Inno a Lagioia ( seconda parte )
di
effeffe
Qui la prima parte.
Ne La città dei vivi, la questione dell’identità sociale, ovvero voler essere come ci siamo costruiti agli occhi del mondo, non mi sembra l’unico paradigma in grado di stabilire una genealogia di quel terribile fatto di cronaca. 1
I fatti di cronaca
Un tema secondo me interessante e per nulla banale riguarda il sempre maggiore interesse del pubblico dei lettori e degli scrittori verso i fatti di cronaca. In francese si definiscono faits divers e sappiamo da un’inchiesta pubblicata su Le Monde che già qualche anno fa lo spazio dedicato a questo tipo d’informazione nei telegiornali era aumentata del 73 % » 2 .
Roland Barthes vi ha dedicato un saggio molto interessante nei suoi Essais critiques, formulando alcune possibili risposte a quella strana curiosità morbosa che ci spinge ad attardarci sulle pagine di cronaca come quando si rallenta in autostrada davanti a una scena d’incidente. Scrive Barthes:
L’assassinio politico è dunque sempre, per definizione, un’informazione parziale; il fatto di cronaca, al contrario, è una informazione totale, o più precisamente, immanente; contiene in sé tutto il suo sapere : non c’è bisogno di sapere nulla del mondo per consumare un fatto di cronaca; non rimanda formalmente a nient’altro che a se stesso; naturalmente, il suo contenuto non è estraneo al mondo: disastri, omicidi, rapimenti, aggressioni, incidenti, furti, stranezze, tutto rimanda all’uomo, alla sua storia, alla sua alienazione, alle sue fantasie, ai suoi sogni , alle sue paure: un’ ideologia e una psicoanalisi dei fatti di cronaca sono possibili, ma qui si tratta di un mondo la cui conoscenza non può essere che intellettuale, analitica, elaborata a un grado secondo da colui che parla del fatto di cronaca, non per quello che lo consuma; a livello della lettura, tutto è dato in una notizia; le circostanze, le cause, il passato, l’esito; senza durata e senza contesto, costituisce un essere immediato, totale, che non rimanda, almeno formalmente, a nulla d’ implicito; è in questo che si apparenta al racconto o alla favola, piuttosto che al romanzo. È la sua immanenza che definisce il fatto di cronaca.3
Qualche giorno fa, parlando con un’amica che fa una tesi sulla storia del genere giallo in Italia, a un certo punto, un po’ scherzando un po’ no, le ho detto che tutte le grandi e medie case editrici coinvolte nel successo del noir avrebbero dovuto versare un obolo alle vittime dei grandi fatti di cronaca italiana del decennio che va dalla fine degli anni novanta, a cominciare dal caso di Annamaria Franzoni passando per Erba e Novi Ligure fino ai nostri giorni. L’idea che mi sono fatto e che un giorno mi piacerebbe approfondire è infatti che l’esplosione del genere in Italia deve in parte la propria fortuna ai milioni di spettatori di quelle vicende che non trovando una logica in quei fatti, nemmeno alla fine degli iter processuali, hanno dato fuoco alle polveri rifugiandosi nella narrativa per soddisfare la propria sete di verità e razionalità, trovare un ordine al caos.
Per quanto riguarda il testo di Roland Barthes mi concentrerei invece sull’ultimo passaggio per chiedermi: La città dei vivi, di Nicola Lagioia va letto come un romanzo? A differenza di quanto è stato scritto e detto dell’affiliazione di quest’opera a due grandi prove romanesque, A sangue freddo di Truman Capote e L’adversaire di Emmanuel Carrére, direi che invece sia più giusto inserirlo in quella corrente inaugurata da Gomorra e infelicemente raccontata dai Wu-ming del New Italian Epic. Dico infelicemente perché se il paradigma usato dal collettivo bolognese degli Oggetti narrativi non identificati (anche chiamati UNO: Unidentified Narrative Objects) mi era sembrato allora e ancora oggi un’intuizione piuttosto “felice” e preziosa, dall’altra trovai poco esaustiva la catalogazione delle opere proposte, come del resto Carla Benedetti aveva già fatto notare con un bellissimo articolo uscito sull’ Espresso e in versione integrale su Primo amore.
La città dei vivi, a mio avviso risponde ad ognuna delle qualità evocate dal pamphlet dei Wu-Ming, con un elemento in più, secondo me, legato essenzialmente alla mutazione del paesaggio generale avvenuta in quest’ultimo decennio e principalmente del mondo dei social.
Del resto, in una sorta di quasi decalogo (undici raccomandazioni) che in una lettera ai genitori Marco Prato scrive prima del tentativo di suicidio, leggiamo al punto 6:
Buttate il mio telefono e distruggetelo insieme ai 2 computer. Nascondono i miei lati brutti.
