The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)
di Riccardo Valsecchi – @inoutwards
“Dal momento che l’uomo bianco, il vostro “amico”, vi ha privato del vostro linguaggio sin dai tempi della schiavitù, l’unico linguaggio che conoscete è il suo linguaggio. Intendo, il linguaggio del vostro “amico”. Infatti invocate Dio con lo stesso termine con cui anch’egli lo invoca. Sicché, quando il bianco vi mette il cappio al collo, voi implorate Dio, ed anch’egli implora lo stesso Dio. Provate ad immaginare perché quello che implorate voi non risponde mai.”
Malcolm X, 14 febbraio 1965, Detroit, Michigan.
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LE PRIME LUCI DELL’ALBA
Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. Una caldissima ed afosa giornata risplende tra i palazzi moderni che si affacciano sul porto vecchio. A pochi minuti di distanza, dentro l’edificio che qui chiamano semplicemente Garden, costruito ad immagine e somiglianza del Madison Square Garden di New York, è una bolgia infernale. Dall’alto, sopra le teste dei giocatori, sfilano i 16 stendardi con trifoglio irlandese che ricordano gli altrettanti titoli nazionali vinti dalla squadra di casa, i campioni in carica dei Boston Celtics. Ad introdurre l’entrata degli avversari solo i buu della folla inferocita. Non è affatto una sorpresa. Si tratta dei Detroit Pistons, aka Bad boys, la franchigia più odiata della lega, che si è fatta strada fino alla finale della East Conference a suon di falli, risse, multe ed una difesa dura, rocciosa, cattiva.
Silenzio. Dagli altoparlanti si diffonde nell’arena l’inno americano:
“O say can you see, by the dawn’s early light,
What so proudly we hail’d at the twilight’s last gleaming?”
(Di’, puoi vedere alle prime luci dell’alba
ciò che abbiamo salutato fieri all’ultimo raggio del crepuscolo?)
Il crepuscolo. Chissà che cosa passa per la testa al mingherlino, nella pallacanestro dei giganti, Isiah Thomas. Sarà questa partita la fine di tutte le frustrazioni e l’inizio di una nuova alba? La mente torna indietro nel tempo, una notte d’estate del 1966.
West Side, il quartiere più povero e decadente di Chicago. La famiglia Thomas vive al primo piano di un edificio in Congress Street, proprio dirimpetto alla superstrada. Papà Isiah Senior se ne è andato da tempo; mamma Mary si arrangia come può, lavora alla mensa presso la basilica di Santa Maria Addolorata, sul West Jackson Boulevard. I problemi non mancano. È un’impresa crescere da sola nove bambini nella zona più degradata della città. Isiah, il più piccolo, ha solo cinque anni, ma è già così bravo con la palla a spicchi da riuscire a portare a casa qualche dollaro esibendosi con acrobazie, palleggi a velocità supersonica e canestri dalla distanza durante gli intervalli delle partite del campionato parrocchiale. Sempre che quei soldi non vengano requisiti dai fratelli più grandi, per poi, da lì, finire direttamente nelle tasche degli spacciatori di eroina che infestano il quartiere. Per la verità, c’è un uomo che sta cercando di combattere tutto questo degrado: il suo nome, Fred Hampton, ad Isiah è familiare perché è il portavoce delle Black Panthers, di cui sua madre fa parte. Nei controversi e sovversivi anni ‘60, pur appartenendo ad un gruppo, le Pantere Nere, che i media continuano a descrivere come il corrispondente nero dei suprematisti bianchi, Fred è convinto che se il razzismo fosse inquadrato in una discussione politica, piuttosto che etichettato come mera ignoranza, allora ci sarebbe margine per creare, nella povera e dimenticata West Side, una coalizione di persone, esseri umani, che non si distinguono per il colore della pelle, piuttosto per la mancanza di rappresentazione politica e tutela legale. Proprio per queste idee “sovversive”, a cui Fred ha trovato un nome, Rainbow Coalition, ed un seguito perfino nelle gang locali che infestano la città, radunando attorno a se neri, brownies, perfino whites abbandonati da una società che non concede nulla a chi non si adegua alla dura e tremenda legge del dollaro, Hampton verrà ucciso il 4 dicembre 1969 in una retata della polizia che oggi sappiamo essere stata organizzata dall’FBI con lo scopo di mettere a tacere una delle menti più brillanti dell’attivismo afro-americano.
