Sull’antologia “Nuova poesia americana II”
di Ornella Tajani
Sono sei i poeti statunitensi inclusi nel secondo volume di Nuova poesia americana, a cura di John Freeman e Damiano Abeni, con traduzione di Abeni: in ordine di apparizione, Kim Addonizio, Garrett Hongo, Lawrence Joseph, Kay Ryan, Aracelis Girmay, Kevin Young.
Un’antologia poetica plurale, che appare senza testo a fronte, è un’operazione culturale di considerevole portata: sia per la selezione di voci operata (i cui criteri sono riassunti qui dal traduttore), sia per la restituzione dei testi nella sola lingua d’arrivo, il che rimette ogni responsabilità nella diffusione delle opere a chi traduce. Il pubblico italiano leggerà questi/e autori e autrici attraverso gli occhi di Abeni, imparerà a conoscerli nelle sue parole.
Proprio per questo una antologia di tal tipo è un oggetto poetico affascinante, che ha sì a che vedere con la mediazione culturale, ma è anche – come ogni traduzione – una operazione apertamente creativa:
Io rivendico drasticamente il diritto di chiamare poesie le mie traduzioni. Distaccandomi nettamente dall’ambiguo enunciato di Umberto Eco, “Dire quasi la stessa cosa”, asserisco l’unicità e la radicale originalità di un nuovo oggetto che scaturisce da una forma data e da un significato ineludibile,
spiega Abeni in un articolo, che funge da racconto della propria esperienza traduttiva complessiva; resta un po’ di rammarico per l’assenza di una vera e propria nota nel volume. Si può dunque invitare a leggere Nuova poesia americana II riflettendo – repetita iuvant – sull’importanza del ruolo di chi traduce, sulla portata del suo lavoro.
Alla fine della bella introduzione, di cui pubblico i primi tre paragrafi, ricordando la presentazione del primo volume di questa antologia, Freeman scrive:
Ricordo che mentre ascoltavo le parole di Robert Hass, Natalie Diaz, Robin Coste Lewis, la cui produzione copre un lasso di tempo di quarant’anni, e sentivo la poesia respirare in una lingua nuova, ho pensato a quanto può essere solida una poesia ben tradotta. A quanto nobiliti la distanza che ci separa. Una poesia ben tradotta può rammentarci che siamo soli, ma se è una buona poesia, ci ricorderà anche che siamo soli insieme. Che conforto è questo, perfino in tempi bui.
Una poesia ben tradotta nobilita la distanza che intercorre fra due testi, due culture, due soggetti: è una prospettiva ampiamente condivisibile, che getta luce su come la distanza non possa essere cancellata (il che condurrebbe a ciò che Henri Meschonnic definiva annessione), ma implica un’operazione di decentramento, come ho già ricordato altre volte, ad esempio qui. Freeman sottolinea non solo che questa distanza non va nascosta, ma anche ch’essa costituisce in fondo l’essenza della bellezza della traduzione.
Pubblico dunque una parte dell’introduzione e, a seguire, tre poesie.
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dall’introduzione di John Freeman
Non conosco luogo capace di farti sentire più solo dell’America. I suoi paesaggi, così maestosi, austeri, brutali, così giganteschi nelle proporzioni, possono farti sentire piccolo, ma a esser piccoli non è detto che ci si senta soli. Sentirsi soli significa percepire troppo chiaramente i propri confini, i propri limiti. E gli Stati Uniti sono speciali in questo. Da noi puoi sentirti solo in mezzo a una folla, in città, o in famiglia, a un ricevimento di matrimonio, a una festicciola casalinga. Lo stile di vita americano esala solitudine come fumo da una ciminiera. Il punto è che ci hanno detto di essere individui, i nostri miti popolari ce lo ribadiscono in continuazione. Canta di te stesso, esorta il nostro grande poeta Walt Whitman.
Questo «io» minuziosamente plasmato e interpretato sta proprio alla base dell’innovazione e dell’impertinenza della poesia americana. Ma nel tempo ha prodotto isolamento. Uno che parla di sé, d’altro canto, è uno che non ascolta, immerso com’è in se stesso. La nostra liberazione, in questo senso, può costituire una prigione, mentale quanto spirituale. In un arco temporale di due secoli si potrebbe tirare una linea e unire Whitman a Twitter, Facebook, Instagram, tutte tecnologie che pur mettendoci in contatto ci hanno isolato più che mai. Per non parlare dei cosiddetti «fatti alternativi» e delle fake news che continuano a diffondere. Il famoso verso di Whitman «Io celebro me stesso, / e canto me stesso» che compare in Foglie d’erba è annegato nel mare della pandemia insieme a duecentomila persone, per poi riemergere sotto forma della più grande menzogna mai pronunciata dal nostro attuale presidente: I alone can fix it, Solo io posso sistemare le cose.
