L’oscuro magnetismo delle cose
di Stefano Lazzarin
Ezio Puglia (1982) fa parte di quella che vorrei chiamare la “scuola bolognese” del fantastico. Perché è un dato di fatto che, da un quarto di secolo a questa parte, i migliori libri sulla letteratura fantastica – e sul fantastico italiano – pubblicati in Italia siano venuti tutti da studiosi che o si sono formati a Bologna, o vi hanno lavorato per lunghi periodi, o entrambe le cose. L’elenco non è lungo, e vale la pena di compilarlo: penso ai nomi di Remo Ceserani (Il fantastico, Bologna, il Mulino, 1996), Vittorio Roda (I fantasmi della ragione. Fantastico, scienza e fantascienza nella letteratura italiana fra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 1996; Studi sul fantastico, Bologna, CLUEB, 2009), Ferdinando Amigoni (Fantasmi nel Novecento, Torino, Bollati Boringhieri, 2004), Angelo M. Mangini (Letteratura come anamorfosi. Teoria e prassi del fantastico nell’Italia del primo Novecento, Bologna, Bononia University Press, 2007), Luigi Weber (curatore insieme a Mangini dell’opera collettiva Il visionario, il fantastico, il meraviglioso tra Otto e Novecento, Ravenna, Allori, 2004 e poi 2006). Ho citato libri che risplendono di fulgida luce nel campo degli studi sul fantastico; alla lista viene ora ad aggiungersi Il lato oscuro delle cose. Archeologia del fantastico e dei suoi oggetti di Puglia (postfazione di Angelo M. Mangini, Modena, Mucchi, 2020, pp. 320), degno erede di quella che può essere descritta, per l’appunto, come una tradizione di studi consolidata e caratterizzata da tratti comuni – uno fra tutti, il rigore storico, teorico, metodologico.
Ma c’è un altro filone critico in cui possiamo inquadrare Puglia, e che va menzionato prima di oltrepassare la soglia del suo libro. Alludo a quei teorici “esclusivi” che, nel dibattito suscitato dalla pubblicazione della famosa Introduction à la littérature fantastique di Tzvetan Todorov (Paris, Éditions du Seuil, 1970), si oppongono nettamente ai teorici “inclusivi”: i primi lavorano su un sistema complesso di categorie generico-modali, come aveva fatto Todorov (che al “fantastico puro” affiancava il “meraviglioso”, lo “strano”, il “fantastico-meraviglioso” e il “fantastico-strano”); i secondi ampliano la definizione di fantastico fino a includervi il fiabesco, la fantascienza, il fantasy, il gotico, l’horror, e alle cinque categorie di Todorov preferiscono una dicotomia vastissima e un po’ annacquata, quella tra “realistico” e “fantastico” (inteso come “non-realistico”, “anti-mimetico”, e simili). Gli “esclusivi” concepiscono il fantastico come un genere o un modo letterario, dalle radici storiche ben precise, e ne fondano la definizione su criteri tematico-formali, cercando di costruire intorno a esso una tassonomia dei modi letterari confinanti; gli “inclusivi” pensano invece al fantastico come a un sentimento, un impulso, un’attività della mente umana: perciò la loro definizione, basata su un criterio essenzialmente tematico, ha di solito carattere metastorico, e intuitivo o funzionale (viene introdotta soltanto per comodità di linguaggio). Ora in questo panorama Puglia si colloca decisamente dalla parte degli “esclusivi”, conferendo al termine “fantastico” un preciso significato storico-letterario e rimanendo in tal modo fedele alla critica intesa come esercizio razionale di comprensione della letteratura (e della realtà): cioè a quel compito che la critica dovrebbe svolgere senza eccezione.
Ma pur inserendosi nella tradizione teorica “esclusiva”, e risultando perciò familiare a chi abbia letto – poniamo – Roger Caillois e Tzvetan Todorov, Remo Ceserani e Lucio Lugnani, il libro di Puglia è al tempo stesso abbastanza sconcertante, perché quella tradizione ridiscute in profondità rivedendone molte acquisizioni fondamentali. Puglia conferisce un significato originale a una serie di rilievi, connessioni ed elementi che ormai credevamo (a torto?) fossero assodati, perfino scontati; di questi elementi muta radicalmente il senso e a volte lo capovolge. Di seguito, esaminerò alcuni esempi di quanto vado affermando.
