Una teoria femminista della violenza. Intervista a Françoise Vergès
di Jamila Mascat
Saggista e militante femminista decoloniale, Françoise Vergès ha da poco pubblicato in Francia un libro intitolato Une théorie féministe de la violence. Pour une politique anti-raciste de la protection (La Fabrique, 2020). In questa intervista l’autrice riflette sul tema della violenza nel panorama femminista contemporaneo, denunciando i limiti e le contraddizioni delle correnti femministe cosiddette “punitive e carcerali” che invocano l’intervento repressivo dello Stato come unico rimedio contro le violenze di genere. Che cosa significa, invece, per le femministe anticapitaliste e antirazziste pensare la protezione e la difesa dei propri corpi altrimenti?
JM: Cominciamo proprio dal titolo del tuo ultimo libro Une théorie féministe de la violence: che cosa significa pensare la violenza strutturalmente radicata nelle società contemporanee a partire da una prospettiva femminista e decoloniale? E in che misura una simile prospettiva è in grado di apportare nuovi elementi di comprensione?
FV: Per prima cosa si tratta di precisare che la violenza distruttiva e sterminatrice che prolifera nelle società odierne non ha nulla di nuovo, così come le violenze sessuali e sessiste. Il dato di novità è legato all’intensità, al modo in cui il capitalismo neoliberale e finanziarizzato si lancia alla rincorsa di profitti esorbitanti, l’estrattivismo che ne deriva, le guerre economiche che ne conseguono contro le popolazioni del Sud Globale e poi anche più recentemente contro i paesi del Nord del mondo (basti pensare al caso della Grecia), la crisi climatica, la devastazione sistematica delle terre da parte dell’agrobusiness, il prosciugamento del suolo e del sottosuolo, la privatizzazione e la militarizzazione esponenziale dei mari e degli oceani, i femminicidi, le politiche assassine condotte contro militanti indigeni e antirazzist*, la negrofobia senza limiti, l’islamofobia, la caccia a* migranti, ecco, tutto questo dice di una forte accelerazione delle violenze razziste e sessiste e di un’intensificazione dello stato di guerra permanente contro intere popolazioni.
La violenza è una necessità del capitalismo, e il razzismo gli è consustanziale. La maniera in cui i media e i governi denunciano insistentemente la violenza degli oppressi – che protestano e che lottano per rispondere alla violenza dello Stato, del patriarcato, del razzismo e del capitalismo – facendone un minaccia alla pacifica coesistenza sociale dimostra a che punto il potere sia costretto a occultare e dissimulare regolarmente il proprio esercizio della violenza.
Eppure, le lotte continuano, anzi si moltiplicano e, come dicevo, subiscono un’accelerazione: le manifestazioni di Black Lives Matter in tutto il mondo, le proteste delle femministe e queer del Sud globale contro il femminicidio e la violenza neo-liberale, le lotte delle comunità indigene e rivoluzionarie. Sono questi movimenti che mi hanno spinto a ripensare il femminicidio e la violenza sessuale e di genere non come una prerogativa esclusiva della dominazione maschile (secondo lo schema “donne vittime vs uomini carnefici”) ma come il sintomo più eclatante e più “eloquente” di una violenza che pervade il mondo ed è sotto gli occhi di tutti. Il divario crescente tra lo sviluppo della tecnologia e il progresso della medicina, tra le tecniche di sorveglianza destinate a proteggere la vita di pochi e il fatto che miliardi di persone siano fatalmente private di acqua e aria pulita e al tempo stesso controllate, monitorate, ultrasfruttate, dimostra che l’espansione e l’avanzamento del capitalismo razziale possono soltanto accrescere le disuguaglianze.
Se, come diceva il filosofo marxista francese Georges Labica, il capitalismo non è altro che una forma di “industrializzazione dell’omicidio”, lo sviluppo della tecnologia ha reso e continua a rendere possibile la sistematizzazione crescente di questa produzione industriale di violenza omicida. La demolizione dei diritti del lavoro, la “scelta” obbligata tra morte o vita in schiavitù, l’impunità dello stupro di uomini e donne migranti e la normalizzazione delle politiche di predazione sono tutte l’espressione manifesta di una volontà di fare della violenza il perno dell’organizzazione sociale per intensificare lo sfruttamento di tutt*.
Ho scelto di adottare una prospettiva femminista decoloniale – antirazzista, anticapitalista e antimperialista – per parlare della femminilizzazione dei corpi subordinati e del modo in cui vengono trasformati in corpi usa e getta, eliminabili, violentabili, corpi dai quali il capitalismo razziale estrae tutta la forza fisica e psichica possibile, e ai quali, simultaneamente, rifiuta la cura e nega il diritto all’infanzia, all’età adulta e alla vecchiaia nella misura in cui, per questi corpi, le tre età si confondono in un tempo unico e monotono logorato da fatica e esaurimento.
La mia prospettiva femminista guarda in primo luogo a quelle vite, le più fragili, che sono state fabbricate come sempre suscettibili di essere sfruttate e uccise, per suggerire che la violenza contro le donne deve essere compresa in relazione a tutte le violenze che il capitalismo inevitabilmente produce.
Non si tratta però di svelare una violenza inevitabile che avrebbe a che fare con l’essenza della “natura umana” o di denunciare una violenza maschile inesorabile. Né si tratta di dire che l’abolizione del capitalismo sia la garanzia di una pace perpetua. Quello che dico è che il capitalismo istituisce un simile regime di violenza generalizzata in nome della necessità di sfruttare, e lo esercita in tutti gli ambiti della vita. L’analisi femminista che difendo permette di evidenziare gli intrecci e le intersezioni che sussistono tra forme di dominio e sfruttamento, e di mettere a nudo, a partire da quei corpi condannati dai potenti ad essere torturati, violentati, smembrati e assassinati perché resi oggetto, come cantano le femministe in Cile, il nocciolo del capitalismo razziale.
