, non a caso, corrisponde alla decrescita evocata dalla prima: ora, concretamente, ci si prepara a combattere, e per questo bisogna cercare, consolidare la postura del guerriero. Ma di nuovo, attenzione: questa guerra non è una rivoluzione collettiva, politica – d’altronde, come ribellarsi collettivamente alla materia gassosa che permea le nostre stesse esistenze? – è un’avventura individuale volta alla riconquista della nostra vera natura, che è la transitorietà insieme alla sua consapevolezza, e alla liberazione della nostra capacità di fantasticare, come alternativa all’illusione di poter controllare tutto nei limiti di un mondo in cui lo smisurato virtuale, o se vogliamo il fittizio, ha soffocato la fantasia. Il libro si trasforma allora in un curioso, praticissimo manuale di filosofia-meditazione corporale prima ancora che intellettuale – ma è proprio l’intelligenza che deve corporeizzarsi – il cui uso permette di disintossicarci, di scrollarci di dosso il falso confort con cui ci ha ipnotizzato il capitalismo digitale: la materia gassosa, appunto, la colla… Non parole, fatti, perché non si tratta “di dire di no, ma di fare di no” (F. O’Connor), con un addestramento duro, guidati da uno strano matrimonio fra pensatori, a diverso titolo, nostri – da Kierkegaard a Einstein, da Keynes a Leopardi… – e pensatori orientali, in particolare cinesi, per lo più di tradizione taoista. Sì, un praticissimo manualetto, difficile da commentare, com’è difficile da commentare, che so, una scheda di istruzioni per montare un mobile (del resto, proprio come in in manuale, ognuno dei dieci capitoletti di questa seconda parte è introdotto da stilizzati disegni orientaleggianti – opera di Carlo Bordone – che sembrano anticipare una posizione dell’intero corpo o degli occhi). Vi si alternano, con funzione di stratagemmi, disquisizioni etimologiche sull’origine di questa o quella parola (esempio: meditare, mederi, riflettere per curare, la stessa radice di medico) e vere e proprio bastonate (esempio: per combattere bisogna rinunciare all’esercizio della forza, che è proprio degli oppressori), che ricordano quelle assennate da Pai Mei alla Sposa Uma Thurman, in Kill Bill, o più semplicemente quelle di un Maestro zen. Perché ora l’insegnamento si è fatto anche, anzi, innanzitutto corporeo: la postura è – molto concretamente – un posizionarsi delle gambe, delle braccia, soprattutto della respirazione, che decongestioni il cervello e lasci la mente libera di (di)vagare: cioè di diventare assolutamente attenta, riapprendendo come stare al mondo, indipendente. Può sembrare presuntuoso, e invece sono modesti accorgimenti, di cui può cercare di appropriarsi chiunque voglia tentare di disipnotizzarsi dall’incantamento del progressismo virtuale.
Valga come esempio di tale modestia la terza parte – nota bene: ogni parte più che continuare quel che precede lo riformula, lo ribadisce con un altro itinerario – che contiene la madre di tutti gli stratagemmi (non si dimentichi che per l’autore, scrittore, la letteratura è il cuore pulsante del mondo): l’arte della viva voce, e cioè, concretamente, alcuni suggerimenti pratici per la lettura ad alta voce dei testi letterari – con una premessa in cui si ricorda il lato epico della verità che solo si rivela nell’oralità (Narrami o diva del divino Achille…), insieme alla predisposizione primordiale dell’uomo ad accogliere racconti (ricordo improvviso di una frase di Karen Blixen, che sembra riassumere tutto il libro: si sono raccontate storie da quando esiste il linguaggio e senza storie la nostra specie si sarebbe estinta, come si sarebbe estinta senz’acqua…). Anche potremmo parlare, in questa forma di narrazione sociale (si legge almeno per un’altra persona), dello sbocciare della fantasia. Ma ecco: sembra … che il mondo nuovo che si va instaurando abbia due nemici giurati: l’esperienza diretta… e la fantasia quando ha dignità conoscitiva, vale a dire carne e sangue della letteratura. Bisogna riaffermare questa primordiale necessità umana e riafferrarne, e trasmetterne, le tecniche, che riguardano la voce, la capacità di narrare, ma anche l’orecchio, l’interna capacità di ascoltare: i venti suggerimenti che seguono, molti dei quali ‘meramente’ tecnici, corporali (in particolare sul come impostare, organizzare, vivere il respiro), mirano a liberare entrambe, insieme liberando la nostra capacità di immaginare, comprendere il mondo. Con un ventunesimo suggerimento che non è scritto ma che è implicito in tutti gli altri: la narrazione dovrà prodursi in presenza, non virtualmente. Così, con l’apporto di tutto quel che è stato costruito nelle precedenti pagine del libro, emerge infine una sorta d’itinerante guerriero-aedo che mescola insieme il candore lucente dell’Idiota di Dostoevskij e la disincantata lentezza dell’Oblomov di Gončarov con la determinazione del più impassibile dei samurai, e che in ogni caso, pur impegnandosi con spasmodica serietà nella sua battaglia, non si prende mai sul serio. (Sono a mio avviso, quelle delle terza parte, le otto pagine più forti, belle di tutto il libro, e anche no: perché ce n’è una quarta… Ed è forse questa la caratteristica principale di questo testo ostico e leggero: è come se il senso si liberasse, anche esteticamente, e si facesse sempre più chiaro avanzando verso la conclusione.)