Forse la prima cosa che si nota inoltrandosi nella lettura del Lato oscuro delle cose è la schietta prevalenza, nell’argomentazione di Puglia, delle idee e delle poetiche degli scrittori sulle teorie dei critici. Non si tratta ovviamente di un ghiribizzo del caso: il fantastico è un genere costitutivamente metaletterario, come è stato sottolineato da molti teorici (basterà ricordare R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 70: “il fantastico, fra gli altri modi e generi letterari, è uno dei più chiaramente autocoscienti”); ciò significa che gli scrittori fantastici si dedicano volentieri a giustificare le proprie scelte, scrivendo prefazioni, introduzioni, note, appunti, veri e propri saggi sul fantastico; e questo (gigantesco) corpus di testi che discutono il significato della categoria fa parte della storia del fantastico proprio come i capolavori di Hoffmann, Poe, Maupassant e Henry James: come negare che il 1830 di Du fantastique en littérature di Nodier o il 1888 di A Chapter on Dreams di Stevenson – tanto per ricordare i primi due saggi che mi vengono in mente – segnino due date decisive nella storia del genere? Se molti studiosi hanno notato l’autocoscienza del fantastico, Puglia le conferisce però una rilevanza inedita, verificandola meticolosamente sui testi con un lavoro di scavo che non credo altri abbia compiuto prima di lui; le conferisce, inoltre, un senso nuovo: studiando gli oggetti del fantastico e il loro “lato oscuro”, infatti, Puglia scopre in essi un’ulteriore manifestazione dell’autoriflessività fantastica. Come osserva l’autore della postfazione al volume, “si può dire che, nell’universo finzionale, il ‘rovescio delle cose’ svolga per il personaggio una funzione molto simile a quella che il testo fantastico intende svolgere nel mondo reale per il lettore” (A.M. Mangini, Postfazione, in E. Puglia, Il lato oscuro delle cose, cit., p. 286): detto altrimenti, è possibile riconoscere negli oggetti auratici e spettrali del fantastico altrettante mises en abyme di questo genere letterario.
La scelta di Puglia di “ascoltare il più possibile gli stessi autori attraverso le cui opere e riflessioni il fantastico, come autonomo genere narrativo, ha preso forma, oltre che alcuni critici loro contemporanei” (p. 10), la predilezione cioè per il “farsi” progressivo della letteratura fantastica, per il suo graduale costituirsi in genere letterario a mano a mano che le opere vengono pubblicate, i giudizi sulle opere formulati, le discussioni e le polemiche accese, ha un’altra conseguenza importante nel libro. Quello di Puglia è un fantastico che non assomiglia più al simulacro teorico, magari geometrico e di cristallina limpidezza, ma fin troppo astratto, dei teorici strutturalisti (Todorov su tutti, ma anche il suo più accanito avversario, il belga Jacques Finné, nonché, in ambito angloamericano, Christine Brooke-Rose: cfr. rispettivamente J. Finné, La littérature fantastique. Essai sur l’organisation surnaturelle, Bruxelles, Éditions de l’Université de Bruxelles, 1980, e C. Brooke-Rose, A Rhetoric of the Unreal. Studies in Narrative and Structure, Especially of the Fantastic, Cambridge, Cambridge University Press, 1981); bensì è un fantastico immerso nella concretezza vivace delle battaglie letterarie, delle prefazioni e dei racconti tradotti e travisati, delle dichiarazioni d’autore e degli scambi intellettuali, anche a distanza d’anni o di generazioni. Nel Lato oscuro delle cose non abbiamo più a che fare con un genere teorico, secondo l’impostazione prevalente nella riflessione sul fantastico dell’ultimo mezzo secolo a partire dalla già citata, e fondativa, Introduction à la littérature fantastique di Todorov; bensì con un genere risolutamente storico: di cui Puglia ricostruisce la vicenda complessa e possiamo ben dire avventurosa con eccezionale sensibilità per le sue connessioni con la storia, la società, la cultura, l’immaginario, il linguaggio e le idee delle varie epoche e aree geografiche. In questo lo aiuta la felice impostazione comparatistica del libro: perché l’autore è un comparatista autentico, non – come ce ne sono tanti oggi – soltanto per modo di dire.