L’idea che il capitalismo debba diventare “inclusivo”, che possa essere riscattato eliminando le disuguaglianze troppo evidenti, è chiaramente una non-alternativa. Puntualmente il capitalismo ha dovuto fare delle concessioni ai movimenti che lo contestavano, pur continuando ad esercitare una violenza inaudita e sottile sulle classi lavoratrici, e in particolare sul lavoro precario, sul lavoro meno qualificato e sul lavoro nero dei senza documenti. Si obietterà che il capitalismo produce benessere, facilita la soddisfazione dei bisogni primari e che il capitalismo cinese, per esempio, ha permesso alla Cina di uscire dalla povertà nell’arco di pochi decenni. Ma se così fosse, perché la ricetta non funziona per tutti? E, soprattutto, qual è il prezzo da pagare? Rimango anticapitalista e aggiungo antimperialista, profondamente antimperialista – e perciò antirazzista e antipatriarcale. Come dice Angela Davis, non c’è anticapitalismo senza antirazzismo e viceversa. Il femminismo decoloniale che difendo non può che dirsi antimperialista proprio perché antirazzista. Di questi tempi dovrei aggiungere antifascista. Ma tutti questi aggettivi non devono essere intesi come una concatenazione astratta, hanno un significato molto concreto, che rinvia all’articolazione e agli intrecci delle varie lotte, in vista della costruzione di una solidarietà internazionale.
JM: Nel tuo libro illustri un paradosso interessante – e di particolare attualità in Francia, alla luce dell’offensiva autoritaria e liberticida rilanciata dal governo negli ultimi mesi (penso alla Legge sulla sicurezza globale e al Disegno di legge a sostegno dei principi della Repubblica) in cui ancora una volta la bandiera dei diritti delle donne viene sventolata per giustificare l’adozione di misure di sicurezza stigmatizzanti e razziste. Se, da un lato, storicamente le femministe sono sempre state in prima linea nel denunciare la violenza sessista e sessuale contro le donne, dall’altro, alcune di loro, in particolare le esponenti di quel femminismo che definisci come “carcerario e punitivo”, chiedono che giustizia sia fatta facendo appello proprio alla legittima violenza dello Stato. Come e quando è emerso questo paradosso, che alla fine non è poi così paradossale?
FV: Questo paradosso apparente che vede le donne, per un verso, denunciare la violenza subita e, per l’altro, fare appello alla violenza punitiva dello Stato, è in realtà il frutto di una profonda differenza di posizionamento e di analisi. Nel femminismo contemporaneo che si rifugia sotto l’ala protettrice dello Stato regna una confusione ideologica specifica, che deriva dall’iscrizione di questo femminismo nel solco di una storia europea elevata al rango di storia universale e dalla sua intima relazione con lo Stato borghese. Dal momento che la parola “femminismo” è stata coniata in Occidente, dove si sono tenuti i primi grandi raduni femministi, dal momento che la tradizione ha fatto dei testi scritti dalle donne europee (e talvolta dagli uomini europei), i testi fondatori dell’ideologia e delle teorie femministe, e dal momento, infine, che la storia del femminismo si è sviluppata secondo una logica europea che ha tendenza a celebrare le vittorie conquistate sul piano liberale dei diritti – al punto che il diritto di voto, per esempio, è considerato prioritario rispetto all’uguaglianza razziale -, per tutte queste ragioni, il femminismo intrattiene un rapporto di complicità con lo Stato borghese. Se ha avuto difficoltà a far posto alle rivendicazioni delle donne proletarie, figuriamoci quanto sia e sia stato in grado di comprendere le ragioni delle donne razzializzate, delle donne migranti e delle donne del Sud globale! Questa complicità originaria spiega la fiducia di alcune correnti femministe nella giustizia dello Stato e nelle sue istituzioni repressive, minimizzandone il portato razzista, sessista e di classe. Eppure i pochi provvedimenti contro la violenza sessuale e di genere che esistono sono sempre stati ottenuti tramite le lotte; lo stato non ha mai concesso diritti per magnanimità.
Queste leggi, che solo le lotte femministe sono riuscite a strappare allo Stato, sono misure oggi in corso di liquidazione in molti paesi e la cui applicazione è diventata sempre più difficile, creando frustrazione e senso di ingiustizia. Per esempio, lo stupro è riconosciuto come un crimine dalla legge, ma coloro che lo subiscono sono costrette a passare attraverso un percorso così lungo e tortuoso per sporgere denuncia che spesso preferiscono abbandonare. Ci sono le femministe che obiettano: “Ma allora il crimine dovrebbe rimanere impunito? Non dovremmo piuttosto sostenere le donne che ne sono vittima?”. Senza nulla togliere al ruolo svolto dai centri di assistenza e di accoglienza per le donne che hanno subito violenza, mi rifiuto di restare intrappolata in questo tipo di conversazione. Anziché trasformare le donne in vittime, si tratta di restituire loro autonomia e capacità di agire. Il discorso assistenzialista sulla protezione spesso insiste sulla vulnerabilità essenziale delle donne: per essere ascoltate, dobbiamo prima ammettere la nostra debolezza e quindi il nostro bisogno di essere protette dalle forze dello Stato. Le femministe decoloniali rifiutano questa vittimizzazione che relega le donne, specialmente quelle razzializzate, a una condizione di debolezza. Le donne nere e razzializzate del Sud del mondo non sono deboli, sono forti, sono abituate a resistere ad aggressioni di una brutalità incredibile, a superare situazioni che le donne borghesi abituate, al contrario, a vivere protette e tra gli agi conquistati attraverso secoli di sfruttamento coloniale, non sarebbero mai in grado di sostenere. Le femministe decoloniali che promuovono l’autodifesa comunitaria sanno che mandare in prigione centinaia di migliaia di uomini (per la maggior parte razzializzati) non servirà a proteggerle dalla violenza. Le femministe nere sanno che il razzismo, che affonda le sue radici nella schiavitù, è ciò che le rende violabili e uccidibili, così come lo sanno le donne aborigene e razzializzate. Le femministe decoloniali comprendono la schiavitù sessuale come una manifestazione della cattura e dello sfruttamento dei corpi e non come l’unica conseguenza dell’organizzazione mafiosa della tratta. Il femminismo che ha fiducia nello Stato, uno Stato la cui ricchezza si basa sullo sfruttamento (e quale Stato fa eccezione alla regola?) è idealista perché si ostina a credere che esistano diritti umani inalienabili laddove, visibilmente, questi diritti sono riservati solo ad alcuni cittadini di alcuni paesi.
