Due descrizioni di quadri
[Cristina Filippi ha coinvolto un certo numero di poetesse e poeti nell’iniziativa “Viceversa: dalla poesia alla pittura”, a partire dal catalogo delle opere del Museo Boschi Di Stefano di Milano. Io ho scelto un Casorati e un Sironi.]
di Andrea Inglese
Una carta moschicida dorata – certo che no –
(potrebbe essere un’ocra, allora, a quest’ora, che lo guardiamo
molto stanchi, come ubriachi, sul solito schermo)
e pendono, catturati, impaniati, le tazze e il mestolo,
nessuna mosca in vista, e pendono
in verticale, a strapiombo, sullo stagno di sfondo
– sarà per forza, per via del colore, è un’acqua
rancida, buia, dove non mettere piede,
non intingere mani – e sopra questa tela chiara,
forse solamente giallognola, come un libro squadernato,
e le parole stampate che sono cose appese in rilievo,
tutto ripido, frontale, da leggere, elementi di qualche
materiale alfabeto, così ecco le tazze
che scompaginate accompagnano,
incollate di fronte e di profilo, morte, mentre il mestolo,
il mestolo forse
ha questa luminosità – musicalità stavo
per scrivere – il mestolo soprattutto
riflette la luce, irrora anche bellezza
dalla cavità, è traslucido, argentatura,
guizzo di luce, intriso d’immagini,
quasi un’arma di traverso
per semplicemente raccogliere, e versare, un sistema
chiuso, eternamente assetato, affamato, che attende
la spartizione, la manna, la cosa commestibile
e potabile, che rimetta in piano
l’apparato della fame e della sete,
l’insegna nuda, povera, di quel
che le imperfette mani animali
non sanno tenere
tra le dita.
Felice Casorati, Mestolo, 1933.
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Cielo calcificato – ognuno vuole
il suo pezzo di cielo – cielo vetrificato –
basterebbe vederlo arretrare
oltre i tetti – cielo spatolato, duro, di quarzo,
ghiacciato – cielo che viene adorato
come una droga, uno spegni-dolore –
cielo di tagli o di brace o fuliggine, cielo che nessuno
sopporta, questo,
senza profondità, ottuso,
fratello dei muri di sotto, cieco come un muro –
cielo che vorremo anche d’inverno, anche buio,
dopo il crollo, l’incendio, la notte in fabbrica –
case acefale, turpi volumi, scatole d’acciaio, finzioni,
baratri posati in verticale, cose da cui non si entra né esce,
tutto giace sotto la resina, la lacca, lo strato vetroso, acciaiato,
tutto posato contro, barricato, con l’ombra caduta,
l’ombra potente sulla terra cruda. C’è terra,
nonostante il cielo sia un vecchio martoriato spazio,
c’è terra e ombra, c’è tanto deserto, c’è che non passa più
nessuno, hanno paura di questo
sfacelo. Vivono come pazzi, bevendo, si pigliano
a martellate a volte, ma se no, quasi sempre;
se stanno assieme, vivi, agitandosi attorno
a grandi tavolate, dietro.
È dietro,
non visto,
ben nascosto dai cubi,
che qualcuno sarà debole, molle, piangente,
celeste.
Mario Sironi, Paesaggio urbano, 1919.