A sua volta, l’immersione nella concretezza del genere storico produce riverberi molteplici: viene da qui, per esempio, un nuovo modo di concepire il percorso storico del genere stesso. Puglia riformula il significato di due categorie introdotte nel dibattito da Remo Ceserani, che possedevano peraltro un’indubbia utilità ermeneutica: il “modo fantastico” e la “fantasticizzazione”. Quella del “modo fantastico” è una piccola rivoluzione che Ceserani lancia, nel campo degli studi sul fantastico, con il suo libro del 1996 (cfr. R. Ceserani, Il fantastico, cit.), ma già in un importante articolo uscito a metà anni Ottanta (cfr. R. Ceserani, Le radici storiche di un modo narrativo, in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, Pisa, Nistri-Lischi, 1983, pp. 7-36). Per ovviare agli eccessi teorici dei suoi predecessori – soprattutto Todorov, che aveva ristretto fino all’inverosimile il canone del “fantastico puro”: “[s]i un conte fantastique est un récit où l’hésitation entre explication rationnelle et explication surnaturelle se maintient en dernière page”, nota spiritosamente il già menzionato Finné, “la littérature universelle n’en possède pas assez pour former un genre” (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 31) – Ceserani propone di considerare il fantastico non come un genere letterario, bensì come un modo: cioè una categoria più ampia e flessibile, dai confini meno rigidi di quelli del genere perché meno codificata del genere. Il fantastico avrebbe insomma il medesimo statuto del comico, del tragico, del patetico o dell’elegiaco; il modo assumerebbe poi varie forme di genere: così, per esempio, potremmo parlare di romanzo fantastico, racconto fantastico, ballata fantastica, e perfino di sinfonia fantastica (una ne scrisse il musicista francese Hector Berlioz, la Symphonie fantastique del 1830); in tutti questi casi il nome indica la determinazione di genere, l’aggettivo quella modale. Nel Lato oscuro delle cose Puglia attribuisce alla categoria ceseraniana un senso nuovo: il modo è la posterità del genere. Dopo essere “stato in auge per poco più di mezzo secolo”, il fantastico avrebbe cominciato “a decomporsi, a sgretolarsi”: nel Novecento si sarebbe diffuso “verso la periferia di un sistema letterario dominato dai modelli anglo-francesi”, invadendo tutte le letterature mondiali e contemporaneamente disseminandosi, sotto forma di “frammenti sparsi”, in tutto il sistema letterario (p. 227). Questo fenomeno, che Puglia definisce “trascolorare da genere a modo”, ci consente di continuare a “parlare di un fantastico posteriore alla crisi di fine Ottocento: il fantastico novecentesco va messo in relazione con il disgregamento e la disseminazione del genere storico” (p. 228). Se dunque Ceserani insisteva sull’origine tardo-settecentesca della letteratura fantastica, sottolineando come “[e]lementi e atteggiamenti del modo fantastico, da quando esso è stato messo a disposizione della comunicazione letteraria, si ritrovano con grande facilità in opere di impianto mimetico-realistico, romanzesco, patetico-sentimentale, fiabesco, comico-carnevalesco, e altro ancora” (R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 11), per Puglia il fantastico nasce come genere e soltanto quando “il genere si esaurisce e si trasforma in altro da sé” (p. 228) assume le sembianze riconoscibili di un modo letterario. Questo spostamento in avanti della periodizzazione del modo – dalla svolta storica di fine Settecento-inizio Ottocento, su cui insisteva Ceserani, alla frattura anch’essa epocale che separa l’Otto dal Novecento – induce Puglia a collegare strettamente la nozione di “modo” al fenomeno della “fantasticizzazione”. Ceserani aveva coniato quest’ultima categoria ispirandosi alla “romanzizzazione” indagata da Bachtin: nell’Ottocento il fantastico si troverebbe, rispetto agli altri generi e modi letterari, in una posizione egemonica, simile al “dominio del romanzo su tutte le altre forme letterarie