Hai perfettamente ragione a sottolineare l’offensiva autoritaria e liberticida che la Francia sta attraversando in questo momento e il modo in cui i diritti delle donne sono di nuovo oggetto di una strumentalizzazione repressiva. Macron non perde occasione di ribadire che la Repubblica francese è naturalmente egualitaria, e perciò a favore dell’uguaglianza delle donne e degli uomini. Ripete continuamente che la laicità è garanzia di questa uguaglianza, in una società in cui la maggior parte degli impieghi part-time sono assegnati dalle donne, in cui il lavoro di cura, altamente femminilizzato, è privatizzato e sottopagato, in cui le molestie sessuali e la discriminazione razziale sul lavoro sono all’ordine del giorno nei settori dei servizi, della pulizia e della cura, e in una società in cui alle donne velate viene affibbiato lo status di vittime sottomesse al patriarcato. Mai il femminismo è stato così sfacciatamente al servizio del neoliberalismo e dell’imperialismo. Questo femminismo tutto incentrato sulla difesa dei “diritti delle donne”, come scrivevo nel mio libro precedente, Un femminismo decoloniale, offre al neoliberalismo e all’imperialismo le risorse lessicali e ideologiche necessarie per giustificare tanto le politiche di intervento militare quanto la repressione delle persone razzializzate. La violenza contro le donne diventa il terreno su cui queste femministe costruiscono un’ideologia repressiva, che non ne intacca le cause. Si tratta poi di una violenza individualizzata, per far fronte alla quale non sono previste soluzioni collettive autonome, secondo una logica che inevitabilmente genera frustrazione e scoraggiamento perché, nonostante la repressione, la violenza non si ferma.
Marlène Schiappa, fino a poco fa ministra delle pari opportunità e per la lotta contro le discriminazioni, attualmente delegata presso il ministero dell’Interno in qualità di segretario di stato per la cittadinanza, è un esempio paradigmatico di questo tipo di femminismo: difende strenuamente leggi liberticide e razziste in nome dei diritti delle donne, ma non denuncia mai pubblicamente il razzismo e la negrofobia diffusa, né contesta il suo governo per i rapporti che intrattiene con l’Arabia Saudita. In compenso, ha sempre qualcosa da ridire sulle donne velate e sull’Islam. In fondo, però, la sua posizione non è paradossale. Difende un femminismo borghese bianco, pro-capitalista e pro-imperialista. Il patriarcato con cui se la prende non è il patriarcato del neoliberalismo. Non per questo le nego il diritto di definirsi femminista. Si tratta piuttosto di evidenziare sempre le differenze teoriche, pratiche e oggettive che esistono tra i femminismi di liberazione e questi femminismi – di stato, aziendali, civilizzatori, imperialisti, femonazionalisti.
JM: Quando si parla di violenza sessuale gli uomini sono generalmente considerati gli unici responsabili. Eppure, senza assolvere il patriarcato dalle sue colpe, nel tuo libro sollevi la questione del ruolo svolto dalle donne che hanno attivamente preso parte – in epoca coloniale o nel contesto di interventi imperialisti più recenti – all’esercizio di pratiche violente, torture e stupri contro uomini colonizzati/indigeni. Come interpreti questa missione compiuta dalle donne al servizio della macchina da guerra (neo)coloniale?
Leggendo i resoconti degli stupri di uomini neri, indigeni, migranti e musulmani, in situazioni di guerra aperta o latente, sono rimasta molto colpita nel constatare il fatto che questi stupri fossero assai più numerosi di quanto si pensi e che spesso fossero compiuti da donne soldato. Ho voluto perciò sottolineare questa femminilizzazione del corpo maschile indigeno, arabo o nero, una femminilizzazione che nasce sotto il segno della razza ed espone il corpo alla violenza dello sfruttamento (economico, sessuale, culturale), ne fa un corpo da violentare. In altre parole, all’interno dell’etero-patriarcato il processo di femminilizzazione crea distinzioni tra donne, uomini e persone non-binary. Ne derivano almeno due istanze del femminile, una che è da proteggere paternalisticamente (da parte dello Stato e del patriarcato) e una di cui si autorizza lo sfruttamento.
Questa divisione non è del tutto coerente, e le donne che s’illudono di essere protette obbedendo e conformandosi alle norme etero-patriarcali, razziali e capitaliste possono sempre essere catapultate nel campo dei corpi da uccidere, violentare e smembrare. La razza, però, rimane una linea fondamentale attraverso cui viene concepita la femminilizzazione. Le donne possono quindi approfittare della femminilizzazione razziale dei corpi neri e indigeni. Nel suo libro consacrato alla storia di donne bianche proprietarie di schiavi (They Were Her Property. White Women as Slave-Owners in the American South), la storica Stephanie E. Jones-Rogers mostra che queste donne erano brutali tanto quanto gli uomini bianchi. Avevano piena consapevolezza del fatto che gli esseri in loro possesso costituissero un capitale che garantiva loro status sociale e ricchezza, e partecipavano senza remore al commercio e alla tratta degli schiavi. Erano tutt’altro che innocenti. Il colonialismo ha permesso a queste donne di essere proprietarie di piantagioni, di trarre profitto del lavoro forzato degli schiavi. Per questo hanno saputo chiudere un occhio sugli abusi perpetrati contro questi ultimi dai loro figli, padri, mariti – stupri, rapine, omicidi – e spesso li hanno perfino giustificati o incoraggiati.