Invece non può, ma la buona notizia è che la poesia è un’ottima candidata a ricucire il tessuto strappato della nostra collettività. Se l’isolamento è il prodotto più diabolico della società americana, la poesia è il suo formidabile antidoto. Leggere buona poesia in America oggi è sentirsi meno soli nella propria disperazione, nel proprio desiderio, nella rabbia e nel dolore […].
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Garrett Hongo, La leggenda
A Chicago nevica piano
e un uomo ha appena fatto il bucato della settimana.
Esce nella penombra della sera incipiente
con una borsa di plastica sgualcita
piena di indumenti ben piegati,
e, per un attimo, gusta la sensazione
di tepore del bucato e della carta spiegazzata,
come di flanella sulla mano non guantata.
C’è un lucore rembrandtiano sul suo volto,
un triangolo arancione nel cavo della guancia
mentre un’estrema vampa di tramonto
incendia le facciate dei negozi e le finestre accese sulla strada.
È asiatico, tailandese o vietnamita,
magrissimo, vestito poveramente
con pantaloni stropicciati e un impermeabile scozzese,
sporco e troppo grande.
Cammina con cautela sul lustro del ghiaccio
sul marciapiedi accanto alla sua auto,
apre la portiera posteriore della Fairlane,
si china per sistemarci il bucato
e si volta, per un istante,
verso la raffica di passi
e le grida dei pedoni
mentre un ragazzo – altro non era –
esce camminando all’indietro dal negozio di liquori sull’angolo
sparando con una pistola, facendo fuoco,
un solo colpo, all’uomo attonito
che cade in avanti
portando le mani al petto.
Suoni gli fuoriescono dalla bocca,
un farfuglio che nessuno capisce
mentre la gente gli accorre attorno
sbigottita da quel suo discorso.
I rumori che emette non significano nulla per loro.
Il ragazzo è sparito, perso
nella sparsa schiera del traffico pedonale
che screzia la neve di impronte nuove.
Stasera leggo del grande coraggio
di Cartesio nel dubitare tutto
tranne la propria esistenza miracolosa
e mi sento così distinto
dall’uomo ferito che giaceva sul cemento
che ne provo vergogna.
Lasciamo che il cielo notturno lo ricopra nello spirare.
Lasciamo che la fanciulla tessitrice attraversi il ponte del paradiso
e gli stringa le gelide mani.
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Kay Ryan, Nuove stanze
La mente deve
riadattarsi
ovunque va
e sarebbe
comodissimo
imporre le sue
vecchie stanze – basterebbe
picchettarle
come una tenda
interiore. Oh, ma
i nuovi fori
non stanno dove
prima c’erano
le finestre.
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Kevin Young, Lettere dalla Stella Polare
Cara, le luci qui non chiedono
niente, il bianco cade
attorno alle mie lettere muto,
inarrestabile. Ti scrivo
dalla pancia vuota del sonno
dove niente tranne il freddo
si chiede dove vai;
nessuno qui scuoia teste aspre
e da poco come limoni, e solo
l’auto canta AM tutta
notte. In città
ho visto bimbi mezzo-
morsi dal vento. Perfino i treni
arrivano senza un’anima
che li accolga; le cose qui
non hanno bisogno di me, questo mondo
balla da solo. Solo i ponti
mi implorano di renderli
famosi, di imparare quello
che mi ero quasi dimenticato del volare,
del librarsi liberi, verso sud,
giù. Ciao. Baci e abbracci.
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Chissà se ci sarebbe stata tutta questa attenzione malsana alla mancanza di testo a fronte se avessero pubblicato «nuova poesia russa», o «cinese», o «svedese»…
Gentile Paolo, non è affatto un’attenzione malsana, al contrario: l’interesse di una pubblicazione di questo tipo sta a mio avviso proprio nell’assenza di testo a fronte, mi sembra di dirlo chiaramente quando definisco questa antologia un oggetto poetico affascinante.
Ovviamente le antologie poetiche vengono pubblicate con testo a fronte anche da altre lingue meno note dell’inglese, si veda ad esempio il recentissimo volume Einaudi dal titolo “Poeti giapponesi”.
Ho “conosciuto” Abeni nella sua traduzione di Ocean Wong, amatissimo. Trovo interessante, molto interessante, questa voce del traduttore che rivendica la sua voce poetica. Curiosissima di fare questo nuovo viaggio nella poesia.
Abeni e’ bravissimo, molto esperto e grandemente introdotto nell’universo socio-culturale dei poeti che traduce, quindi non improvvisa di certo. L’intenzione di ri-scrivere le poesie nella lingua d’arrivo e’ del tutto lodevole, finanche entusiasmante nel senso che il canovaccio di partenza e’ largamente validato, dunque e’ come mettersi dentro una Formula 1 e girare in circuito. E’ uno sport estremo che in passato ho provato a praticare anch’io, nel quale il testo originale fornisce il sottostante steineriano di forza artistica di cui magari non si disporrebbe in proprio. Piu’ modernamente, il testo originale funge da semilavorato ed il traduttore lo mette in forma da tornitore, fresatore, cesellatore.