su Mascaró

di Marino Magliani

Ho scoperto Haroldo Conti grazie a Adrián Bravi. «Racconta l’acqua» mi disse, «le inondazioni, come faccio io, ma lui l’ha fatto tanti anni fa, perché è nato negli anni Venti, e da Chacabuco è andato a vivere il delta, tra i banchi di sabbia e le isole del Paraná, con in lontananza i palazzi di Buenos Aires, e dalla sua barca guardava le rive». E Adrián ha ragione, Haroldo Conti ha raccontato l’acqua del delta dal centro dell’acqua.
La prima cosa su cui ci si sofferma, tuttavia, quando si legge di Haroldo Conti, non sono l’acqua di Sudeste e la costa inzuppata di Mascaró, o la stessa amicizia con Gabriel García Márquez, la passione per il cinema, ma richiama il numero esiguo di libri a suo nome. Allora vai a vedere qualche notizia biografica e a quel punto ti è tutto chiaro. Conti è morto molto presto, a cinquantuno anni, perché questa è la data che riportano le carte (ma solo alcune), in genere accanto a Chacabuco, profonda pampa, 1925, un luogo di morte non viene riportato, e una data, un giorno, un mese, uno di quei mesi in cui in Argentina fa freddo e qui si soffoca. Nulla, Haroldo Conti non c’è, c’è stato e poi non più, scomparso, desaparecido.
Uno di quei giorni in cui a Buenos Aires fa freddo e in Italia la notte odora di alberi e le rane nel torrente si cercano. 5 maggio, di notte, Haroldo era andato con la compagna al cinema a vedere “Il Padrino”, era il 1976, e quando è tornato un gruppetto di fascisti malparidos lo stava aspettando in casa, avevano già sequestrato la coppia di amici (costoro avevano trascorso la serata coi bambini piccoli, e i milicos avevano narcotizzato i bambini), e poi demolirono Haroldo, ma non gli tapparono gli occhi, come fecero alla compagna… Era già ben chiaro che Haroldo non l’avrebbe mai detto a nessuno chi erano. Erano stati mandati da Videla. Lo portarono via, di solito viaggiavano in Falcon. Ma queste cose le racconta molto bene proprio Gabriel García Márquez nell’introduzione a Mascaró, che uscì in Argentina nel 1975 e che Exòrma ha riportato in Italia (era uscita una traduzione di Francesco Saba Sardi, per Bompiani nel 1983). È stato lo stesso Videla a confessare ai giornalisti, alla fine della dittatura: «Haroldo Conti non cercatelo».
Nel 1976, un paio di settimane dopo il sequestro di Haroldo Conti, J.L. Borges e Ernesto Sabato, invitati a pranzo da Videla per parlare di cultura, hanno avuto la possibilità di chiedere cosa ne era della gente sequestrata (in quei tempi l’etichetta di desaparecido non si usava ancora, era semplicemente gente sequestrata e prigioniera), ma non lhanno fatto. O la domanda, da parte del solo Sabato è stata posta senza convinzione, buttata lì, come una semplice (timida?) richiesta di informazioni. Questo risulta dalle ammissioni dello stesso Sabato. Sta di fatto che di Haroldo Conti si parlò sempre meno, non aveva lasciato certe opere come Operación masacre, di Rodolfo Walsh, Conti aveva parlato dell’acqua e del popolo dell’acqua, di malinconie, della ricerca della libertà, certo, (e anche di ferocia subita dal popolo, certo) nella fauna circense di Mascaró, di cui siamo a dire qualcosa, non ci sono genocidi. Conti era dunque un desaparecido e basta, e desaparecida in Europa risultò essere la sua letteratura. Lo conoscevano in pochi, e chi lo conosceva lo amava, lo studiava, come il saggista Luca Leotta che ha scritto la tesi su di lui e sull’altro grande desaparecido, il fumettista Héctor Hoesterheld, al quale la dittatura ha fatto sparire e uccidere le quattro figlie, di cui due incinta. Conti era un sommerso e nessuno sapeva dove. Uno che diceva di sé: «Non sono un uomo libero, ciononostante ho il culto della libertà».