Il razzismo permette alle donne di mentire, rubare, stuprare, torturare le persone razzializzate. Quante false accuse di furto le donne nere hanno dovuto sopportare! Le donne bianche, invece, hanno spesso accusato ingiustamente gli uomini neri sapendo bene che rischiavano di farli linciare. Le cosiddette Karen, il nome dato alle donne bianche che continuano a mentire, ieri come oggi, dimostrano che nel XXI secolo il razzismo è ancora un’arma nelle mani delle donne bianche e che queste ultime non esitano ad usarla, dicendo, come avviene in Francia, per esempio, di essere state molestate da giovani neri e/o musulmani, anche se non è vero, o denunciando l’esistenza di bar per soli uomini nei quartieri popolari, che non esistono. Poiché la razza è una modalità attraverso la quale si sperimentano la classe e il genere, anche le donne non-bianche possono occupare questa posizione di potere e di dominio sugli uomini razzializzati. La guerra, il razzismo, l’antisemitismo, l’islamofobia, la xenofobia sono per l’appunto i contesti in cui le donne occupano senza esitazione una posizione di potere e di dominio.
JM: Parliamo delle responsabilità del “femminismo punitivo e carcerario” nella costruzione simbolica delle mascolinità degli uomini razzializzati e nella stigmatizzazione e oppressione concreta di questi corpi maschili. I “maschi razzializzati” sono quotidianamente oggetto della violenza istituzionale, tanto sul piano mediatico/discorsivo quanto su quello materiale/repressivo. Quali sono le conseguenze di questa spirale di violenza sulla costruzione delle mascolinità degli uomini razzializzati?
FV: Per fortuna le mascolinità razzializzate tornano ad essere oggetto di studio analitico. L’etero-patriarcato propone una mascolinità basata sul diritto di esercitare la forza, il potere e la sessualità. Ci sono uomini per cui questa non è una definizione appropriata. Da tempo la letteratura racconta storie di figli schiacciati dal potere del padre – o anche della madre che assume il ruolo di gendarme del patriarcato. Il patriarcato ha impiegato del tempo per imporre questo modello di mascolinità, lo Stato ha dato una mano, la loro complicità è storica. È una mascolinità normativa che costringe i corpi e prescrive ingiunzioni. Dal momento che il genere è razzializzato, la razza agisce sul processo di mascolinizzazione e, per esempio, all’epoca della schiavitù, il corpo maschile è animalizzato, femminilizzato, investito di una sessualità minacciosa e incontrollabile. L’orientalismo, diversamente, affibbia agli uomini arabi una mascolinità dura e misognina. Il lavoro forzato, le leggi coloniali che criminalizzano l’omosessualità, l’imposizione di codici familiari sembrano costrutti lontani, ma non è così. La maggior parte degli stati post-coloniali ha scelto di mantenere in vigore le leggi coloniali anche se la costituzione le ha abolite, come in Sudafrica, dove le persone queer, trans, sex workers e non-binary continuano ad essere discriminate e bersaglio di violenza.
Ma per rispondere più direttamente alla tua domanda, la spirale di violenza di cui il femminismo punitivo e carcerario è complice (anche se si difende da questa accusa dando prova di denegazione) colpisce effettivamente gli uomini razzializzati. È la guerra razziale e sessista a prenderli di mira. La colonizzazione ha razzializzato i generi, ovvero il binarismo tra donne e uomini non è universale, è attraversato dalla razza: non si è donna, ma donna indigena, nera, musulmana, ebrea, lo stesso vale per l’uomo. Questa condizione onnipresente non concede ai corpi razzializzati di accedere alle stesse misure di protezione di genere che vengono riconosciute agli uomini bianchi e alle donne bianche. Gli uomini razzializzati non sono concepiti né trattati con lo stesso rispetto e dignità di un uomo bianco occidentale.
Sappiamo che classe, genere, razza si intersecano, e che queste intersezioni non sono solo attraversate da altre intersezioni – età, (dis)abilità ecc. – ma anche sussunte all’interno di costruzioni che si evolvono storicamente e rispetto alle quali l’imperialismo svolge un ruolo fondamentale. I giovani rifugiati, migranti, esiliati, che mostrano coraggio, forza, e una straordinaria capacità di superare ostacoli incredibili resistendo a un razzismo assassino, e che per questo dovrebbero essere ammirati, vengono discriminati e squalificati in quanto detentori di una mascolinità minacciosa. L’imperialismo agisce sul modo in cui le mascolinità razzializzate sono mediate e costruite, il femo-imperialismo gioca ovviamente un ruolo in questo processo. I movimenti decoloniali di de-patriarchizzazione sono fondamentali oggi per operare una de-mascolinizzazione capace di smantellare modelli di mascolinità intesi come sinonimo di dominio e abuso di potere.
JM: Il sottotitolo del tuo libro “per una politica della protezione antirazzista” esprime un’esigenza che non riguarda solo le donne, ma qualsiasi popolazione vulnerabile esposta alla violenza istituzionale. Per queste popolazioni, che non godono del diritto alla protezione dello Stato, cosa significa “proteggersi”? Da chi, prima di tutto, e come?
