Legal Alien, postcards #albania
di Julian Zhara
#covid #2020
Stanno morendo uno dopo l’altro; / buttare la terra sopra le bare / sta diventando un gesto abituale / come buttare il sale sul cibo in cottura. Prima strofa della poesia Si affrettano a morire, di Luljeta Lleshanaku.
#albania #shqipëria
Chiamare qualcosa è darle un posto nel mondo. Chiamare Albania uno stato che si definisce Shqipëria è provocarle una nevrosi: la percezione di sé – anche linguistica – vs. la percezione che il mondo ne ha. Nessun altro paese si riferisce all’Albania come l’Albania si riferisce a se stessa, col nome che evoca l’aquila – shqipe in albanese, significa proprio quello: aquila. Di mio, ammetto che non ho mai visto un’aquila in Albania. Forse perché, a pensarci adesso, mentre stendo queste righe, guardo poco il cielo. Il corpo si espone come cabaret dell’inconscio.
#paradiselost
Un paradiso abitato da diavoli – una frase che mira a descrivere altro (chi vuole, può googlare per scoprirne l’origine) ma che può calzare perfettamente il rapporto paesaggio/uomo in Albania.
I diavoli poi, come ben sappiamo, non sono entità inattive. Agiscono – e i diavoli albanesi, i dreq, gli shejtàn, traducono il paesaggio circostante, un testo in lingua originale, con un alfabeto di cemento e una lingua dove l’armonia, l’eleganza, non si trova a proprio agio. Il mondotesto originale, quel paesaggio albanese che senza nessuna remora iperbolica si può definire paradiso, riporta le pupille allo stato di Adamo. L’incanto è un aggiornamento dei filtri fotografici.
#selfie #selfportrait #unmesedopo
Un mese dopo: il mio albanese si è raffinato, inciampa meno – meno goffo di quando arrivato, zigzaga comunque per arrivare a dire. Nei discorsi con intellettuali e scrittori, discorsi eseguiti in albanese, discorsi che appartengono alla lingua letteraria, e che per me sono paesaggio linguistico italiano, cerco di orientarmi accendendo una luce tricolore dove il buio diventa rossonero. Come un atleta abituato alla maratona, devo reiventarmi nella corsa ad ostacoli, nelle continue barriere architettoniche: dall’atletica al parkour.
#passato #zana #nostalgia
Il passato torna a farmi visita spesso, senza avvisare. Apro e lo faccio sedere. Accompagnato dal bambino che ero. Vado in giro sempre con un grumo di caramelle Zana; se vedo il bambino che ero, gliene offro un paio. Sono ormai introvabili – ho scoperto solo un posto a Durazzo che le vende ancora. Quando ero piccolo le scartavamo, mangiavamo l’interno e usavamo la pellicola rossa come lente per guardare gli altri, o come segnalibri. A casa erano sempre nello scaffale più alto, così non le potevamo raggiungere. Quando bussa il passato, lo accolgo come si accoglievano un tempo gli ospiti: caramelle Zana e liquore di garofano. Likër karafili. Il raki artigianale lo lascio a quando il passato arriva con sconforto, nostalgia. La nostalgia è una forma di lotta – capisco; il rimpianto: un tribunale. Avvocato d’accusa, avvocato difensore, giudice: sempre un pronome, prima persona singolare: io (in minuscolo). Ovunque io vada, non sono altro che / un pezzo di paesaggio del posto a cui appartengo – scriveva Fatos Arapi in Addio.
#mercatodidurazzo #visitalbania
Il mercato di Durazzo è l’Oriente esotico che si sviluppa inaspettato, senza considerare l’occhio del turista. Non si piega alla standardizzazione – esiste nonostante. Fuori dall’immaginario da cartolina, pullula di vitalità – si può dire: esagerata, di urla da una parte all’altra della strada, battute, sorrisi, prezzi contrattati, slogan buffi per attirare la clientela. Visitato dalla gioia, è quanto immaginiamo dell’Oriente dei bazar (in albanese: pazar). Il mercato di Durazzo, quando sei triste, ti risveglia il buonumore, come un quadro di Pontormo dopo le nature morte di Morandi. Dio è il seme di papavero più piccolo al mondo / scoppia di grandezza, scriveva Zagajewski. E Dio qua lo si trova nelle mani di una signora che fila la lana, nel sorriso di un’anziana che vende pannocchie sul ciglio di una strada, nel ciuffo di ҫaj mali (thé di montagna albanese), nel pomodoro cuore di bue aperto a metà, nelle olive di Berat, formaggio di Argirocastro, generosità delle portate.