nel mondo moderno, a partire dal Settecento”, di cui parla il grande studioso russo (R. Ceserani, Il fantastico, cit., p. 101); il successo prodigioso che arride al récit fantastique suscita un fenomeno di ibridazione nei generi non-fantastici, per cui opere appartenenti, ad esempio, al modo mimetico-realistico assumono elementi – temi, forme, strutture – che sono tipici della letteratura fantastica. Puglia riprende tale e quale questa analisi, ma di nuovo, la sposta a valle, dopo la fine del genere storico e la disseminazione o lo sgretolamento di cui si è detto in precedenza: “in un secolo che non crede agli spettri, gli spettri non si dissolvono ma si insinuano in contesti inaspettati manifestando la loro presenza nel linguaggio e nel pensiero, la loro capacità […] di coagulare e manifestare quel lato oscuro delle cose nel quale l’io coglie la rivelazione, a cui il nostro tempo ha restituito straordinaria e bruciante attualità, della propria impotenza e vulnerabilità di fronte al mondo che vorrebbe dominare, della finale inconsistenza di ogni pretesa sovranità del soggetto sugli oggetti che lo circondano e finiscono per sopraffarlo” (p. 289). Così, la “fantasticizzazione” di Ceserani diventa la chiave di volta di una nuova interpretazione del rapporto fra tradizione ottocentesca e novecentesca: una delle cruces, forse quella maggiormente problematica, della discussione teorica intorno alla letteratura fantastica.
La volontà di rimanere solidamente ancorato alla storia del fantastico otto-novecentesco induce inoltre Puglia a ridiscutere il canone del genere, al quale apporta leggere ma significative modifiche: nel campo della letteratura italiana, ad esempio, Papini si guadagna un posto di assoluto rilievo, che non molti studiosi erano stati finora disposti a riconoscergli (cfr. pp. 229-233). Una delle modifiche di cui sopra, del resto, non è tanto leggera, anzi; la torsione impressa da Puglia alle categorie precedentemente ammesse fa vacillare sul suo piedestallo nientemeno che l’autore considerato da generazioni di colleghi scrittori e poi di studiosi come il fondatore, o per lo meno il primo indiscusso maestro, del fantastico ottocentesco: Ernst Theodor Amadeus Hoffmann. Per Puglia, Hoffmann non è fantastico: un’asserzione sorprendente, che merita qualche parola di spiegazione. Cominciamo col sottolineare che questa opinione di Puglia ne riecheggia un’altra, famosa e controversa: quella di Todorov secondo cui Edgar Allan Poe, alter ego di Hoffmann e inquilino anch’egli del cuore bifronte del canone ottocentesco, non sarebbe, in realtà, un autore fantastico. “D’une manière générale”, aveva rilevato il teorico franco-bulgaro, “on ne trouve pas dans l’œuvre de Poe de contes fantastiques, au sens strict, à l’exception peut-être des Souvenirs de M. Bedloe et du Chat noir. Ses nouvelles relèvent presque toutes de l’étrange, et quelques-unes, du merveilleux” (Tz. Todorov, Introduction à la littérature fantastique, cit., p. 54). In nome della storia, Puglia capovolge intenzionalmente – e con piena ragione – l’opinione di Todorov: “Poe, un autore spinoso per tutti coloro che hanno cercato di elaborare una definizione teorica del fantastico […], al genere storico può essere aggregato senza problemi” (pp. 10-11). Ma poi, sempre in nome della storia (e però con un ragionamento che il recensore non si sente di approvare), lo stesso Puglia mette al bando, come si è detto, il grande predecessore dell’americano: “A rigore, la letteratura di Hoffmann, compresi quei testi che di solito vengono riconosciuti come l’incarnazione più pura del fantastico, non può essere inclusa all’interno del genere storico. La ragione è banale: il fantastico non esisteva ancora al tempo in cui Hoffmann scriveva quelle opere che erano destinate a diventare prototipi di una nuova tipologia narrativa” (p. 10). È, mi sembra, un bel paradosso: a forza di storicizzare, Puglia finisce con il raggiungere gli esiti aporetici di chi invece, della