FV: Esatto, il punto è proprio come proteggersi. Da chi ? Dallo sfruttamento, dall’espropriazione, dal razzismo, dalla colonizzazione e dall’imperialismo. Come? Combattendoli senza tregua, svelando i meccanismi e la perversione delle politiche di protezione basate sulla selezione – di classe, razza, sesso, origine, età, religione – e sulla punizione carcerale che ha come sola conseguenza la moltiplicazione delle carceri, e quindi della miseria, dell’isolamento, degli abusi e della violenza.
Gli oppressi hanno sempre implementato le proprie politiche di protezione – impedendo alla polizia militarizzata di entrare impunemente nei quartieri e nelle case, impedendo gli sfratti, falsificando documenti, organizzando vie di fuga clandestine, creando nascondigli e rifugi, mettendo le armi a disposizione delle comunità minacciate, creando le proprie scuole, cliniche, chiese, attività, università. In questo contesto l’obiettivo di una giustizia riparatrice e rigeneratrice è di reintegrare il reo nella comunità rendendolo consapevole del danno perpetrato.
Ciò che voglio sottolineare è l’interdipendenza tra persone che possono essere molto diverse, ma che fronteggiano gli stessi “nemici” – la fame, il freddo, la povertà, il razzismo, il capitalismo, il sessismo, la violenza dello stato, la polizia, la giustizia di parte – e decidono di organizzare la solidarietà. C’è bisogno d’impegno quotidiano, di un enorme sforzo, perché nulla nella società occidentale odierna dominata dall’individualismo ci insegna l’interdipendenza e la solidarietà.
Lo Stato protegge a condizione di poter stabilire chi ha diritto alla protezione, come viene esercitata e da chi viene applicata. C’è quindi sempre una tensione tra le richieste di protezione portate avanti da parte dei cittadini rispetto, ad esempio, ai beni pubblici da difendere lottando – i diritti sul lavoro, il diritto alla salute, all’educazione, alla casa, il diritto ad essere messi al riparo dalle calamità naturali (cicloni, terremoti, pandemie…) – e il modo in cui lo Stato concepisce la sua protezione.
Il riconoscimento del bisogno comune e condiviso di protezione – fisica e psicologica – si situa agli antipodi tanto della protezione condizionata dello Stato quanto dell’ideologia individualista e menefreghista che dice: “Se ce l’ho fatta io, nonostante tutti gli ostacoli, allora può farcela chiunque. Basta volerlo”; è questo mito individualista della volontà, profondamente reazionario, serve spesso a giustificare il razzismo.
Protezione decoloniale antirazzista significa quindi, prima di tutto, riconoscere che un essere umano ha bisogno di protezione (alla nascita un essere umano è incapace di sopravvivere senza protezione) e che è legato da vincoli di interdipendenza con il suo ambiente e con gli altri esseri viventi. È un rifiuto dell’individualismo, dell’idea che possiamo cavarcela da soli, che non abbiamo bisogno di nessuno. La solidarietà è un riconoscimento di questa esigenza di protezione contro le forze egoiste del neoliberalismo: siamo insieme, ci sosteniamo a vicenda, ci consoliamo a vicenda, sappiamo che non siamo soli, che i compagni e le compagne di lotta sono lì. Dobbiamo nutrire questa concezione collaborativa e collettiva della protezione, perché è costantemente indebolita dagli egoismi, dalle gelosie e dalle rivalità. Non dobbiamo sottovalutare le conseguenze distruttive per la psiche prodotte dal razzismo, dal sessismo e dal capitalismo. Siamo “messi male”, ma non mettiamo a fuoco le cause perché tutto – la scuola, l’informazione, l’organizzazione della società, le ideologie dominanti – ci educa a non indagare le cause storiche e profonde del nostro malessere, ma a dare la colpa agli altri. Oppure siamo diventati sospettosi perché siamo stati ingannati, maltrattati, ci rifiutiamo di avvicinarci ad altri per paura di essere feriti e delusi.
Per creare questa protezione solidale, bisogna superare la paura, saper amare, accettare le differenze, riconoscere le proprie difficoltà e imparare a confortarsi con gli altri, rifiutando i toni moraleggianti. Si tratta di un processo in cui non si deve mai approfittare della vulnerabilità altrui per affermare il proprio ego o per creare dipendenza. Il come è, ripeto, tutto basato sul lavoro collettivo e sullo sforzo quotidiano a partire dalla consapevolezza che l’interdipendenza è davvero l’opposto della dipendenza.
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Molto interessante, grazie!
Grazie, Jamila, per questa lunga intervista. Dei vari spunti tratti da quest’ultimo volume, che non ho ancora letto (mentre conosco Un féminisme décolonial, che segnalo essere stato tradotto in Italia da Ombrecorte, per chi fosse interessato/a), mi ha colpita l’affondo sul “mito individualista della volontà, profondamente reazionario, [che] serve spesso a giustificare il razzismo”. È proprio vero.
Complimenti a Jamila per la bella intervista. Avrei in realtà curiosità e dubbi non risolti da quel che ho letto ma immagino occorra leggere il libro per chiarirli. Ancora brava!
Grazie a voi!