Mentre traducevo Mascaró con Riccardo Ferrazzi non pensavo a chi dedicare il lavoro, non ci si pensa a chi dedicare le traduzioni, i libri sono degli autori, non dei traduttori, ma quando il libro esce qualcosa a riguardo si può dire e io vorrei dire che dedico la mia traduzione a Giulio Regeni. Siccome siamo in due e le traduzioni che si fanno in due non si fanno a metà, ma si integrano, in un confronto e in una riscrittura delle due voci (perché non ci sia acqua salata o dolce ma l’acqua della traduzione sia nella forma delle due cose: un’acqua quasi salmastra) perché siano in effetti quasi una, quasi la voce di una lingua che lavora su ciò che un autore non ha gettato via in un’altra lingua, ho chiesto a Riccardo Ferrazzi di raccontare qualcosa ma stavolta più che sulla vita e l’opera scomparsa, di farlo sulla lingua presente di Haroldo Conti che non è scomparsa.
Ho ricevuto questa mail:
“La caratteristica che più mi affascina nei veri scrittori è la capacità di presentare al lettore dei “pezzi di bravura” che sono manifestamente tali ma si fanno leggere senza fatica e, anzi, lasciano nel lettore la sensazione di aver viaggiato fra le nuvole. Sono molti i brani di questo genere in Sudeste, e l’intero esordio di Mascaró, la notte di Arenales mi ha lasciato stupefatto per la precisione e l’abilità con cui l’autore indaga tutti i particolari di una complicata fotografia. Si sa: la precisione nei dettagli è un atout narrativo. Ma non è come dirlo. Per rendere affascinante una descrizione bisogna sì rappresentare la realtà nei suoi particolari, ma soprattutto è necessario dare la sensazione che ciò che si descrive ha un senso e uno scopo. Bisogna saper parlare di ogni singola cosa senza specificare quale peso abbia e quale ruolo rivesta nel tutto, ma lasciando intendere che sia indispensabile per cogliere il significato del quadro. L’abilità di Conti è tale che, quando Oreste si imbarca e lascia Arenales, comprendiamo che lascia alle sue spalle nient’altro che un piccolo agglomerato di baracche dove vivono alla giornata uomini e donne sbandati e senza futuro. Eppure la minuziosa descrizione di quel posto sperduto ci ha tenuti agganciati alla pagina e ci lascia la stessa impressione del primo capitolo di un giallo: quello in cui viene ritrovato il cadavere e l’indagine ha inizio. La notte di Arenales è il mistero dell’esistenza: la somma di inutilità, casualità, noia e oppressiva sensazione di impotenza con cui finiamo per guardare alla vita quando ci troviamo in uno di quei vicoli ciechi nei quali non abbiamo potuto evitare di infilarci e dai quali è così difficile districarsi. L’entrata in scena del Principe Patagón darà la prima svolta alla vicenda. Oreste esce, quasi suo malgrado, dal vicolo cieco di Arenales per seguire un’avventura alla quale non avrebbe mai pensato. Il successivo intervento di Mascaró gli darà uno scopo nella vita.”

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giacomo sartori
giacomo sartori
Sono agronomo, specializzato in scienza del suolo, e vivo a Parigi. Ho lavorato in vari paesi nell’ambito della cooperazione internazionale, e mi occupo da molti anni di suoli e paesaggi alpini, a cavallo tra ricerca e cartografie/inventari. Ho pubblicato alcune raccolte di racconti, tra le quali Autismi (Miraggi, 2018) e Altri animali (Exorma, 2019), la raccolta di poesie Mater amena (Arcipelago Itaca, 2019), e i romanzi Tritolo (il Saggiatore, 1999), Anatomia della battaglia (Sironi, 2005), Sacrificio (Pequod, 2008; Italic, 2013), Cielo nero (Gaffi, 2011), Rogo (CartaCanta, 2015), Sono Dio (NN, 2016), Baco (Exorma, 2019) e Fisica delle separazioni (Exorma, 2022). Alcuni miei romanzi e testi brevi sono tradotti in francese, inglese, tedesco e olandese. Di recente è uscito Coltivare la natura (Kellermann, 2023), una raccolta di scritti sui rapporti tra agricoltura e ambiente, con prefazione di Carlo Petrini.
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