Ma in questa sera d’estate del 1966, il piccolo Isiah, che ha solo cinque anni, non sa nulla di politica, capisce solo il linguaggio della fame, la pulsazione intermittente che gli lacera lo stomaco. Bussano alla porta. Mamma Mary apre. Di fronte si trova un’intera sezione dei Vice Lords, la famigerata banda criminale che conta più di 30 mila affiliati per le strade di Chicago. Collane d’oro, pistole e fucili luccicano sotto i lampioni della strada. È giorno di reclutamento. “Draft Day”, così lo chiamano nel ghetto.
“Vogliamo i tuoi ragazzi,” esclama il capo. “Non possono gironzolare qui intorno senza appartenere ad alcuna banda.”
Mary è una donna risoluta: dopo nove parti, la fuga del marito, e tutte le dannate manganellate della polizia durante le manifestazioni per i diritti civili, non si fa certo intimorire facilmente. Guarda il criminale fisso negli occhi, per un istante infinito: “C’è solo una banda da queste parti, si chiama la banda dei Thomas, e la comando io.”
Il capo dei Vice Lords si gira verso i compagni, scoppia a ridere. Poi, aggressivo, incalza di nuovo: “Se non ci porti tu i ragazzi, ce li pigliamo noi per la strada.”
Potete sentire il battito frenetico, il respiro affannato, la paura di un bimbo di cinque anni? Ed il terrore di una madre a cui stanno minacciando di portare via i propri figli?
Mary sbatte la porta. I criminali non desistono, cercano di abbatterla a calci. Lei attraversa il soggiorno, dove i bambini si sono stretti in cerchio spaventati. Isiah la guarda attonito mentre la madre entra nella stanza da letto. Poi la vede uscire con un oggetto con una lunga canna in ferro, ripercorrere la stanza fino all porta d’entrata, spalancarla rapidamente, il tempo di puntare l’arma contro la fronte del pezzo di… : “Sparisci dalla mia vista o spalmo le tue cervella sulla strada.”
Isiah ascolta le parole di sua madre in silenzio. Un silenzio confuso, frastornato da pensieri troppo voluminosi per un bambino della sua età. Qualsiasi cosa succeda, nulla potrà mai essere lo stesso. Poi, tutto ciò che sente è il rombo delle moto che si accendono e spariscono nella notte. Quel suono, e quelle pulsazioni, si confondono oggi con l’assordante rumore degli inferociti tifosi avversari intorno. Non è la stessa cosa. Nulla è stato più, da quel giorno, la stessa cosa.
È tempo per Isiah di aprire gli occhi, l’arbitro sta richiamando i giocatori dei quintetti base in campo. Tra pochi istanti lancerà la palla al cielo e… Isiah lo sa, è un confronto senza storia, i Celtics non perdono in casa contro i Pistons da 18 partite.