storia letteraria, faceva “cavalièrement litière”, almeno se sottoscriviamo le accuse che a Todorov rivolge il solito Finné (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 34). Laddove Todorov, cedendo a “cet enchantement que procure la radicalité” (Tz. Todorov, Devoirs et délices. Une vie de passeur, entretiens avec C. Portevin, Paris, Éditions du Seuil, 2002, p. 112), aveva decretato l’espulsione di Poe dal canone, il giustissimo scrupolo di Puglia per i contesti storici della letteratura spinge lo studioso italiano a staccare dal muro, nella galleria di ritratti del fantastico europeo, quello che riproduce le fattezze di Hoffmann: seguendo percorsi diversi e anzi opposti, lo strutturalista e lo storicista finiscono per convergere nell’ostracismo ai danni di uno dei due maestri unanimemente riconosciuti del secolo d’oro del fantastico. Non sarebbe più sensato – questo il parere di chi scrive – lasciare entrambi al loro posto, visto che non abbiamo argomenti davvero decisivi per rettificare il giudizio di un paio di secoli di letteratura e di critica? A chiudere il cerchio del paradosso, annoto qui che il più volte citato Finné – acerrimo fustigatore, come si è visto, di Todorov, ma da una postazione di fatto interna allo strutturalismo – aveva anticipato l’opinione di Puglia su Hoffmann, definendo quest’ultimo “le moins fantastique de tous les conteurs allemands” (J. Finné, La littérature fantastique, cit., p. 185): in altri termini, il medesimo amor di storia persuade Puglia a dissentire su Poe dallo strutturalista Todorov e, viceversa, a consentire (credo inconsapevolmente) su Hoffmann con lo strutturalista Finné; i casi strani della teoria del fantastico!
Sarebbe poco opportuno chiudere questo resoconto senza accennare a un altro aspetto fondamentale e innovatore del libro di Puglia: l’attenzione agli oggetti che lo pervade in ogni pagina. Finora si sapeva, sì, che l’oggettualità del fantastico era importantissima; ma lo si sapeva quasi esclusivamente grazie al saggio di Lucio Lugnani sugli oggetti mediatori e al volume di Francesco Orlando sugli oggetti desueti: ovvero due ricerche di grande valore e due topoi assolutamente decisivi, ma per l’appunto soltanto due (cfr. rispettivamente L. Lugnani, Verità e disordine: il dispositivo dell’oggetto mediatore, in R. Ceserani et alii, La narrazione fantastica, cit., pp. 177-288, e F. Orlando, Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura. Rovine, reliquie, rarità, robaccia, luoghi inabitati e tesori nascosti, Torino, Einaudi, 1993, seconda edizione riveduta e ampliata presso lo stesso editore nel 1994). Puglia invece – pur rifuggendo dalla casistica, e avvisando il lettore che nel suo libro non si troverà nessun “elenco esaustivo delle cose auratiche e spettrali del fantastico ottocentesco” (p. 12) – ci fa discernere e apprezzare i mille volti, spesso affascinanti, delle cose descritte nei racconti e nei romanzi fantastici: oggetti inquietanti, assurdi, erotici, da collezione; feticci, reliquie, indizi, rifiuti; oggetti surreali, alieni, spettrali e auratici (secondo la bipartizione principale, abbozzata alle pp. 11-12); e via di seguito. E grazie al punto di osservazione particolare – ed estremamente fecondo – costituito dalla rappresentazione letteraria degli oggetti, getta nuova luce su molti capolavori del fantastico otto-novecentesco che ci illudevamo di conoscere a menadito.
Si sarà notato, per inciso e anche per concludere, che l’autore del Lato oscuro delle cose, parlando deliberatamente di teoria il meno possibile e soltanto quando non si poteva evitare di farlo (cfr. p. 9), giunge ugualmente a ridiscutere quasi tutti gli snodi fondamentali, e i più problematici, della teoria contemporanea del fantastico. Anche questo, forse, è un paradosso: ma ben vengano certi paradossi, che sono sintomo di vitalità.
Buongiorno,
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Luca
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