#italiano #anninovanta #letteraturaitaliana
Negli anni Novanta, l’Albania ha sognato un sogno collettivo, decifrato negli schermi (ekrani) televisivi che trasmettevano film in italiano, cartoni in italiano, programmi tv in italiano. Gli albanesi tifano anche per una squadra di calcio italiana. Chi ha più di trent’anni, l’italiano per lo meno lo capisce; di solito lo mastica – anche abbastanza bene. I primi insegnanti di italiano di chi ha oggi tra i trenta e i quarant’anni, sono stati piccoli problemi di cuore, Sailor Moon, Holly & Benji, è quasi magia Johnny; Mila e Shiro, due cuori nella pallavolo. Celentano accompagna, con le sue hit, ancora molti pranzi e quasi quotidianamente si sente da qualche parte che la felicità è un bicchiere di vino, con un panino – la felicità. Di contro, la letteratura italiana degli ultimi quarant’anni è quasi totalmente assente, nei suoi apici stilistici. Si traduce Moravia. Manganelli, Parise, Mari, Busi, Trevisan, Siti ecc: lost in translation. Dell’italiano, in Albania, sopravvive lo scarto televisivo, l’assenza della complessità dialettale; il passo, la marcia – non la danza.
#berat #visitalbania
Berat è un Argo dai mille occhi a forma di finestra. Patrimonio Unesco dal 2008 e città museo dal 1961. L’azione della storia, nella sua sedimentazione secolare, millenaria, provoca delle leggere vertigini al visitatore. Oggi conserva lo stesso fascino di un labirinto o del ritrovamento di un mammifero preistorico, che si pensava estinto. La strada per arrivare da Lushnje a Berat è una costellazione di ulivi e infinite sfumature di verde, che voglio immaginare – nel dialetto del posto – abbiano tutte un nome, come il bianco per gli eschimesi. Se le campagne circostanti rilassano gli occhi, l’arrivo in città è un sussulto. Non ci si aspetta tanta bellezza e quando la bellezza arriva così, all’improvviso, può sembrare arrogante. Parcheggio nella parte nuova e tornando a piedi, inizio a familiarizzare con questa creatura-città. Capisco che no, Berat non possiede una bellezza arrogante; semplicemente si è impreparati ad accoglierla. Dirompente sì, ma con grazia, ironia. Pare dirti: non pensavi esistessi, eh? E si gira. La si misura coi piedi, ci si inoltra per le viuzze, la sensazione più prossima che riconosco è la prima fase dell’ebbrezza allegra. Poi gioia. Berat si visita con gioia. Di Berat ci si innamora come un adolescente nelle prime vacanze da solo.
#berat #patrimoniounesco #igersberat #comevenezia
Rispetto ad altri centri storici (Argirocastro, ad esempio) Berat si può fruire da più prospettive. Entrando nelle viuzze storiche, col lastricato di pietra, dove le finestre famose si vedono da vicino; dall’alto: la vista dalla collina o dal castello ti offre una panoramica più completa; lungo il fiume, che poi è quanto di Berat si vede di più in foto, google immagini, o cartoline, le due facciate con le famose mille finestre o finestre una sull’altra.
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Come Venezia si può fruire perdendosi tra le calli o sedendosi alle zattere, alla Giudecca, in Riva degli Schiavoni, dove la scenografia dei palazzi di fronte o a lato – pare di essere in un teatro magico, irreale.
#berat #zhara
Mentre attraverso il ponte di Gorica, ripenso a un ragazzo, poco più che adolescente, figlio di un sarto e nipote di un prete ortodosso, che nel ’43 lascia questa cittadina e parte per le montagne, col sogno di liberare l’Albania dagli oppressori. In mezzo alle montagne conosce una ragazzina minuta, bellissima, castana e occhi azzurri, che dopo pochi anni sposa, e con cui fa cinque figli. Fine della guerra, la carriera militare, si stabilizza a Durazzo, conduce una vita felice, una morte serena, non senza essere diventato il campione di backgammon, tra i pensionati nel quartiere. Quel ragazzo è mio nonno, Vangjel (Evangelio) Zhara, partigiano, marito di una partigiana. Disfarsi del nome: accantonare Julian per Zhara.
Molto bello, Julian. Grazie di averlo scritto
Molto bello davvero