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PERVASIVO
Che anno, il 1987! Lo scandalo della rivelazione di un network occulto, operato dalla CIA, che ha venduto armi all’Iran degli Ayatollah per finanziare gruppi paramilitari controrivoluzionari in Nicaragua, minaccia la credibilità del governo del presidente-attore Ronald Reagan. Dall’altra parte della cortina di ferro, il prestigio dell’Unione Sovietica vacilla inerme sotto le ripercussioni dell’esplosione, nell’aprile dell’anno precedente, del reattore RBMK 1000 della centrale nucleare di Chernobyl; ma anche grazie ad un aviatore amatoriale tedesco che, in cerca d’attenzione mediatica, nel maggio di questo pazzo 1987, viola indisturbato l’ultra-impenetrabile muro di difesa aerea sovietico spingendosi fino ad atterrare, incolume, sulla piazza Rossa, di fronte al Cremlino. Il mondo intero, inoltre, è devastato dal virus dell’immunodeficienza (HIV), il quale, apparso all’inizio del decennio, è diventato, per via della trasmissibilità attraverso rapporti sessuali ed ematici, motivo di rinnovate stigmatizzazioni di genere. Tant’è che subito dopo la visita nel settembre del 1987 del Papa Giovanni Paolo II a San Francisco, durante la quale il pontefice, secondo un copione creato ad arte, compie lo storico gesto di prendere in braccio un bambino “infetto”, il prefetto della Congregazione per la dottrina cattolica, Joseph Ratzinger, si affretta a rilasciare una lettera in cui etichetta l’omosessualità come “patologia oggettiva” e l’uso dei preservativi come “strumento di facilitazione del diavolo.”
Ma il 1987 è anche l’anno di “Platoon” di Oliver Stone, che si aggiudica quattro Academy Awards; dell’iconico “Bad” di Michael Jackson; del leggendario “Who’s That Girl Tour” di Madonna, a cui fa seguito un famoso video album dal titolo tricolore “Ciao Italia: Live in Italy”; e di un altrettanto teatrale discorso pronunciato a Berlino dal presidente americano Ronald Reagan, in cerca di riscatto dopo lo scandalo Iran-Contra: “President Gorbachev, tear down this wall; Presidente Gorbachev, tiri giù questo muro,” riferendosi all’infame muro che divideva allora la città simbolo della Guerra Fredda.
Il 1 gennaio 1987, però, le prime pagine dei giornali americani sono dedicate a tutt’altro che i festeggiamenti per lo storico ed emozionante anno a venire.
Siamo ancora nel 1986, mancano 11 giorni alla fine dell’anno e tre giovani, Michael Griffith, 23 anni, Cedric Sandaford, 36 anni, e Timothy Grimes, 20 anni, stanno camminando nei pressi di Howard Beach, una zona del Queens, New York, abitata per lo più da italo-americani. Si trovano di fronte alla New Park Pizzeria, stanno ordinando un trancio di pizza, quando un gruppo di bianchi li circonda. Partono battute infime, versacci derisori, insulti razzisti. Michael protesta, parte il linciaggio. I tre fuggono. Una macchina scura li insegue. Timothy riesce a fuggire, ma Cedric e Michael rimangono bloccati in un vicolo, fino a quando li raggiunge la folla. Michael si dimena, Cedric tenta di difendersi dopo che un mazza da baseball gli ha fracassato il bulbo oculare. Non è come un film, dove ogni frame può essere congelato all’infinito. Ogni istante significa sopravvivenza. Michael riesce a sottrarsi alla presa dei suoi avventori; scappa, attraversa il cavalcavia che si affaccia sulla tangenziale, una macchina blu scura lo investe, muore sul colpo. Il guidatore, Dominick Blum, bianco, si dà alla fuga. Un’ora dopo ritorna sulla scena dell’incidente. Giura di avere pensato d’avere tirato sotto un animale: per questo non si è fermato. I residenti della zona, accorsi incuriositi dalle sirene, ridono. Qualcuno fa il verso della scimmia. C’è chi dice che quella macchina blu scura alla cui guida si trovava Dominick “sembra proprio essere la stessa auto blu scura che inseguiva i tre n-”. Lo annota anche un poliziotto. Cedric, che non vede più nulla e gronda di sangue, viene condotto presso il locale 106° distretto di polizia. Si lamenta, chiede di essere portato all’ospedale, l’ufficiale di sevizio grugnisce: gli urla di stare zitto, non riesce a sentire la radiocronaca della partita di football americano tra i New York Giants ed i Green Bay Packers. Non è un’invenzione degli avvocati di Cedric; le imprecazioni del poliziotto vengono registrate dai circuiti di sorveglianza.