@Ornella, merci, inserisco subito il link alla traduzione italiana pubblicata da Ombrecorte
Di Un femminismo decoloniale e site una traduzione italiana (qui stranamente omessa) per i tipi di ombre corte, uscita nel maggio 2020 e ora in ristampa, ma a disposizione a giorni. Anticipiamo inoltre che il libro su cui verte l’intervista saraà tradotto e disponibile a maggio 2021 sempre per i tipi di ombre corte.
http://www.ombrecorte.it/index.php/prodotto/un-femminismo-decoloniale/
Cara Jamila,
anch’io ringrazio per questa lunga, e densa intervista. Tocca questioni che c’interessano tutti e tutte. E tocca, in particolare, dei punti che anche per me sollevano alcuni problemi. Non m’interessa qui entrare in questioni di “esegesi” del pensiero di Françoise Vergès, ma provare ad estrarre dal suo discorso dei punti su cui riflettere in maniera generale. Sono costretto ovviamente a semplificare, ma altrimenti il discorso se preso con troppe cautele è troppo prezioso e sfaccettato per acquistare un “valore d’uso”. Ovviamente, provo a interloquire con te, in quanto portavoce di questo pensiero critico. Dal punto di vista della tradizione del pensiero critico di matrice marxista (ma non solo), l’attitudine anticapitalista e antimperialista ha una sua storia e un suo radicamento. A partire da un certo punto del Novecento, e ancora oggi, l’esigenza di coniugare anticapitalismo e antimperialismo con l’antirazzismo e l’antiptriarcato si è fatta pressante, imponendo di riconfigurare sia pensieri che pratiche. E in quest’ottica mi sembra che l’apporto di un pensiero come quello di Vergès sia fondamentale. Vi è pero’ uno scoglio, che a me non pare facilmente risolvibile. Se a tutto cio’ aggiungiamo una prospettiva di anti-Stato, di rifiuto dello Stato (delle istituzioni), diventa difficile avvicinare questo pensiero all’esperienza di una gran quantità di casi e persone.
Prendiamo un passaggio come questo: “Gli oppressi hanno sempre implementato le proprie politiche di protezione – impedendo alla polizia militarizzata di entrare impunemente nei quartieri e nelle case, impedendo gli sfratti, falsificando documenti, organizzando vie di fuga clandestine, creando nascondigli e rifugi, mettendo le armi a disposizione delle comunità minacciate, creando le proprie scuole, cliniche, chiese, attività, università. In questo contesto l’obiettivo di una giustizia riparatrice e rigeneratrice è di reintegrare il reo nella comunità rendendolo consapevole del danno perpetrato.”
Di che scenario concreto stiamo parlando? Di che contesto politico e geografico stiamo parlando? Io faccio fatica a vederci chiaro. Stiamo parlando ci comunità che lottano contro regimi autoritari? Stiamo parlando di strategie di sopravvivenza di quartieri popolari delle nostre città? Stiamo parlando di organizzazioni di tipo mafioso, che organizzano un controllo del territorio alternativo a quello dello Sato e delle sue istituzioni? Stiamo parlando di un territorio franco, che si autogestisce interamente, dalla culla alla tomba, pur senza acquisire la complessità e l’estensione di un piccolo Stato?
In realtà, il discorso di Vergès, se dovessi farne un’analisi attenta, mi sembra che oscilli tra due poli: quello del rifiuto radicale dello Stato (non c’è Stato accettabile) e quello della critica allo Stato (questo Stato va modificato). Non credo che sia un problema solo di Vergès, né della sua teoria femminista. Credo che sia un problema che per certi versi era già presente in Marx e nel suo originario anticapitalismo e antimperialismo. Marx aveva pensato lo Stato post-rivoluzionario? Marx aveva pensato a una sorta di società senza Stato. Poi il marxismo-leninismo ha prodotto uno Stato elevato a potenza, amaro e tragico paradosso.
Una persona dopo vari anni di vita in coppia e con figli, decide di ribellarsi e difendersi rispetto alla violenza del proprio compagno. Magari lei è bianca, magari lui è nero. Cosa fa? Ci ha messo anni a uscire da quel rapporto, a emanciparsi da quel rapporto. Lui è stato molto abile nel farle terra bruciata intorno. Nessuno puo’ aiutarla, anche perché lei per prima non voleva essere aiutata. Poi uno spiraglio. Deve o non deve ad un certo punto rivolgersi alla polizia, per proteggersi? Ecco, non vorrei sentirmi rispondere: “non entro in questa discussione”. Non dico questo rivolto a te Jamila. Intendo dire che è un po’ troppo facile rispondere “di questo non voglio parlare”, quando un’istanza pratica bussa alla porta di una teoria (“cosa devo fare in questo caso?”).
In alcune zone del mondo, la mancanza di Stato non ha minimamente ridotto il tasso di violenza e sfruttamento sulle persone, ma ha lasciato libero corso a delle semplici bande criminali, che fanno liberamente quello che il poliziotto più razzista spesso puo’ solo sognare di fare.
Detto questo, potrei riformulare in questo modo la mia domanda, Jamila: “Esiste, nella teoria di Françoise Vergès, lo spazio per pensare un’istituzione che non sia semplicemente repressiva o al servizio della violenza e dello sfruttamento?”
Be’, Andrea, uno dei miei “dubbi non risolti” era proprio l’esempio che hai appena fatto.
