Overbooking: Federico Nobili
Nota
di Marco Rovelli
Enigma del Metodo Erodoto è un libro de-genere, non è poesia, non è un romanzo, non è filosofia, non è un saggio, ma tutte queste cose insieme, al limite (ma al limite, appunto). È prosa, questo si può dire, e, forse, si può anche dire che sia anche autobiografia, ma nei termini cartografici che diremo. Anche l’autore, dunque, è un autore de-genere: Federico Nobili depone il suo nome e si fa Fred Biondina.
Metodo Erodoto: un’indagine geografica, senza inizio né fine, una catabasi che precipita in un catapumfete (che è l’ultima parola del libro), ma l’ultima volta non arriva mai, la fine é ricorsiva e non fa che tornare, a un inizio che non c’è, é una fine che non finisce, fallisce semmai, precipita in un precipizio senza fine e resta a mezz’aria, come un will coyote che diventa munchausen, (ac)cade come sempre é (ac)caduto, resta lì, nel tempo che resta, che é quello dove non c’è tempo, ma spazio, lo spazio da indagare con una catabasi geografica.
È un metodo che fa mappa, una mappa sempre revocabile, sempre rinnovabile, esauribile. Come l’energia. Che é atto: atto senza potenza (m/atto!) , azione senza gesto (st/azione, via ex crucis).
La mappa é una maschera, che non maschera nulla. Fuori dalla maschera c’è il nulla. Ed é per fuggirlo (per fuggire qualcosa che non c’è, e che spaventa, tremendo, per il suo non esserci) che si chiama qualcosa all’essere, che lo si convoca al gioco dell’essere, questo é il problema, che non fa problema ma enigma.
L’essere scivola, diceva il Georges Bataille, e anche lui viene convocato in questa indagine in scivolata, con tanti altri, in questo coro di folli scivolanti, sghembi, buffi di cuore.
Scivolare per tracciare un autoritratto: dipingere il passaggio, scriveva Montaigne nel suo autoritrarsi imperfetto: auto/ritrarsi, certo, forma eccellente di s/velamento. E qui infatti ti auto/ritrai, senza parlare di te, lasciandoti emergere come emergono le isole vulcaniche dal mare (il Gesuvio di Bataille! Emergono i ricordi…), la mappa/maschera è arcipelagica. Emergono memorie, nel farsi della mappa, il trauma del Reale che la s/colpisce: il cuore, la madre, la morte. Questo è il cuore della mappa, il cuore sparso, il cuore che giace rossastro sulla strada e un gatto se lo mangia tra gente indifferente – ma non sono io, sono gli altri. Il disfacimento di ogni cosa, del mondo, dell’essere; come in Dick: è il disfacimento della vitamorte, ed è lo stesso disfacimento delle parole che scivolano fuori di se stesso, che è il modo di dirsi, di auto/ritrarsi, lasciando s/parlare le parole, facendole giocare, giocandole al limite di se stesse. Le parole esplodono come la vita. E tracciano una forma che è la forma stessa della vitamorte, del suo essere tragedia, che è il rovescio del comico, ma soprattutto viceversa. La maschera di Joker, verso cui convergono molte pagine dell’Enigma, è la cifra assoluta di questa forma.
Giocare, giocarsi. Il gioco in questo auto/ritrarsi è un rito apotropaico, un bimbo dagli occhi in fiamme si ripara dal suo spavento di fronte alla vitamorte, invocando girotondi, nenie, ninnananne, per tenersi sveglio mentre dorme. Chiede al suono di tener desto lo Stupor Mundi, sempre a un passo dal suo rovescio Stupro Mundi.
Gioca, il bimbo dagli occhi in fiamme, gioca se stesso per ripararsi anche dalla primordiale difesa umana dal caos e dalla morte, la difesa corticale della logica: e allora canta, un incessante ritornello, incessanti variazioni sul tema, un esorcismo per niente e per nessuno, una maschera che fiorisce nel cuore della tragedia. Immaginando di vedere la corona di spine del mondo dal punto di vista dello spazio vuoto, da quell’alto in cui non c’è più alto né basso da dove quella corona mostra la forma di una rosa canina, di un vino, di un incendio.
Così, poi, un messaggio nella bottiglia (infinitamente svuotata del suo vino che scorre senza fine) ci fa incontrare in un mancamento infinito, del resto l’origine consiste nel manque, e non finiamo mai di mancarci in questa consistenza, insistendo a mancarci nell’infinito inseguimento della tartaruga – l’unica che conti, nel propizio mancamento di quelle dei palestrati e dei neofasci, anche se appunto il suo contare sprofonda nell’infinita divisibilità – che in quanto tale non si converte mai in condivisibilità, per quanto, ancora, anche in questo, non cessiamo di provare, e fallire.