A differenza delle intercettazioni, articoli di giornale, dichiarazioni, sentenze, la parte del leone, seppure da tastiera, nella ricerca delle fonti, qui la giocano gli sms, i thread su facebook, tutto quel materiale immateriale che definisce oggi quello che siamo e soprattutto quello che non vorremmo essere. Ecco che il motore di tutto il libro, la ricerca della verità di una vicenda che sfugge al nesso di causalità centrale in un delitto, ovvero il suo movente, gira a vuoto creando un rumore di fondo assordante. Ripercorrendo le pagine di una narrazione sapientemente costruita, nella successione di coro e protagonisti di quella triste vicenda ho ripensato a un altro efferato delitto, quello di Marta Russo del 1997, di fatto rimasto sospeso alle imprecise sentenze, noto alle cronache come Omicidio della Sapienza.
Ad accomunare i due “casi”, l’opacità del movente, “futili motivi”, e il processo mediatico intentato dalla pubblica opinione. Nei due casi gli assassini erano figli di borghesi, nel secondo caso con l’aggravante di essere degli intellettuali, e le vittime persone semplici. “Un povero ragazzo ucciso barbaramente da due porci schifosi assassini nullafacenti figli di papà. Commento facebook“.
Les fouilles de Rome
Il PM incaricato del caso seguito da Lagioia si chiama Scavo. Gli scavi in francese sono les fouilles. Fouiller significa rovistare tra detriti per trovare monili, i resti di una civiltà, le tracce della storia, rovine significative. Roma è un cantiere permanente, un pozzo in cui tutto sprofonda, sembra suggerirci Nicola Lagioia. Scrive l’autore a un certo punto, “la gente rovistava nei cassonetti” mettendo in relazione tre azioni distinte dello stesso corpo sociale, guidate dallo stesso istinto, sapere: la verità, la storia e cosa si mangerà se qualcosa è rimasto.
Proprio in questa “obliquità” della narrazione di Lagioia, per riprendere una delle categorie del NIE, (New Italian Epic), tra le varie vicende e destini evocati, ne emerge una Capitale ormai ridotta al suo teatro più sanguinoso, il Colosseo dominato da topi e gabbiani, e dove i barbari sono i provinciali, come l’autore, me e anche te, caro lettore.
La crudelà del milieu frequentato da Manuel Foffo e Marco Prato, raccontata da Lagioia è spaventosa al punto di farci pensare che i veri mostri sono qui, fuori come quando leggiamo i dialoghi che l’autore riesce a scambiare con quei sedicenti amici, provinciali insediati a Roma e al libro paga di genitori rimasti al “paesiello”.
Ecco perché quando ritroviamo l’umanità del colonnello Donnarumma, che come un Virgilio guida l’autore nell’inferno dei faits divers, tiriamo un sospiro di sollievo per degli scampoli di controcanto al rumore di fondo, al coro ( il terzo capitolo porta proprio questo titolo) di una tragedia dove non c’è più tragico. Un altro momento particolarmente forte è l’incontro tra Manuel e Roberto suo fratello perché sembra dirci che quello è il momento di tregua che il diabolico, il luciferino, concede agli umani. Come scrive Lagioia:
l’omicidio getta su carnefice e vittima la sua luce ed è sempre una luce parziale, una luce perversa, l’omicidio è il male e il male è narratore della storia.
Nulla sembra portarci fuori dal mistero dell’animo umano se non il mistero stesso? ci chiediamo allora con Nicola Lagioia.
Per tentare una risposta a tale interrogativo vorrei concludere questa mia lettura con un ritorno al punto da cui eravamo partiti, ovvero dal bellissimo saggio Loin de moi, Etude sur l’identité di Clément Rosset. Saggio che, vale la pena ricordarlo, si conclude con un vero e proprio inno alla Gioia come anticipato nel titolo di queste note.
A un certo punto Rosset ci racconta di come il conduttore di una trasmissione su France Musique dedicata al grande compositore Maurice Ravel si raccomandasse di non illudersi di rivelare il segreto dell’autore del Bolero, perché “il n’avait d’autre secret que le secret de son génie”. Per spiegare meglio la cosa s’era servito di un aneddoto che un amico gli aveva raccontato. Alla morte del padre tipografo, nel fare l’inventario dei beni presenti, si imbatté su una busta corposa, con su scritto a mano dal padre: si prega di non aprire. Per quanto morisse dalla curiosità di controllare cosa vi fosse all’interno, per molti anni era riuscito a rispettare quella che ai suoi occhi risultava essere la volontà paterna fino al giorno in cui, cedendo alla tentazione aveva aperto la busta scoprendo che all’interno v’erano decine di etichette con la dicitura: si prega di non aprire.
- I fatti:
L’omicidio Varani, risale al 2016. Manuel Foffo e Marco Prato si resero responsabili di un delitto caratterizzato da particolare crudeltà, uccidendo Luca Varani nell’appartamento di Foffo nel quartiere Collatino a Roma, colpendolo con oltre 100 tra martellate e coltellate. Adnkronos↩
- Le Monde.fr, 17 juin 2013↩