Colonna centrale della prima pagina del New York Times, data primo gennaio 1987: “23 black leaders and Koch – allora sindaco di New York – attack the pervasive racism.”
“Pervasive racism.” Il razzismo pervasivo. Dal Treccani, “pervasivo, che tende a diffondersi ovunque: odore; che pervade, che prende l’animo o la mente in modo completo: sentimento.”
Odore, sentimento. Qualcosa di biologico, qualcosa di affettivo, inesorabilmente umano. Una banale sottigliezza semantica che nasconde una questione di enorme rilevanza: è il razzismo pervasivo, una forza irresistibile che si insinua in maniera subdola ed inconscia? Oppure è sistemico, è l’espressione e lo strumento violento per l’attuazione di un piano di potere che basa la sua legittimazione sulla reiterazione di orribili e criminose logiche schiaviste e colonialiste del passato — e, da non sottovalutare, trova la scusante della sua aberrante dialettica in una vaga ed imprecisata irrazionalità della natura umana? Ma chi, allora, è colpevole di questa pervasiva irrazionalità? Chi la attua, chi la giustifica, o chi ne trae vantaggio e silenziosamente ne minimizza le conseguenze?
Il sindaco Koch è allibito. “New York non è il profondo sud,” dichiara esterrefatto in conferenza stampa. Assicura che giustizia sarà fatta, ma la polizia ed il procuratore John J. Santucci sostengono che non ci sono prove sostanziali. Portano Cedric, che, ricordate, ha perso la vista per le botte subite, di fronte a una fila di uomini bianchi, chiedendo di riconoscere gli assalitori. Il poveretto non vede, non riconoscerebbe neppure sua madre. Nessuno viene ancora arrestato.
È qui che sale alla ribalta della cronaca un uomo che rivoluzionerà la scena dell’attivismo newyorkese dei successivi trent’anni. Lo definiscono il Martin Luther King del Nord, ma del Dr. King non ha l’impeccabile pazienza e flemma, anche se ne ha assimilato la retorica ed il dono della parola evocatrice. Non ha neppure il fascino ed il carisma di Malcolm X, ma è cresciuto a New York, e della Grande Mela ha la sfrontatezza e modernità. È piuttosto grasso, indossa una colorata tuta da ginnastica, ed ha una capigliatura alla James Brown, in ricordo dei 10 anni passati come tour manager del padrino della soul music. Si chiama Alvin Sharpton, reverendo Al Sharpton, ed è lo stesso uomo che, 50 kg in meno, reciterà l’omelia al funerale di George Floyd, soffocato a morte da un poliziotto il 25 maggio 2020 a Minneapolis.
In quel primo gennaio del 1987, il sindaco Koch organizza una riunione con i leader delle associazioni per i diritti civili, i quali gli garantiscono sostegno nella lotta a questo razzismo “pervasivo” ed epidemico, nonostante il fallimento delle indagini sul caso Griffith. Sharpton denuncia la riunione come una “pagliacciata”. Koch ride, di fronte ai media gli affibbia il nomignolo di “Al Ciarlatano”.
Sharpton non è un ciarlatano, piuttosto uno che va dritto al dunque. Il razzismo non è un’epidemia, non casca dal nulla; è un sistema di preservazione del potere. Non sono razzisti solo i ragazzi bianchi che hanno assalito Michael, Cedric e Timothy. Razzisti sono i poliziotti giunti sulla scena dell’incidente che “dimenticano” di arrestare l’autista della vettura per omissione di soccorso; razzista è il poliziotto che lascia Cedric, sanguinante, ad aspettare nella sala d’attesa del distretto di polizia, perché deve finire di ascoltare la partita alla radio. Razzista è la folla che chiama “n-“ i manifestanti accorsi da tutta New York per protestare. Razzista è l’amministrazione della Grande Mela ed il procuratore Santucci nel momento in cui balbettano assurde scusanti per giustificare il mancato arresto dei colpevoli. Che cosa dire poi di Benjamin Ward, il primo capo della polizia di New York afro-americano, eletto da Koch giusto un paio d’anni prima proprio a seguito dell’uccisione di un altro nero, l’artista Michael Stewart, 25 anni, massacrato mentre in custodia della polizia? “Ward is our color, but he is not our kind,” risponde Sharpton. Ha il nostro colore, ma non è del nostro genere. Ognuno di questi personaggi è un attore nello schema di preservazione del potere bianco. Chiunque partecipi, consapevolmente od inconsapevolmente, all’affermazione di un potere basato sul pregiudizio razziale, è razzista. Nessuno escluso.