E tuttavia uscire completamente dalle panie ipnotiche dell’impero digitale sembra impossibile, intrappolati come siamo in un diabolico circolo vizioso: anche per scrivere e rendere pubbliche queste parole, del resto, passerò per google e social. Eppure la strada è quella, anche se aspra e lenta: far conoscere a chi lo ignora come il mondo nuovo, cioè il capitalismo della sorveglianza, si fondi sornionamente sull’ingabbiamento progressivo delle nostre umane libertà, moltiplicando a diversi livelli disperazione e miseria; cercare, individualmente e collettivamente – insieme a coloro che già hanno privilegiato la più scomoda, inquieta via del mondo reale – di sottrarsene, nella misura del possibile, un po’ come ci si sottrae alla dipendenza da una droga o, più concretamente, alle più sciagurate scelte antiecologiche (del resto lo scempio contro la natura e la decorporeizzazione delle nostre vite sono fra loro complementari). Innanzitutto, evitando i luoghi di scambio virtuale più infetti (facebook in testa…); quindi e soprattutto opponendo agli spazi virtuali, nuovi spazi reali, aperti, fatti di incontri concreti, di carezze, di sguardi, di chiacchiere e discussioni (ricordate le piazze? le bandiere? i cortili o i prati dove giocano a palla i bambini, i ragazzi? le milonghe? I circoli di incontri e lettura? dove la letteratura, appunto, è concretamente vissuta e scambiata, condivisa, trasmessa). Altro che tornare indietro: si tratta di andare avanti e ritrovare il pieno senso del progetto umanità.
Il libro è stato pensato prima della pandemia, ma proprio adesso – i libri veri sanno reiventarsi nel tempo – assume un valore particolare. Il virus infatti, ben oltre l’aspetto sanitario, ha messo a nudo, rinforzandola, la devastazione, la fragilità proprie della nostra società già da molti anni; anche, la sua totale mancanza di progetto – basta guardare i giornali, che oramai non possono andare più in là del computo dei contagi o delle vaccinazioni giorno per giorno, eccezion fatta per qualche lampo sui colpi che le diverse forme di terrore assestano alle nostre sempre più fragili democrazie: quest’impossibilità di guardare in avanti, socialmente e psicologicamente, non è più subdola, devastante dello stesso rischio di ammalarsi…? Ed ecco: tutto ciò ha dato un impulso formidabile – era ovvio, è stato persino utile, a tratti – ai potenti mezzi numerici, dall’home working ai lanci dei libri su zoom sino agli skype con gli amici… Anzi, le tesi degli entusiasti del digitale e del capitalismo (oggi è lo stesso), quelli che da tempo spingono perché il più possibile delle attività lavorative e d’insegnamento si svolgano da casa (immaginate il risparmio, cioè il profitto che questo comporta…), sembrano aver fatto un importante balzo in avanti. (Mi limito a evocare il discorso complesso, per cui ci vorrebbe una riflessione a parte, del balzo in avanti fatto, sia pur a fin di bene, dal tracciamento e dalla schedatura virtuali della popolazione…) Eppure, con i mesi che passano, sempre di più, anche fra i giovani, ci si accorge finalmente della desolante solitudine accompagnata del virtuale, della malsana vanità della spirale del più veloce, più veloce, di un lavoro che il “distanziamento sociale” – formula mostruosa che annuncia una mostruosa visione di mondo – ha ridotto a sfruttamento puro, spogliato di qualunque umanità, e si riscopre la necessità di un mondo fatto di abbracci e di scambi reali, di una conoscenza lenta, non frenetica, che insieme alla mente mobiliti il corpo, e che solo può aspirare a diventare più libero e giusto… Una falla, paradossalmente, si sta aprendo nel perfetto mondo numerizzato, e nuovi orizzonti sono possibili. Bisogna cominciare a percorrerli.
Con urgenza, con determinazione, ma anche con pazienza, con calma, senza mai prendersi sul serio. È quello che predicano il Dao De Jing e lo Zhuang Zi, antichi testi taoisti, che con quattro brevi splendenti stralci in traduzione e con testo a fronte (non per snobismo, ma a ricordarci luminosamente quanto sia vasto il mondo che ci appartiene, a tutti) formano soprendentemente la quarta e ultima parte del libro. Sorprendentemente, e subito necessariamente, beneficamente: nutrono, con la loro arte del distacco, la nostra capacità di ingaggiarci in una battaglia estremamente difficoltosa.
p.s. (per chi è arrivato sino in fondo) Ah, già, come mai di questo libretto prezioso non parla quasi nessuno? Perché quelli che dovrebbero parlarne, i manovratori delle parola critica, pubblica, sono quasi sempre tranquillamente, più o meno felicemente, accomodati, dondolati nell’ipnosi del mondo nuovo, di cui comunque non avvertono il pericolo… Spesso invece avvertono quello del nuovo capitalismo illimitato, sempre più irreversibilmente autoritario e ecocida: eppure, per combatterlo, bisogna proprio cominciare con lo smontare l’incantamento digitale che lo tiene in vita.
(Ringrazio Daniele Garritano, cui devo fra altre le “giovani” letture italiane qui evocate, anche per gli scambi che da diversi anni abbiamo su questi temi)
NdR: del libro di Paolo Morelli “La postura del guerriero: Addestramento etico e altre modeste proposte” (Sossella, 2020), attorno al quale si dipanano i lucidissimi ragionamenti di Giuseppe Samonà, Nazione Indiana ha pubblicato in passato un frammento: qui