Rispondo finalmente a Andrea e Gianni, ma non in quanto “portavoce” del pensiero di FV – Françoise è un’amica e condivido molto di quello che scrive, ma non voglio farmene interprete. Anzi, magari potremmo fare una seconda puntata per chiedere direttamente a lei le cose che vi sembrano rimaste in sospeso. Dirò quello che a me interessa del suo discorso. In particolare due aspetti dell’ultimo libro mi sembravano interessanti: da un lato il ritratto delle mascolinità trasfigurate dal razzismo, inscritte in un reticolo di violenza simbolica e materiale, che complica lo schema vittima/carnefice=donna/uomo, obbliga a pensare il maschile razzializzato all’insegna della vulnerabilità, demistifica la presunta innocenza del femminile (l’esempio delle donne schiaviste è fortemente eloquente) e sottolinea i limiti del femminismo “carcerale e punitivo” contemporaneo, il femminismo di Stato che vuole punire la violenza di genere facendo ricorso alla la violenza legittima dello Stato. A parte la cacofonia di tanti di questi termini che in italiano mi sembrano molto più pesanti che in francese, il punto è interrogarsi sulla condizione specifica, per esempio, dei giovani di banlieue che crescono tra perquisizioni musclées e pestaggi e droga nella cité, questi bad boys la cui virilità è comunque costantemente umiliata dalla violenza razziale e sociale perpetrata dallo Stato (a vari livelli: la scuola che ti scarta, la polizia che ti stupra – l’affaire Théo è emblematico). Additare il problema dello status di questa mascolinità ferita e però non di rado violenta, come lo fa Françoise, mi pare importante, perché proprio questi uomini “naturalmente” considerati maschilisti e violenti, sono lo spettro e il target del femminismo “carcerale e punitivo” incarnato da M. Schiappa. La rivisitazione di Françoise non assolve nessuno, ma complica il quadro. E solleva, ma solo implicitamente, il problema di stabilire a cosa/chi giova la punizione carcerale contro le violenze di genere. Ma è un dibattito più ampio, che rinvia a Angela Davis e l’abolizione delle prigioni, e anche su quello la si potrebbe risollecitare per dire di più. L’altro aspetto che a me interessava del suo libro era proprio quello della protezione oltre/contro/dallo Stato. La critica di Françoise prende le mosse da un’analisi con la quale concordo in pieno: lo stato francese è tanto egualitario nei principi, quanto borghese–imperialista-razzista-patriarcale storicamente e di fatto. Di nuovo, a molt* sembreranno paroloni démodés, ma proverei a prenderli nel modo meno ideologico e più terra terra possibile: la République è uno stato in cui le violenze razziste sono all’ordine del giorno e quindi strutturali, idem per i femminicidi, le violenze e le discriminazioni di genere; è uno stato che difende ben poco gli interessi delle classi popolari e subalterne, privilegiando anche in una fase come questa piani di rilancio economico che non sembrano immediatamente beneficiare queste ultime (mentre si riformano le pensioni, la scuola, l’assurance chomage ecc.); ed è uno stato che interviene militarmente nelle sue ex-colonie (e non) e che coltiva la Françafrique come il proprio backyard. In questo senso definirlo borghese, imperialista, razzista e patriarcale è descrivere uno stato di cose evidente che poi può essere apprezzato, giustificato o criticato.
Ora, questo non significa negare, ad esempio, che questo stesso Stato, con tutti gli epiteti che mi risparmio di ricitare di nuovo, non sia anche erogatore di servizi pubblici, sussidi di disoccupazione, case popolari e istruzione – con tutte le contraddizioni del caso. Ma se parliamo di protezione e giustizia di fronte alle violenze subite, la questione si complica anche da un punto di vista soggettivo: chi si sente protetto dalle forze dello stato, cioè dalla polizia? Chi si rivolge alla polizia per essere protetto? Tra quelle che Françoise chiama le “popolazioni vulnerabili”, quindi racisée.s di banlieue, ma anche migranti senza documenti, gente senza fissa di mora, persone in condizioni di disabilità mentale o fisica che pure magari beneficiano di alcuni servizi di assistenza da parte dello stato, ecco da parte di questi soggetti la percezione lo stato protegga proprio non c’è. Per tante persone il punto è proprio proteggersi dalla protezione dello Stato garantita dalla polizia. Ora, pur non essendo io una persona particolarmente vulnerabile sul piano sociale, di certo non paragonabile a un migrante sans papier che si fa sgomberare a calci una volta a settimana all’alba a la Chapelle, non saprei dire quando mai il rapporto con le forze dell’ordine, quindi con la protezione dello Stato, sia stato per me efficace o degno di questo nome: penso alle compagne finite in ospedale o peggio durante il G8 di Genova, alla violenza sperimentata e subita durante almeno gli ultimi 5 anni di manifestazioni a Parigi, a quel che vivo quotidianamente a Barbès costantemente pattugliata da poliziotti su di giri, all’arresto del mio compagno nel 2015 così, tanto per, a mio padre desaparecido per sospetto di terrorismo in Arabia Saudita (lo stato del Rinascimento dixit Renzi) e poi rimesso in libertà dopo diversi mesi di interrogatori, senza accusa e senza scuse, a quando la teste di cuoio ci hanno sfondato la porta alle 5 del mattino nel 2014 mentre ero incinta di Anna cercando droga e non so chi, per sbaglio. Possiamo anche chiamarla sfiga e basta, ma diciamo che perfino una persona come me ha qualche buona ragione per diffidare della protezione delle forze dell’ordine. E infatti non mi rivolgo alla polizia per essere “protetta”.