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NERO CONTRO BIANCO, BIANCO CONTRO NERO
Boston, Massachusetts. 29 maggio 1987. Boston Celtics contro Detroit Pistons. Gara sette della finale della East Conference, l’ultimo gradino prima della sfida finale per aggiudicarsi il titolo di World Champions. La partita procede punto a punto. Alla fine del primo quarto Detroit è in vantaggio di 7 punti, a metà tempo di uno solo, 56 a 55; alla fine del terzo quarto, le parti si invertono, Boston è avanti di uno. Isiah Thomas, la star di Detroit, ce la mette tutta, ma i Celtics hanno dalla loro esperienza, mentalità, ed una squadra ricca di eccellenti talenti, tra cui un biondo dagli occhi azzurri che in questo momento sembra imbattibile: Larry Bird, ribattezzato, da queste parti, “the great white hope”, la grande speranza bianca.
Bird non corrisponde affatto all’immagine che i media ed i tifosi gli affibbiano. Fuori dal campo non parla molto, quasi per nulla. Viene da una famiglia poverissima, ed il padre, un reduce della guerra in Corea, si è suicidato quando Larry aveva 18 anni.
Fin da ragazzino è un giocatore straordinario. Appena maggiorenne, il leggendario allenatore dell’Indiana University Bobby Knight lo recluta per la sua squadra di basket con una borsa studi completa. Nessuno, nella famiglia Bird, era mai andato al college. Ventiquattro giorni dopo Larry fugge dal campus e ritorna a casa. Trova lavoro come tagliaerba, poi come netturbino. L’ambiente del college lo disturba. I bianchi dell’università non sanno giocare a basket, per lo meno non alla pallacanestro che piace a lui. Sono educati, si lamentano per ogni contatto, non hanno la grinta degli afro-americani. E l’allenatore, Knight, non è compatibile con l’introverso Larry. Per Knight lo sport è disciplina: per Larry il basket è l’unico dannato modo per togliersi dalla testa l’immagine del volto di suo padre sfigurato dal proiettile con cui si è tolto la vita. Il basket che ama è quello che gioca al campetto nel dopolavoro con un gruppo di colleghi neri di una decina di anni più grandi. Con loro condivide la rabbia interiore di un’esistenza in cui nulla va per il verso giusto.
Sul campo, il timido Larry è una parlantina continua, una provocazione dopo l’altra. È cattiveria e spietatezza allo stato puro. Un maestro nell’arte del trash talking, ovvero insultare l’avversario fino a quando questi non perde la pazienza… e la concentrazione. Il tizio di fronte si prepara per il tiro, Larry gli ricorda che non ha fatto ancora un canestro, quello s’innervosisce, sbaglia, la palla finisce nelle sue mani, che, boom, la infila di nuovo. Un classico che si ripeterà negli anni a venire.
Alla fine, grazie all’insistenza della madre, finisce per accettare l’offerta dei Sycamores dell’Indiana State University, una squadra universitaria minore che non ha mai vinto nulla. Con Larry, i Sycamores vincono 33 partite di fila ed approdano alla finale nazionale. Ad attenderli, in quella che ancora oggi è la partita di basket universitaria con il più alto sharing televisivo di sempre, i Michigan State Spartans di un altro formidabile giocatore, destinato a condividere con Bird la platea dell’Olimpo del basket per il decennio successivo: Earvin Magic Johnson. È la sfida del decennio: questi due, benché sbarbati ventenni che giocano in una lega amatoriale – i giocatori universitari non possono essere pagati negli Stati Uniti -, hanno già accumulato più copertine ed interviste di tutte le star professioniste di tutti gli altri sport messi insieme. Al di là del talento speciale, c’è un motivo ben preciso. Quel 26 marzo del 1979 l’America crede di potersi riappacificare con i soprusi razziali perpetrati per oltre tre secoli spostando la contesa sui campi da basket: bianco contro nero, Larry Bird versus Magic Johnson. Per la cronaca, la prima va a Magic, che con i suoi Spartans domina la finale per 75 a 64.
Nel giugno del 2019 l’attore Samuel Jackson, introducendo sul palco Larry Bird e Magic Johnson per l’assegnazione del prestigioso Life Achievement Award, equamente attribuito ad entrambi, chiuderà il discorso con queste parole: “Prima di questi due, il basket era un bellissimo sport; con loro è diventato una religione.”
Niente di più vero. Quando Larry ed Earvin entrano nel mondo professionistico, la National Basketball Association (NBA) è sull’orlo della bancarotta. Il bilancio della maggior parte delle squadre è in rosso, si vocifera che negli spogliatoi giri tanta cocaina, le tribune sono mezze vuote, e gli sponsor non se la sentono di investire in uno sport giocato prevalentemente da afroamericani.
Bird e Magic, che sono stati ingaggiati da due team agli estremi opposti del continente, rispettivamente i Boston Celtics ed i Los Angeles Lakers, dominano la competizione, aggiudicandosi quasi ininterrottamente durante la decade successiva tutti i maggiori trofei individuali e di squadra. In questi anni Ottanta, sono lo yin e yang della NBA, ma anche dello sport mondiale; la loro rivalità diventa uno spettacolo mediatico senza precedenti, che, velato da un fasullo spirito di competizione decubertiano, va dritto al nocciolo della questione razziale. La Converse ne fa addirittura uno spot pubblicitario: una limousine arriva nella piccola cittadina di French Lick, cala il finestrino posteriore ed appare il volto sorridente di Magic che sfida Bird e le sue Converse Weapon nere contro le nuove Converse Weapon giallo-viola del giocatore dei Lakers. I colori si confondono, ma il significato rimane sempre lo stesso: nero contro bianco, bianco contro nero. In realtà lo spot diventa l’occasione per un’incredibile amicizia, ma questo è il backstage, di cui nessuno è a conoscenza, perché, sul campo, i due continuano a fare finta di odiarsi. E proprio questa rivalità, nata sul filone narrativo della tensione razziale, anche in Europa sempre più preponderante a seguito dei nuovi flussi migratori dal continente africano, diventa il marchio d’esportazione della NBA, che, in pochi anni, da lega sportiva nazionale, si trasforma in circo mediatico globale con introiti multimiliardari. Gadget, felpe e giubbetti con i loghi dei Celtics e dei Lakers invadono i negozi sportivi di tutto il mondo, dall’Asia all’Europa. Vent’anni prima del digitale satellitare, la NBA è già uno show trasmesso in diretta sui canali televisivi di tutto il pianeta. Il volto rotondo e sorridente di Magic contro quello tagliente e serioso di Bird contagiano anche l’Italia, dove la pallacanestro ha più acchito che negli altri Paesi dell’Europa Occidentale. L’Italia, infatti, è la destinazione preferita di alcuni ottimi ex giocatori NBA che decidono di concludere qui la propria carriera, incentivati da un discreto livello di competizione e dalla presenza di un eccentrico e fenomenale allenatore con un iconico accento americano che la notte si ricicla come commentatore televisivo delle partite NBA trasmesse sui nuovi canali televisivi del gruppo Mediaset: “Mamma, butta la pasta, qui il vostro Dan Peterson da…” E davanti alla televisione, in una calda ed afosa Reggio Calabria di quest’estate del 1987, c’è anche un bambino, originario di Philadelphia, giunto da un paio d’anni al seguito del padre, che dopo una mediocre carriera nella NBA, ha deciso di provare l’avventura cestista italiana. Il nome di questo bambino è Kobe Bryant; il suo destino è quello di continuare l’eredità di Magic ai Los Angeles Lakers e diventare il volto più noto della NBA nel millennio a venire.