Quel che dice Françoise è che la protezione dello Stato è selettiva e ingiusta. E che forse bisogna ripensare la protezione dal basso. Gli esempi che cita sono esempi diversi: parla di resistenza in casi di occupazione militare, clandestinità straordinaria, ma anche solidarietà ordinaria in tante parti del mondo. E la proposta è quella di ripensare una protezione dal basso che non sia mafia né squadriglie di quartiere, ma una solidarietà cittadina organizzata capace di farsi carico di coloro che non sono pres* in carico dalla protezione statale. Un esempio scemo e recente: mi convocano dei genitori dalla scuola di Anna per chiedermi di firmare un appello da indirizzare al commissariato del 18esimo arrondissement/municipio per chiedere di “sgomberare i marciapiedi” dalla presenza di “assembramenti” di persone (africani) che parlano ad alta voce, bevono birra e forse fumano spinelli a pochi metri dalla scuola di mia figlia e sono quindi “visbili” all’uscita della scuola. Questione di decoro ma anche di “protezione” dei nostri bambini….La sacrosanta protezione dei bambini implicherebbe l’intervento di pattuglie della polizia, controlli di documenti per chi ce l’ha e chi non ce l’ha, evacuazione di barboni che dormono in prossimità, probabilmente interpellazioni poco cordiali e pacifiche con la popolazione del quartiere. Ora io davvero non vedo il problema rispetto agli africani, la birra e gli spinelli, ma magari è una risposta da gauchiste dire che si può fare slalom e non muore nessuno. Però provando a prendere seriamente il problema del decoro a cui altre persone sono sensibili, perché di fronte a un problema di protezione si pensa che la soluzione migliore siano uomini e donne in armi? E perché non immaginare che il quartiere possa organizzare solidarietà e protezione dal basso come si organizza la vendita di saponi bio tramite le app. fighette dei bobo? Quindi, Andrea, non so rispondere alla tua domanda per Françoise – se esiste un’istituzione non repressiva e non al servizio dello sfruttamento del razzismo e della violenza, o se ci sia spazio per pensarla. Io non la vedo, e certo non è la République. Però penso che sia altrettanto interessante pensare come storicamente la solidarietà degli oppressi abbia dato luogo in situazioni estreme e non a delle forme diverse di organizzazione della protezione. E pensare a come rinnovare questa tradizione. Non per condannare a priori la persona che, avendo subito aggressione, voglia sporgere denuncia, ma tenendo a mente proprio a tutt* quell* che pur avendo subito un’aggressione, non si rivolgerebbero mai alle forze dell’ordine per essere protetti o perché giustizia sia fatta. E sono in tant*.
Cara Jamila, grazie della risposta articolata, e densa di esperienza diretta. E certo sarebbe interessante confrontarsi anche con l’autrice, ma mi sembra già una bella occasione confrontarsi con te, e il tuo punto di vista. Il mio intervento critico nasce da un mio interesse, per le diverse prospettive teoriche che una diversità di movimenti di contestazione oggi, in modo più o meno coerente, elaborano. Parto da un presupposto. Molte persone a sinistra sostengono l’idea di una “spoliticizzazione” delle persone, degli sfruttati e dominati in particolare. Io non ci credo, e mi sembra di vedere diverse forme di mobilitazioni e d’impegno legati alla “polis”, allo spazio di vita e produzione comune. Di certo, pero’, non entrano nelle forme di azioni politica più consolidate nel novecento (la forma partito, prima di tutte). Le lotte a cui Vergès e tu pensate ne fanno certo parte: lotte antirazziste, femministe, contro il regime repressivo francese. Lo scoglio, per me, è un altro. E io credo che Carlo Formenti lo abbia espresso in maniera molto chiara in un suo libro del 2013 intitolato “Utopie letali” (Jaca Book). Ti cito qui un semplice passaggio, che per me puo’ essere messo in rapporto con questa tua affermazione: “Quel che dice Françoise è che la protezione dello Stato è selettiva e ingiusta. E che forse bisogna ripensare la protezione dal basso. Gli esempi che cita sono esempi diversi di resistenza in casi di occupazione militare, clandestinità straordinaria, ma anche solidarietà ordinaria in tante parti del mondo. E la proposta di ripensare una protezione dal basso che non sia mafia né squadriglie di quartiere, ma una solidarietà cittadina organizzata capace di farsi carico di coloro che non sono pres* in carico dalla protezione statale.”
Ecco il passaggio di Formenti: “Si tratta, infatti, di forme di agire collettivo che Gramsci avrebbe definito “apoliticiste”, sia per il rifiuto di qualsiasi forma di istituzionalizzazione, sia per l’assenza di qualsiasi preoccupazione di prefigurare scenari futuri, per l’assenza cioè – volendo ancora usale il lessico gramsciano – di “spirito statale”.”
In soldoni. Io vedo due modelli possibili. Uno che forse riporterei a Rancière (in La haine de la démocratie): oggi le nostre democrazie liberali e capitalistiche sono confrontate continuamente a un disordine e una contestazione che interferisce continuamente con la loro tranquilla amministrazione dell’esistente (intendi sfruttamento e dominazione). Non è realistica l’opzione di un abbattimento totale dello Stato (delle prigioni, ecc.), ma è realistico un controllo maggiore dello Stato dal basso, cosi come l’allargamento dei diritti, e l’apertura di spazi autogestiti. Qui l’anticapitalismo mi sembra non voler o non poter divenire completamente (se non in forma puramente utopica) antistatalismo.
Poi vi è il ragionamento di Formenti, e l’apoliticismo di cui parla citando Gramsci vuol dire questo. Non tanto inerzia e passività delle masse, ma l’incapacità o semplicemente il rifiuto di pensare un’istituzione (o una somma di istituzioni) alternative a quelle democratico-liberali.
Se l’ottica è dunque questa (non pretendiamo di prefigurare uno Stato anticapitalista, antirazzista, ecc.), ma qui rispondo per parte mia, io opto per il modello riformista: lottare perché le leggi cambino, perché cambi la cultura istituzionale delle forze dell’ordine, perché non vi sia immunità per i poliziotti, perché il sistema carcerario funzioni diversamente, insomma si ricade nella lotta per i diritti (con i suoi limiti). Ma non vedo neppure perché una tale lotta contrasterebbe, fino a un certo punto, con l’ampliamento delle solidarietà di cui parla Vergès.
Ora, posto che il libro di Formenti mi ha convinto sulle debolezze di certi movimenti nati tra fine novecento e inizio secolo (il loro paradigma sostanzialmente libertario), deve ancora convincermi sulla realizzabilità (e bontà) della sostituzione di uno Stato borghese con uno Stato proletario e davvero anticapitalista. Ma su questo ancora leggo e “studio”.
[…] storica e politologa femminista Françoise Vergès discute in un’intervista il problema della violenza in una cornice femminista, in particolare le correnti del femminismo […]