Essere un bambino italiano, bianco, fanatico di basket, negli anni ottanta, è stata un’esperienza confusa. Non posso nemmeno immaginare ciò che abbia significato per un bambino afro-americano in Italia.
Tutti i miei eroi erano neri. Sì, certo, c’erano alcuni buoni giocatori bianchi, ma non erano dominanti come gli afro-americani. Poi c’era Bird, ma, ovviamente, i mie amici tifavano i Celtics e Bird, quindi io mi sentivo in dovere di tifare i Lakers e Magic. Poi, di Magic, mi affascinavano le giocate brillanti, la capacità di passare la palla negli spazi più stretti, l’intelligenza geniale. Tuttavia, erano anche gli anni in cui alle scritte “via i terroni”, che coprivano i muri lungo la strada verso la scuola media, si aggiungevano le parole “via i n-”. E quando chiedevo chi fossero i n-, la risposta era “bestie che vengono da sotto la Terronia.”
Erano questi “n-” gli stessi che giocavano allo sport che più amavo? Perché, a guardarli, mi sembravano tutti uguali. Tra l’altro, uno di questi, Hakeem Olajuwon, la star degli Houston Rockets, veniva proprio da quei territori “sotto la Terronia”, lo avevo letto su Superbasket. Quindi, se erano uguali, perché tutto questo odio, quando, nell’unica cosa che contava in quel momento della mia vita, ovvero giocare a pallacanestro, erano di gran lunga superiori a qualunque bianco?
Ero un bambino, mentirei se sostenessi che già allora avevo una coscienza antirazzista. Anche perché sui quotidiani ed al telegiornale non si accennava affatto ai linciaggi, ai pestaggi, al lancio nel vuoto dalla finestra di una palazzina in costruzione del giovane Fouad Khaimarouni, alle fiamme che avevano bruciato vivo Ahmed Ali Ghana, colpevole di sporcare con la sua pelle il marciapiede dove dormiva; sebbene di padre italiano, poche righe pure per Giacomo Valent, assassinato da due compagni di classe con 63 coltellate. Piuttosto, la cronaca era piena di questi energumeni assassini, borseggiatori e spacciatori venuti dal continente nero per derubare il bravo ed onesto cittadino italiano. In Italia, mi avevano insegnato, “il razzismo non esiste; o, se esiste, è un fenomeno superficiale, passeggero, non ha radici profonde come negli Stati Uniti.”
Ciò che mi lasciava perplesso, e non capivo, era perché, allora, Magic che, si sapeva, era piuttosto lento, ma compensava con eccezionale lucidità tattica, incredibile visione di gioco ed intelligenza sopraffina, veniva descritto nei nostri quotidiani come un animale selvaggio ed irrazionale, mentre Bird, provocatore, testa calda e noto per la sua fisicalità, diventava un fine calcolatore? Forse i giornalisti sportivi italiani non capivano nulla di basket?
Da “la Repubblica”, 28 giugno 1987, un giorno prima della sfida tra i Detroit Pistons ed i Boston Celtics: “Larry Bird e Magic Johnson sono i Coppi e Bartali del basket professionistico americano. Simboleggiano due differenti stili di gioco, due personalità diverse, due modi di essere campionissimi. Dividono a metà i tifosi, tra chi si identifica nel calcolo razionale, nella perfezione computerizzata di Bird, e chi preferisce lo splendore irrazionale, la magia funambolica (“Il mio gioco è selvaggio e pazzo,” dice lui) di Johnson.”
[parte 1 di 4 – segue] Leggi tutte le 4 parti:
The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (1/4)
The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (2/4)
The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (3/4)
The clutch – canestri e razzismo sotto pressione (4/4)
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